Parricidi: Debenedetti legge Pirandello

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Di Franca Angelini. 

Il candore di Pirandello dipinge – secondo Bontempelli – la morte e auspica la vita (uno schema simile a quello del saggio desanctisiano su Leopardi); da questa intuizione derivano sia il catalogo delle cose morte sia la formula felice del “dramma della nascita” come cifra di tutta la scrittura pirandelliana

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Debenedetti legge Pirandello
Giacomo Debenedettti

Parricidi: Debenedetti legge Pirandello

da: http://www.giacomodebenedetti.it/

Strani i giochi di prospettive e di trompe-l’oeil che la storia della letteratura provoca nella memoria: Debenedetti, nostro contemporaneo a pieno titolo, è un quasi-contemporaneo di Pirandello, che pensiamo invece come un classico del primo Novecento.

Ma la lunga recensione a Una giornata di Pirandello pubblicata da Debenedetti nel “Meridiano di Roma” dell’8-15 agosto 1937 [1] ricorda che Pirandello è appena morto e che questa recensione è contemporanea a un’altra famosa orazione funebre, quella di Bontempelli alla Regia Accademia d’Italia, del gennaio, intitolata “Pirandello o del candore[2] orazione centrata sulla capacità del drammaturgo morto di guardare il mondo con occhi ingenui e di conservare intatta una memoria infantile, memoria di una vita primitiva felice di cui punge ricordanza e nostalgia: candore o, come Cocteau lo chiamava, angelismo (chi ha visto il film di Handke-Wenders Il cielo sopra Berlino sa cosa intendeva Bontempelli).

[1] Questo e i saggi di Debenedetti successivamente citati sono contenuti in Saggi critici. Prima serie, Milano, Mondadori, 1952; Garzanti, 1955; poi in Opere 1 a c. di C. Garboli, Milano, Il Saggiatore, 1969 e in Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1971.

[2] In M. Bontempelli, Introduzioni e discorsi, Milano. Bompiani. 1964

Nello stesso anno 1937 Bontempelli scriveva un saggio dedicato a Leopardi “l’uomo solo”, altro “candido” insieme a San Francesco e altro mito poetico anche di Debenedetti.

I due critici, il più anziano e il giovane, cercano un autore attraverso i suoi personaggi o meglio cercano, attraverso questi, il personaggio-autore: tutti e due rispondono, a loro modo, alla domanda: Pirandello chi? Bontempelli riusa una sua categoria, quella del candore, già applicata al personaggio femminile di Minnie: ci richiama l’origine della parola poetica, anteriore alla parola della ragione, cercata da Mallarmé: ci richiama lo sguardo meravigliato e la memoria intatta; nel caso del drammaturgo siciliano il candore sottolinea il carattere visionario del suo teatro mentale, il suo essere invaso dai personaggi anziché sceglierli e selezionarli, il suo antiintellettualismo.

II saggio di Bontempelli, attraverso il candore, sottrae Pirandello alla sua presunta filosofia, al corto circuito filosofare-filosofare male cui lo sottoponevano, per opposte ragioni, sia Tilgher sia Croce; per questo comincia da qui un nuovo rapporto tra Pirandello e i suoi lettori, un rapporto “candido” ora nel senso di una ricerca in cui i suoi fantasmi, il corpo della sua fantasia e l’organizzazione della sua “camera della tortura” sono al primo posto.

Non a caso, l’abbiamo già ricordato, Bontempelli scrive nello stesso anno 1937 un saggio sull’ “uomo solo” Giacomo Leopardi: è questo il titolo di una raccolta di novelle di Pirandello ed è anche la conclusione della recensione di Debenedetti a Una giornata: « La meta ultima ha ricuperato le origini: la poesia delle creature, dell’uomo solo ». Bontempelli Debenedetti Pirandello tra loro e attraverso Leopardi colloquiano sulla solitudine dell’uomo moderno; in più Pirandello attua, secondo Debenedetti, una totale identificazione coi suoi personaggi, una miracolosa identificazione attraverso il Cotrone dei Giganti della Montagna, mago come Prospero, uomo solo come lo scrittore. che lo inventa: « Quell’uomo solo così tormentosamente cercato si ritrova essere lui, l’autore, per miracolo prosciolto dai personaggi e perfino dalla tentazione dei personaggi ». Attraverso Leopardi si stabilisce un corto circuito tra i due critici; ancora a partire dal saggio bontempelliano su Pirandello.
Il candore di Pirandello dipinge – secondo Bontempelli – la morte e auspica la vita (uno schema simile a quello del saggio desanctisiano su Leopardi); da questa intuizione derivano sia il catalogo delle cose morte sia la formula felice del “dramma della nascita” come cifra di tutta la scrittura pirandelliana: «Quel mondo di stanzucce, scialletti. lettini di ferro, spalle strette, finestre sul vicolo, luci stentate, anime chine, piccole croci » disegna l’universo delle novelle pirandelliane come “un cimitero”; [3] ma è la morte da cui nasce la vita e il dramma della nascita, del vivere a ogni costo di queste creature morte alla società.

[3]Ibid. p. 15.

Per rispondere, Debenedetti disegna un vero repertorio del detestabile attraverso la fisiognomica dei personaggi, angeli decaduti dal cielo neutro del loro essere all’orrore della società e dell’esistere. Chi si salva in questa galleria di crani calvi, vene gonfie, braccini scheletrici. visi animaleschi, tic scimmieschi che Pirandello disegna come impietosi grotteschi nella moderna civiltà ?

Coloro che non hanno bisogno di essere guardati e ritratti, coloro che. si sottraggono al gioco; gli uomini soli, coloro che da angeliche creature decadono e accettano il loro destino di personaggi. Memore della caduta, della catastrofe che l’ha messo al mondo, il personaggio vuole tornare alla solitudine creaturale; liberarsi del corpo e, come in una miniatura medievale, risalire là donde. è precipitata l’anima.

Da questo punto di vista centrale, Debenedetti può scartare il teatro pirandelliano come «pantografo che… ingrandì le proporzioni del successo» e può scartare il pirandellismo della critica – che pure ha creato quel successo – perché complice con il suo presunto pensiero e perciò obbligato alla sua divulgazione: mentre una critica antagonistica, capace di sfondare l’apparenza di quel mondo, darà tutti i suoi frutti, come mostrano sia il Bontempelli dell’orazione funebre sia il Savinio lettore dei Giganti della Montagna. [4]

[4] A. Savinio, Palchetti romani, Milano, Adelphi, 1982.

La lettura delle novelle di Una giornata annuncia la sua specifica qualità, la rivendicazione al piacere del testo che il critico tramanda; da Debenedetti chiamata «poesia del critico » cioè « l’amabile e lusinghiera naturalezza delle impressioni di lettura ». [5]

[5] G. Debenedetti, Saggi critici. Seconda serie, Milano. II Saggiatore- 1971, p. 293 e passini 275-279.

Debenedetti legge Pirandello
La lapide in ricordo di Giacomo Debenedetti collocata nel 1987 a Torino, in corso San Maurizio 52

Di qui l’intreccio tra categorie di ordine psicologico e referenze letterarie; la detestabilità e i connotati negativi dei personaggi indicano il pessimo rapporto tra scrittore e sua creatura, una mancanza di carità che definisce il visionario, colui che fa dipendere da se stesso e dalla sua volontà la rappresentazione del mondo. Pirandello visionario mostra il luogo donde provengono e quello in cui agiscono: la « ribalta illuminata, sulla superficie di quel lungo e gremito e dolorante altorilievo che riveste tutta l’opera pirandelliana »; decaduti da anime a carne, da creature a personaggi, brutti perché astiosi, risibili nella tragicità della loro condizione, iniziano « la giusta, la naturale pena, che è quella di entrare nel dramma ». Di qui i corollari detti, di cui però è importante ricordare il valore del “prima” – il momento del candore bontempelliano – cui i personaggi anelano tornare “come in un coro inconscio”; un prima che Debenedetti chiama “purezza della fantasia” « dall’inferno delle concretezze dove il visionario costringe il poeta a tradirsi in immagini troppo repentine, come di febbre e di delirio ».

La legge del personaggio, sovrana, crea lo stile, il recitativo ansioso, il movimento verbale. Subentrano a questo punto, alle categorie psicologico-esistenziali, quelle letterarie riguardanti il linguaggio, la lingua e lo stile. « II movimento è allora arrestato dalla improvvisa importanza di una parola singola, che sfora sul recitativo e s’impiglia in se stessa »; dalla metafora musicale del recitativo Debenedetti risale al tempo della narrazione, fuori della durata, in un presente “senza storia né avvenire”, dannazione dell’eterno presente, dell’assenza di musica e certo possiamo dire: di musica proustiana.

Per raggiungere la musica, « Pirandello doveva liberare le sue creature dal personaggio », ma la figura di questo riscatto e quella della morte, realizzata nel mondo delle apparenze corporee.

I Giganti rovesciano il tema dei Sei personaggi perché qui la creatura è liberata attraverso e non contro il personaggio, cioè nel passaggio da personaggio all’incarnazione che Ilse compie del giovane poeta: mentre Cotrone rappresenta l’uomo ritornato solo, fuori della società, come Vitangelo Moscarda. E qui non manca una analogia con Prospero della Tempesta shakespeariana.

Dunque. alla domanda iniziale su quale sia il rapporto tra lo scrittore e i suoi personaggi, il saggio risponde con una identificazione: l’uomo solo « si ritrova essere lui, l’autore, per miracolo prosciolto dai personaggi… ». Ma quando arriva a questa conclusione – quasi una rivelazione o un coup de scène – il lettore si accorge che Debenedetti ha costruito un racconto, dalla lotta tra l’autore e il personaggio alla morte dell’autore attraverso la morte dei personaggi.

Un racconto critico o un saggio-racconto rigorosamente antimetodico. Debenedetti pone domande ai testi e ascolta le loro risposte senza disdegnare che la storia di un autore abbozzi le linee di un racconto, comprendente tutti i racconti da lui scritti.

Trent’anni circa separano il saggio su Una giornata e i due sui Quaderni di Serafino Gubbio operatore e su Fu Mattia Pascal resoconti di lezioni universitarie tenute negli anni 1961-62 e 1962-63. Nel corso di questi trent’anni molte cose cambiano; l’autore si chiama ora narratore, il panorama è ora quello del romanzo europeo e il personaggio si chiama personaggio-uomo. In questi successivi saggi Debenedetti risponde a una nuova domanda, già posta da Sartre: che cos’è la letteratura e anche perché il romanzo e quale. Dopo la teoria e i modelli proposti da Lukács. Dunque se parlando di Una giornata abbiamo dovuto evocare altri critici e specialmente Bontempelli, qui dobbiamo evocare: altri scrittori accanto a Pirandello. il contesto è ora prevalentemente letterario perché è solo nella letteratura che sta la risposta a queste domande.

Si ricorderà che nel 1961 c’era stato un Congresso Internazionale di Studi Pirandelliani (gli Atti usciranno a Firenze nel 1967) che segna un’epoca e quasi una rinascita sia per la critica sia per le edizioni e per le rappresentazioni.

Debenedetti accompagna e spessissimo precede i temi di questa rinascita: entra da lettore nel mondo vastissimo del romanzo borghese naturalista e antinaturalista e qui riincontra Pirandello che «all’avanguardia dell’arte europea e mondiale è già cosciente che la forma e I’architettura tradizionali del romanzo e del dramma sono messe in forse dal contrappunto, dal basso ostinato del romanzo e del dramma dell’autore che li scrive». [6]

[6] Il romanzo del Novecento, cit., p. 257

Qui avevamo lasciato e qui riallacciamo le fila del discorso su Pirandello.

Oltre le etichette letterarie – che Debenedetti ignora come inessenziali – c’è un legame da lui individuato tra la scrittura del passata prossimo e quella del suo Novecento: sta in un emblema, quello della uccisione del vecchio, del parricidio, che ossessiona scrittori diversi e Iontani e li avvicina, li fa parlare tra loro. E il parricidio secondo Debenedetti è in letteratura, l’uccisione del naturalismo.

Vediamo la successione dei saggi critici che introducono alla sua lettura pirandelliana: da Tozzi e Kafka alla Figlia Iorio ai Quaderni di Serafino Gubbio operatore (edizione 1925, cioè l’anno sia del suo primo saggio su Proust sia dell’uscita dei Faux-monnayeurs).

Come si vede. sono spezzati e ignorati gli schemi delle letterature italiane, le categorie che raggruppano e differenziano gli scrittori, mentre si insegue il senso ultimo, il motivo per cui la letteratura ci parla. ci chiama in causa non solo con quanto dice ma ancor più con quanto tace, mediante il testo e il sottotesto, per usare un termine teatrale più che psicoanalitico.

Ancora un’analogia: Con gli occhi chiusi, romanzo con cui Debenedetti apre la sua lettura del parricidio come emblema del suo Novecento, è recensito anche da Pirandello. sul “Messaggero della Domenica” del 13 aprile 1919; Tozzi si presta ad essere un autore-schermo per un’ambiguità che Pirandello condivide, quella tra naturalismo e suo contrario, una psicologia per simboli scavata sulla carne viva del personaggio.

E proprio la nozione di naturalismo ad aprire le porte che mettono in comunicazione Tozzi, attraverso Kafka e D’Annunzio, e Pirandello; Debenedetti disegna una serie di ritratti di grandi evirati dalla dipendenza paterna, a partire dal padre di Pietro in Tozzi e da quella situazione archetipica del pranzo osservato dal figlio con timore, disgusto e invidia verso la voracità paterna.

La linea del romanzo da Tozzi a Pirandello segnala la pena di una perdita nello scrittore senese, un furore di constatazione. una feroce forza di svelamento nel siciliano: il passaporto al romanzo moderno è dato dalla coscienza di un tramonto di quello tradizionale « minato dal contrappunto, dal basso ostinato del romanzo e del dramma dell’autore che li scrive ».

Di qui la definizione, per i Quaderni pirandelliani, di “romanzo da fare” (definizione già usata dallo scrittore per i Sei personaggi. imitatissima poi).

Debenedetti. non più solo “critico” ma anche “professore”, ripercorre. con ricca articolazione illuminata proprio dalla posizione della sua analisi, dopo Tozzi-Kafka-D’Annunzio, lo stesso schema che sosteneva la recensione a Una giornata: dalla chiamata in causa dell’autore (qui attraverso il problema dell’identità di Serafino Gubbio) ai procedimenti fisiognomici “espressionisti” (altro termine poi molto indagato dalla critica successiva) alla scoperta dell’ “occhio interiore”, che Serafino chiama l’oltre, connotazione così del cinema come del sottosuolo, zona buia assai simile all’inconscio.

Qui Debenedetti procede solo, da lettore, in un testo poco letto e niente apprezzato dai suoi contemporanei; ed anche qui arriva a una morte, simbolica e letteraria.

I Quaderni di Serafino infatti disegnano, secondo Debenedetii, la parabola della fine del romanzo naturalista attraverso un elemento strutturale (l’autore che rinuncia al romanzo e adotta invece la forma diaristica del “quaderno”) e un elemento tematico (lo choc della macchina che riproduce e ammazza incamerandola l’immagine della vita). Come diceva Franz Marc, l’arte era morta dentro una piccola bara, la macchina fotografica.

In conclusione, l’arte è per Pirandello strumento di conoscenza e la novità della sua posizione sta nel perseguire intrepidamente « questa operazione dopo aver constatato l’irreparabile scacco della conoscenza »: dallo scacco della ragione Pirandello usa la ragione per trovare le ragioni dello scacco.

Un anno dopo (1962-63), ancora da critico professore, Debenedetti. andando indietro nel tempo, incontra Mattia Pascal e scrive un saggio riassuntivo dimostrando quanto era affermato in Una giornata; essere cioè Pirandello scrittore strutturato in modo da consentire che, attraverso un’analisi di una singola opera, si compia un’analisi globale della sua scrittura.

Il testo campione è quello dello strabico bibliotecario dalla doppia vita. i cui caratteri – secondo Debenedetti – coincidono con quelli della forma letteraria entro cui si muove. L’Impasse di Adriano, reincarnazione di Mattia, sarà perciò quella del romanzo; egli non può rinascere perché non è morto, non è morto perché non è nato, non è nato – si scusi il gioco verbale – perché non è morto il personaggio naturalistico; l’autore non ha avuto il coraggio di ucciderlo. Come invece altri autori, in altri paesi, con altre epifanie. In estrema sintesi, Debenedetti sacrifica a queste epifanie la sua lettura del Mattia Pascal; l’ingegneria del romanzo non gli piace, il personaggio è ancora vittima di questa ingegneria. Naturalmente il giudizio può essere esattamente rovesciato:, l’omologia tra personaggio e struttura del romanzo li valorizza entrambi perché entrambi orchestrati non sulla morte del personaggio naturalista, ma sul doppio del personaggio e sulla simmetria della struttura narrativa come strumenti altri – e precisamente pirandelliani – di uccisione del romanzo naturalista.

Altre notazioni, per lo più di tipo sociologico, colpiscono invece nel saggio (e fanno scuola): le note sul gioco, sulla roulette, sul reportage, sul turismo, sull’orizzonte d’attesa del lettore di romanzi sono consentite sia dalla libertà del critico rispetto alle consuetudini accademiche sia dalla sua storia di umanista che vuole andare d’accordo con le scienze. sia dal panorama europeo su cui distende i suoi colori. Panorama di una cultura letteraria che gli consente sia la variazione logico-linguistica (il confronto tra umorismo e retorica) sia la variazione tematica (il confronto tra Pirandello, Gide e Dostoevskij intorno al sacro).

Torniamo al parricidio, filo invisibile non solo di questi saggi ma forse dell’intero percorso critico di Giacomo Debenedetti: attraverso tre date e saggi fondamentali. Il primo è la Commemorazione di Proust, dove sì legge che i personaggi hanno imposto « la ricerca della paternità », cioè il rapporto morale che li lega al loro creatore; l’ultimo è la Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo del 1965 in cui si celebra la barbarica uccisione della figura umana perpetrata all’antiromanzo contemporaneo; in mezzo ci sono i saggi su Pirandello, feroce odiatore ma non uccisore del padre.

Ma c’è anche la Probabile autobiografia di una generazione (1949) e la sua mitica conclusione per figurare il destino del critico e quello del poeta:

Orfeo non riporta nel mondo la viva Euridice, riporta vivo invece il racconto di come l’ha perduta, e la bellezza del proprio pianto. Il critico rifà il cammino di Orfeo, guidato da quel racconto e da quel pianto, e riconduce viva Euridice, per aiutare se stesso e gli uomini a capire perché sempre si rinnovino quella perdita. quel racconto, quel pianto, e valgono per tutti, e ciascuno vi ritrovi il proprio mito che ricomincia. [7]

[7] In Saggi critici, Prima serie cit., p. 16.

Il poeta dunque compie l’esperienza della morte, il critico quella del viaggio, da cui trae un racconto che deve aiutare gli uomini a vivere. Mai abbastanza si dirà la consistenza morale di quest’idea del critico; mai abbastanza si dirà che Giacomo Debenedetti non è il critico psicologico, ma il critico degli scrittori della psicologia e del personaggio.
Altro il suo dilemma.
La lettura dei suoi saggi mostra insieme desiderio e terrore del parricidio, quel bisogno di cui anche Saba parla di uccidere i padri per cambiare ma anche una grande paura che questo avvenga.
In termini letterari, Debenedetti apre e non risolve il dilemma tra uccidere il padre e essere il padre; cioè uccidere, mediante i suoi saggi critici, l’autore di cui si occupa, ucciderlo mediante l’interpretazione strenua di quanto ha scritto; ed essere lui stesso l’autore di un racconto, magari come quello di Orfeo, che racconta il suo viaggio per riportare in terra Euridice e per aiutare gli uomini a capire.

Franca Angelini

Giacomo Debenedetti

Biella, 25 giugno 1901
Roma, 20 gennaio 1967

Biografia

Da Dizionario Biografico degli Italiani – Treccani

Giacomo Debenedetti
Giacomo Debenedetti

Nacque a Biella (Vercelli) il 25 luglio 1901 da Tobia e da Elena Norzi. Di origine “ebraica al cento per cento”, visse nella città natale fino a quando nel 1913. con i genitori e il fratello Corrado, si trasferì a Torino. In piena guerra mondiale, al compimento dei sedici anni, il dolore lo colpì due volte: il 3 nov. 1917 gli morì il padre e il 30 novembre dello stesso anno perdette anche la madre. Lo zio e tutore Alessandro Debenedetti accolse i due nipoti fratelli nella sua casa di corso S. Maurizio 36, in riva al Po. Nel 1917-18 il D. frequentò il biennio preparatorio presso il politecnico di Torino, sostenendo tutti gli esami con i massimi voti (salvo che in geometria descrittiva e disegno geometrico). Quell’apprendistato, che il D. ricorderà spesso negli scritti dell’età matura, lascia segni produttivi in tutta la sua opera come “lavoro in corso” promosso e positivamente incentivato dallo stretto rapporto tra attività letteraria e svolte filosofico-scientifiche del pensiero contemporaneo (psicanalisi, fenomenologia, sociologia, marxismo, passaggio dalla fisica meccanicistica alla fisica dei quanti).

Dopo le matematiche, gli studi giuridici e gli emergenti interessi letterari lo portarono nel 1921 a laurearsi in giurisprudenza all’università di Torino (punteggio 110, lode e pubblicazione), discutendo con F. Solari una tesi in filosofia del diritto sulla Filosofia civile di GDRomagnosi; in seguito la dissertazione ottenne il premio Dionisio. Ma a “lavorare letterariamente sulla letteratura” il D. aveva già cominciato verso il 1920. Nella Torino della strategia industriale e delle lotte operaie – mentre la Fiat di G. Agnelli si sviluppava al terzo posto tra le industrie italiane e i lavoratori occupavano le fabbriche nel settembre 1920 – gruppi nuovi di giovani, politici militanti come A. Gramsci, P. Gobetti, e intellettuali “letterati” come M. Fubini, A. Monti, N. Sapegno, U. Morra, distaccandosi dai quadri della vecchia intellettualità agivano storicamente da “spiriti liberi” sulle riviste gramsciane Energie noveOrdine nuovo e sulla imminente, gobettiana Rivoluzione liberale.

In un ambiente simile, culturalmente libero e antifascista, il D. risulta una figura di studente e di laureato abbastanza singolare, entusiasta e contrariato, che coltiva “le matematiche severe con un amore stranamente estetico”. Matematica, legge e in seguito lettere contraddistinguono la trafila dei suoi studi umanistici. Nella Torino gobettiana, gramsciana e operaia, il D. iniziò la sua “carriera di frequentatore attivo delle lettere”, fondando con S. Solmi, E. F. Sacerdote e M. Gromo la rivista letteraria mensile Primo tempo. Del periodico uscirono dieci numeri (sette fascicoli) dal maggio 1922 al dicembre 1923. Nell’articolo-manifesto Constatazioni il giovane D. attribuì la crisi della cultura postbellica in Italia al proliferare delle mitologie irrazionalistiche e attivistiche; distinse nettamente Croce, “genio della cultura nostra” dagli “sciocchi”, inintelligenti crociani; ipotizzò nuovi modelli culturali che al fare letterario concedevano più larghi, autonomi spazi- metodologici nel rispetto della pluralità di tensioni che dovranno guidare il lavoro critico. Alle Constatazioni segue, nel n. 4-5, Sullo “stile” di Benedetto Croce, un saggio che, convertendo a “ro manzo cosmico la prosa del filosofo napoletano coi suoi episodi tipici e plastici di vita morale”, chiarisce il crocianesimo sul generis professato dal D.: un capitolo di debiti e di insolvenze insieme destinato a concludersi, più avanti, in termini negativi.

Polemici, sempre in Primo tempo, ai nn. 6 e 7-8, i due interventi su Michelstaedter (oscuro simbolo dell'”inespresso”, all’opposto della armoniosa chiarezza crociana) e su Boine (nel quadro della cultura modernista, “bizzarra coesistenza di ingegno e di complicazione”). Vero e proprio saggio di “somiglianza” e forte, congeniale pronostico, La poesia di Saba (nel n. 9-10, dove compaiono del poeta triestino i sonetti dell’Autobiografia e de I Prigioni) sostiene i moventi autobiografici, l’eccezionalità etnica e culturale dell'”uomo intero”, di un “temperamento d’uomo”; componendo già per l’autore dei Versi militari, della Casa di campagna e de L’amorosa spina la “cronaca interna” di un profilo aperto e totalizzante in direzione psicanalitica.

Dietro la pressione crescente e tragica degli avvenimenti (delitto Matteotti e opposizione aventiniana, reazione fascista, discorso e colpo di Stato mussoliniano del 3 genn. 1925), i redattori di Primo tempo, e il D. tra essi, passarono nelle file de Il Baretti, la nuova “rivista di scrittori giovani” pensata e fondata da P. Gobetti nel dicembre 1924 dopo che a Rivoluzione liberale fu interdetta ogni possibilità di operare sul terreno dell’azione politica. Il rigore etico-scientifico osservato dal D. nel trattare le verità dell’arte si incontravano con le istanze illuministiche e civilmente europee del Baretti, dove pubblicò i paragrafi su Radiguet (Cauto omaggio a Radiguet, 10 febbr. 1925; Vera natura dei romanzi di Radiguet, 16 apr. 1915) e i saggi Proust 1925. Proust e la musica (1927), e Commemorazione di Proust (1928), tutti e tre questi ultimi raccolti nei Saggi critici (Torino 1929). La rete delle collaborazioni, dai periodici culturali e letterari (Il ConvegnoSolariaRassegna musicaleL’Italia letteraria), si allargò anche a quotidiani come la Gazzetta del popolo L’Ambrosiano. Per le edizioni torinesi del Baretti pubblicò nel 1926 il suo primo libro, Amedeo e altri racconti, scritto all’inizio del 1923, a poco più di vent’anni.

Nella nota in calce alla ristampa (Milano 1967) di Amedeo – compreso Amedeo II -, Cinema LibertySuor VirginiaRivieraAmici, i quattro racconti apprezzati da Montale e da Saba ma che spiacquero a Italo Svevo, il D. ne spiega la nascita non tanto sotto “la costellazione proustiana” quanto piuttosto sulla traccia tonale di Bergson e delle Operette morali leopardiane. Il racconto Amedeo, senza “fatti”, è composto interamente dalla durata dei ricordi, dalle analisi di coscienza, dagli “interni” mentali e dai soliloqui del personaggio Amedeo, narcisista di “tragica civetteria”, uomo affetto dal “tedioso bisogno di sapersi eccellente”, eppure incapace di essere “individuo attivo e significante”; il destino di questo alter ego dalla “vita difficile”, riscritto psicanaliticamente (come spiega ancora la nota citata), sarebbe stato quello del figlio del “ghetto”, naturale “candidato psicologico” ai campi di sterminio in un prossimo futuro.

Nel 1927 si laureò in lettere (110 e lode) all’università di Torino, discutendo con V. Cian e C. Calcaterra una tesi sugli esordi di Gabriele D’Annunzio; nel 1941 la rivista fiorentina Argomenti, diretta da Alberto Carocci, iniziò a pubblicarla a puntate col titolo Nostro D’Annunzio e lo pseudonimo G. Orengo (interrotta la pubblicazione, perché la rivista venne soppressa per motivi politici, la tesi uscirà intera col titolo Nascita del D’Annunzio nella seconda ediz. dei Saggi critici, n. 5., Milano 1955). Dopo aver partecipato nell’abbazia di Pontigny, ai convegni 1927-29 indetti da Roger Martin du Gard – dove conobbe Gide, Malraux, Chamson -, nel 1929 raccolse per le edizioni fiorentine di Solaria la prima serie dei Saggi critici (poi rist. nella collana “Il pensiero critico”, Milano 1952).

Il 4 dic. 1930 sposò Anna Maria Renata Orengo; il 24 maggio 1933 e il 12 maggio 1937 gli nacquero i figli Elisa e Antonio. Nell’aprile 1937 si trasferì a Roma, sistemandosi con la famiglia nella zona dell’Aventino. Diverse ragioni lo indussero al trasferimento: l’ambiente culturale torinese diventato sempre meno aperto, stimolante, dopo la vivace stagione gobettiana; gli aumentati interessi collaborativi alla famosa rivista Cinema; il lavoro “clandestino” di sceneggiatore filmico motivato da necessità economiche. Nella capitale non venne tuttavia meno la sua vigile attenzione per i libri e gli autori. Sul Meridiano di Roma (1937-38), facendo parte del comitato direttivo (insieme con A. G. Bragaglia, A. Consiglio, C. Di Marzio, N. Quilici), tenne una rubrica settimanale di letteratura italiana contemporanea; molti articoli li raccoglierà poi nella seconda serie dei Saggi critici (Roma 1945).

Durante questi stessi anni cresce l’interesse per il cinema; nel racconto giovanile Cinema Liberty, che fa parte di Amedeoil venticinquenne D. appare già “convertito” ai riti cinematografici che offrono “al travaglio dei pensieri e alle costose divagazioni della fantasia, un surrogato blando rassicurante”. Dopo aver lavorato nel 1932 presso la casa cinematografica Pittaluga, dall’agosto 1936 al marzo 1938 risulta titolare della rubrica di recensioni cinematografiche sulla rivista Cinema.

La sua lucida competenza di “addetto ai lavori” anche nel settore del cinema – proprio quando la critica cinematografica diventava adulta – rivela intensa ammirazione per la drammaturgia filmica americana (fondata “su impostazioni elementari, di una energia quasi rozza e primitiva”); freddezza invece verso il cinema “industria di stato” tedesco; simpatetico apprezzamento per il cinema francese (Duvivier), impegnato in ricerche di “intelligenza, finezza, spiritualità e buon gusto”. Nel periodo 1937-1943, “cineasta” oltre che “cinecritico”, scrive una ventina di sceneggiature (anonime dopo il 1938 a causa, ripetiamo, delle leggi razziali), collaborando specialmente con Amidei; tra i lavori del D. cineasta ricordiamo le sceneggiature o più spesso cosceneneggiature dei films: Amicizia di O. Biancoli; Partire Le due madri di A. Palermi, La mazurca di papà di O. Biancoli (1938), Cose dell’altro mondo di N. Malasomma (1939), Capitan Fracassa di D. Coletti, Addio giovinezza di F. M. Poggioli, La fanciulla di Portici di M. Bonnard (1940), L’ultimo ballo di C. Mastrocinque (1941), La regina di Navarra di C. Gallone, Don Cesare di Bazan di R. Freda, Gioco pericoloso di N. Malasomma (1942), Il cappello a tre punte Gelosia di F. M. Poggioli, Harlen: di C. Gallone (1943).

Il 13 sett. 1943, dopo l’entrata dei Tedeschi a Roma, il D. sfollò con la famiglia a Cortona, dapprima nella casa di P. Pancrazi, poi nella villa Baldelli, in frazione Cegliolo, dove rimase fino al luglio 1944; nell’agosto, lasciata Cortona, visse a Gragnano presso Sansepolcro, sempre in provincia di Arezzo, ospite dei cognati Gaudioso.

I giorni a Cegliolo sono rievocati dal D. in una lettera a Pancrazi, Testimonianza di gratitudine, che lo stesso Pancrazi raccoglierà nel volume La piccola patriaCronache della guerra in un comune toscanoGiugnoluglio 1944 (Firenze 1946): “Trascorsi quei mesi a Cortona, con Pietro Pancrazi e Nino Valeri e mi misi a studiare Alfieri; in un’Italia e in un’Europa per mesi e anni occupate dai tedeschi, non paia spudorato ricordare come la parola libertà facesse veramente piangere, la parola tirannide veramente fremere. Nel giugno mi riuscì finalmente di unirmi alle formazioni partigiane che operavano nell’Appennino toscano”.

La condizione di ebreo perseguitato dal razzismo nazifascista, le personali, motivate riflessioni “alfieriane” su “libertà” e “tirannide”, la nuova realtà delle classi popolari emergenti dalla guerra e la necessità della lotta per una diversa vita sociale, portarono il D. a militare tra le file della Resistenza da “neofita marxista” (G. Ferrata). Nel medesimo inverno 1943-44 tradusse Un amore di Swann di M. Proust, che verrà pubblicato da Bompiani nel 1948.

Il rientro a Roma nel settembre 1944 e l’iscrizione al Partito comunista italiano furono immediatamente seguiti dalla pubblicazione di due rapporti sulle persecuzioni razziali e sui valori dell’ebraismo: 16 ottobre 1943 (pubblicato a Roma nel 1945, con prefazione di C. Sforza) e Otto ebrei (Roma s. d., ma scritto nel settembre 1944).

La cronaca narrativa 16ottobre 1943 racconta la razzia effettuata nel ghetto di Roma dalle SS al comando di H. Kappler, che in una sola mattinata arrestarono più di mille ebrei destinandoli ai campi della morte, nonostante avessero puntualmente pagato la taglia loro imposta (cinquanta chili d’oro); per forza documentaria ed efficacia stilistica, 16ottobre1943 regge al confronto avanzato da lettori e critici (nel 1947, J.-P. Sartre lo fa tradurre per Temps Modernes) con la Peste di Londra di Defoe e i primi capitoli della manzoniana Storia della Colonna infame. Scritto all’indomani della liberazione dell’Italia centrale, quando ancora durava la guerra e nei paesi liberati si cercava di risarcire con l’amore e la generosità i pochi ebrei scampati ai campi di sterminio hitleriani, Otto ebrei prende lo spunto da un fatto di cronaca politico-giudiziaria: il commissario di pubblica sicurezza Raffaele Alianello, incriminato per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, davanti all’Alta Corte di giustizia che puniva i reati fascisti, dichiarò di aver “subito, per prima cosa, cassato i nomi di otto ebrei” dalla lista iniziale degli ostaggi da fucilare. Deprecando questo pietismo dell’ultima ora verso gli ebrei, il D. si tira addosso l’accusa di ingratitudine; ma oltre a rilevare il “machiavellico” voltafaccia dell’antisemitismo fascista che diventa ipso facto filosemitismo antifascista, il D. intendeva denunciare il perpetuarsi dell’atteggiamento ancora razzista che considerava l’ebreo come altro e diverso, come uomo sempre e comunque da ghetto, vittima predestinata ieri di persecuzioni e oggi di antipersecuzione: “Se prima negli ebrei si puniva l’ebreo, oggi al vedere la situazione non già corretta, ma semplicemente capovolta con sì perfetta simmetria di antitesi, può nascere il dubbio che negli ebrei si perdoni l’ebreo. E il perdono richiama l’idea di una colpa, di un trascorso”.

Rinata l'”aurora della libertà”, il secondo dopoguerra portò il D., “personaggio delicato, elegante, colto e sottile” (A. Moravia), ad un assorbente, versatile impegno di energie civili, politiche, intellettuali. La larga iniziativa culturale debenettiana tende a raccontare le vicende storiche della letteratura italiana dell’Otto e del Novecento, da Tommaseo a Pascoli, a Ungaretti, a Montale, da Verga a Pirandello, rapportate, confrontate sui temi, sulle idee e sui generi con i classici europei, Flaubert e Zola, Proust, Joyce, Mallarmé, Kafka, Camus. Nella nuova maniera esegetica di meditare, riscoprire, ristrutturare la letteratura italiana moderna e contemporanea al vaglio e nel contesto della civiltà europea, il critico D. introduce, mette avanti la storia spesso drammatica del proprio lavoro, del proprio “destino” con le vicende storiche e il destino dell’opera d’arte di volta in volta esaminata. Questa nuova misura del “racconto critico” (secondo la esatta, suggestiva definizione di E. Sanguineti), pronto a diventare confessione, autoanalisi, mimesi, prospetta alcune linee progettuali e di tendenza che per il momento, in fase di proemio 1946-49, si chiamano L’avventura dell’uomo di Occidente (pubbl. sulla rivista olivettiana Comunità, nel marzo e nell’aprile-maggio 1946), Personaggio e destino (letto a Perugia come introduzione alla Settimana dello scrittore, nel settembre 1947). Probabile autobiografia di una generazione (letto nel settembre 1949 a Venezia, al congresso internazionale del Pen Club). Il termine d’arrivo sarà la Commemorazione provvisoria del personaggiouomo, anticipata in parte dalla lettura tenuta alla Mostra del cinema di Venezia del 1965 (nella tavola rotonda sul tema Forme della comunicazione cinematografica anche in rapporto alla narrativa e alle esperienze televisive), con il finale, significante rifiuto di dire addio al personaggio-uomo anche dopo la sua dissoluzione in arte e il trionfo al suo posto del personaggio-particella.

Quanto al tipo di ricerca e alle sedi per realizzare un programma simile, il metodo “non metodico” del D. adotta e pratica la fenomenologia del “ritratto critico”, una forma interpretativa eterodossa sia rispetto al crocianesimo, sia rispetto allo specialismo accademico di stretta osservanza. Attratto e coinvolto nell’operante spessore delle correnti e dei testi campione della cultura novecentesca italiana ed europea, dialetticamente situato in osservazione ai punti nevralgici civili, politici, ideologici, oltre che artistico-letterari dei nostro tempo, il ritratto critico nell’uso aperto di angolazioni e verifiche interpretative bergsoniane, freudiane, pirandelliane (lo “sciopero” dei personaggi, in cerca e in rivolta contro l’autore), introduce e manovra gli apporti di valore e gli strumenti funzionali della contemporanea conoscenza scientifica: da Marx a Lévi-Strauss, dalla fenomenologia di Husserl e di Paci alla “probabilità” einsteiniana, alla fisica delle particelle di Kenneth Ford.Le sedi pratiche, organizzative, di lavoro sono l’insegnamento universitario: dal 1950 a Messina e poi dal 1958 all’ateneo di Roma; e il sodalizio come “operatore di cultura” a partire dal 1950 con Alberto Mondadori nella fondazione e direzione della casa editrice Il Saggiatore (per la quale cura la pubblicazione di oltre 250 volumi). Redattore editoriale eccezionalmente preparato, generoso promotore di cultura senza mai esser servo dell’industria culturale, il D. formulava i suoi “pareri” dignitosamente selettivi e consapevoli nelle frequenti, acute prefazioni scritte per le opere mondadoriane della 44 Silerchie” e nei numerosi, organici risvolti di copertina destinati all’altra collana, “Cultura”, per testi di L. Borges (Storia universale dell’infamia), V. Sereni (Gli immediati dintorni), K. Mann (Finestra con le sbarre),J.R. Wilcock (Luoghi comuni), M. Butor (Una lettera di Baudelaire), D’Arco S. Avalle (“Gli orecchini” di Montale), E. Montale (Auto da fé), Ch. Mauron (Dalle metamorfosi ossessive al mito personale), S.de Beauvoir (Il secondo sesso).

Nel periodo 1950-1955, incaricato di storia della letteratura italiana alla facoltà di lettere dell’università di Messina, tenne corsi su Svevo, Verga (biennale), la poesia di Pascoli (biennale). Le lezioni verghiane 1951-52 e 1952-53 sono state pubblicate sulla scorta. dei relativi quaderni inediti a cura della moglie Renata Debenedetti nel volume Verga e il naturalismo (Milano 1976).

Dopo aver confutato la pretesa crociana della “conversione” di Verga al verismo come spartiacque discriminante tra la mondanità provinciale dei romanzi giovanili e l’anabasi in terra di Sicilia della maturità, il D. individua il “sistema di posti di blocco” che, a partire dai “presagi” di Nedda e della Storia di una capinera, ilgiovane Verga va costruendosi per lasciare libero, imperativo davanti a sé quell’arcaico, fatalistico sentimento del male di vivere che lo porterà a I Malavoglia e a Mastro don Gesualdo.

Anche gli altri quaderni inediti serviti, sempre a Messina, per le lezioni pascoliane 1953-54 e 1954-55 sono stati raccolti e pubblicati da Renata Debenedetti, con la collaborazione di Isabella Gherardini, nel volume Pascolila “rivoluzione inconsapevole” (Milano 1979).

L’originalità della esperienza lirica pascoliana viene fissata nell’obbedienza involontaria all’evolversi della poesia in direzione novecentesca, simbolista ed ermetica, scandendone i due momenti: l’impressionismo del visibile (Myricae) e l’impressionismo dell’invisibile (amore e mito, dal Gelsomino notturno Solon, “la morte come atto d’amore”). I quaderni pascoliani terminano con l’esame di Gog e Magog.

Molto probabilmente il D. pensava a un terzo corso su G. Pascoli per il 1955-56, ma in quell’anno accademico passò al magistero di Messina a insegnare letteratura francese, tenendo un corso su Montaigne. Nel 1957 conseguì la libera docenza in storia della letteratura italiana moderna e contemporanea. L’incarico per questa disciplina presso la facoltà di lettere dell’università di Roma dal 1958 fino all’anno accademico 1967-68 gli consentì di svolgere con sistematica continuità corsi su Niccolò Tommaseo, la poesia ermetica, la storia del romanzo italiano nel primo dopoguerra (proseguito per quattro anni), la storia della critica (“Renato Serra e il romanzo del suo tempo”).

Nei quaderni preparatori per le lezioni 1958-59 e 1959-60 (pubbl. da Renata Debenedetti nel volume postumo Tommaseo, Milano 1971), adoperando “tutti i possibili strumenti di aggressione, storia, sociologia, psicologia, estetica, stilistica”, il D. traccia il destino letterario dello scrittore dalmata, uomo introverso che tenta “l’uscire da sé” fallendo nella vita ma non nella poesia, dove incontra il segno di Dio. Gli altri quaderni per le lezioni 1958-59 hanno visto la luce, sempre a cura di Renata Debenedetti, nel volume Poesia italiana del Novecento (Milano 1974, con intr. di P. P. Pasolini): lo svolgersi della lirica novecentesca in Italia, dalla condizione dell’ermetismo al sorgere opposto della poesia impegnata, viene studiata attraverso sette “ritratti critici” dedicati ad altrettanti poeti: Montale, Ungaretti, Luzi, Saba, Penna, Noventa e Sereni. I temi delle pagine raggruppate sotto il titolo L’ermetismo e Mallarmé risultano anche nella cartella Lezioni tenute all’Università di Budapest nel 1962; la consuetudine del D. con Budapest era dovuta alla sua fervida amicizia col critico marxista G. Lukács. Le lezioni tenute a Roma fra l’autunno del 1960 e l’estate del 1966 sono state raccolte da Renata Debenedetti, con una presentazione di E. Montale, nel volume postumo Il romanzo del Novecento (Milano 1971).

Il volume riguarda le origini – dal 1920 quando appare Tre croci di Tozzi – e gli sviluppi del romanzo contemporaneo in Italia nella trama di continui, motivati riferimenti comparatistici alla coeva civiltà letteraria europea; così Pirandello esprime “un ignoto del personaggio simile a quello degli oggetti che aprono a Proust la loro scorza o si epifanizzano per Joyce”. L’architettura prospettica e discorsiva delle lezioni considera il romanzo europeo del Novecento come uno dei modi di essere “della condizione umana non più omogenea con l’idea tradizionale che avevamo dell’uomo, ridiventata enigmatica perché non sa più le sue ragioni d’essere in un mondo in via di cambiamento così nelle strutture come nelle ideologie”.

Intanto, già dalla fine degli anni Cinquanta, il D. aveva ripreso l’attività di traduttore iniziata nel 1940 a Milano, con Il mulino sulla Floss di G. Eliot. Mentre raccoglieva una terza serie di Saggi critici per la collana “La Cultura.” (Milano 1959), nel medesimo tempo per lo stesso editore Alberto Mondadori traduceva FelicitàQualcosa di infantile ma di molto naturale di Katherine Mansfield; nel 1961 rivedeva integralmente la versione milanese di Esuli di J. Joyce effettuata da C. Linati (per i “Classici contemporanei” mondadoriani, nel 1958, curò l’edizione italiana delle opere di Joyce); nel 1963 ridusse per il teatro stabile di Genova Il Diavolo e il buon Dio di Sartre; nel 1966 tradusse Il tempo degli assassini (Milano), saggio critico su Rimbaud di Henry Miller. La partecipazione al concorso universitario di storia della letteratura italiana moderna e contemporanea, nel 1962, gli provocò la grande amarezza della cattedra rifiutata, nonostante il riconoscimento della maturità. La tappa finale, letterariamente e scientificamente conoscitiva, a cui il D. conduce la storia e la fenomenologia del romanzo contemporaneo è rappresentata da Un punto d’intesa sul romanzo contemporaneo? (letto a Leningrado nel 1963 alla tavola rotonda organizzata dalla Comunità europea degli Scrittori), Il personaggio uomo nell’arte moderna (letto a New York nel settembre 1963, durante il congresso dell’Accademia di scienze biologiche e morali), Commemorazione provvisoria del personaggiouomo del 1965, tre saggi raccolti nel volume postumo Il personaggiouomo (Milano 1970).

Anche mantenendo l’antitesi tra il realismo-naturalismo, necessario nei paesi socialisti, e lo sperimentalismo, necessario e peculiare nei paesi capitalisti, il D. constata per entrambi la convergenza analogica tra la moderna visione del mondo e le ipotesi probabilistiche della fisica contemporanea. Il personaggio uomo, “quell’alter ego, nemico e vicario, che in decine di migliaia di esemplari tutti diversi tra loro ci viene incontro dai romanzi e adesso anche dai film”, può frantumarsi, dissolversi nel naufragio dell’antiromanzo; può beccheggiare tra le tenute a distanza visiva dell’école du regard e le negazioni totali da parte di Jonesco e di Beckett. Eppure, per testimoniare l’homo sapiens di oggi valgono ancora, secondo l’ultimo D., alcuni aspetti visibili nei personaggi, negli homines ficti della narrativa e del cinema più recenti. L’isolamento, l’incomunicabilità, l’estraneità, la insignificanza, la nevrosi, questi predicati attinenti alla nozione di antipersonaggio nel Dottor Zivago di Pasternak e nella Noia di Moravia, nella Jalousie di Robbe-Grillet e nel Capriccio italiano di Sanguineti, come nei film di Antonioni, L’eclisseIl deserto rosso, scoprono e riconfermano “una sorprendente, innegabile contemporaneità col modo odierno di guardare, studiare il mondo”.

Il D. mori a Roma il 20 genn. 1967. Nello stesso anno gli venne conferito il premio dei Lincei alla memoria; aveva ricevuto precedentemente il premio Tor Margana nel 1961 e il premio Fila nel 1962.

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