Legge Lorenzo Pieri.
«E un sapore nuovo ha l’aria, che gli entra nei polmoni, una soavità di refrigerio su le labbra, nelle narici… L’aria… ah, l’aria… Che delizia! La respira… ah, la beve ora, come non l’ha mai bevuta di là, nella vita; come nessuno che stia nella vita, può berla!»
Prime pubblicazioni: Rassegna contemporanea, 10 novembre 1913, poi in E domani, lunedì, Treves, Milano 1917.
Da sé
Legge Lorenzo Pieri
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Un carro di prima classe, con cavalli bardati e impennacchiati, cocchiere e staffieri in parrucca, i suoi parenti non lo avrebbero preso di certo, per lui. Ma uno di seconda, sì; almeno per gli occhi del mondo.
Duecentocinquanta lire: prezzo di tariffa.
La cassa, poi, se pure d’abete e non di noce o di faggio, nuda nuda non l’avrebbero certo lasciata (sempre per gli occhi del mondo).
Coperta di velluto rosso, anche d’infima qualità, con borchie e maniglie dorate: a dir poco, quattrocento lire.
Poi: una buona mancia a chi lo avrebbe lavato e vestito da morto (bel servizio!); spesa per la papalina di seta e per le pantofole di panno; spesa per le quattro torce da accendere ai quattro angoli del letto; mancia ai becchini che avrebbero portato a spalla il feretro fino al carro, e poi dal carro alla fossa; spesa per una corona di fiori, almeno una, santo Dio: poi lasciamo la banda municipale, che se ne poteva far di meno; ma un pajo di dozzine di ceri per l’accompagnamento delle orfanelle del Boccone del povero che vivevano di questo, cioè delle cinquanta lire che si davano loro per accompagnare tutti i morti della città; e chi sa quant’altre piccole spese imprevedibili.
Tutto questo Matteo Sinagra avrebbe fatto risparmiare ai parenti, andando co’ suoi piedi a uccidersi, economicamente, al cimitero, davanti al cancelletto della sua gentilizia. Dimodoché, con pochissima spesa, lì stesso, dopo l’accesso del pretore, avrebbero potuto cacciarlo dentro a quattro assi nude senza neanche dargli una spazzolata, e calarlo giù, dove riposavano da un pezzo il padre, la madre, la prima moglie e i due figliuoli che n’aveva avuti.
I morti hanno l’aria di credere che il forte sia perdere la vita e che tutto sia finito con essa. Per loro, senza dubbio. Ma non pensano all’orribile ingombro del corpo che resta lì duro sul letto uno o due giorni e ai fastidi e alle spese dei vivi che, pur piangendogli attorno, debbono liberarsene. Sapendo quanto costa questa liberazione, in un caso come il suo, cioè di morte in buona salute, i signori morti volontarii potrebbero far due passi fino al cimitero e andare a riporsi tranquillamente da sé.
Ecco: non aveva ormai da pensare ad altro, Matteo Sinagra. La vita gli s’era tutt’a un tratto come votata d’ogni senso. Quasi non ricordava più con precisione ciò che vi avesse fatto. Ma sì, di certo, anche lui tutte le sciocchezze che si fanno di solito. Senz’accorgersene. Con molta leggerezza e grande facilità. Sì, perché era stato anche abbastanza fortunato, lui, fino a tre anni fa. Non gli era mai riuscito nulla difficile; né mai s’era fermato un momento perplesso, se fare o non fare una tal cosa, se prendere questa o quella via. S’era gettato con gaja fiducia a tutte le imprese; s’era incamminato per tutte le vie, ed era andato sempre avanti; superando ostacoli che forse per gli altri sarebbero stati insormontabili.
Fino a tre anni fa.
Tutt’a un tratto, chi sa come, chi sa perché, quella specie d’estro che per tanti anni lo aveva assistito e spinto innanzi, alacre e sicuro, gli s’era spento; quella gaja fiducia gli era crollata, e insieme eran crollate le imprese finora sostenute con mezzi e arti di cui ora, improvvisamente e quasi con sgomento, non si sapeva più render conto egli stesso.
Tutto così, da un giorno all’altro, gli s’era cangiato, oscurato; anche l’aspetto delle cose e degli uomini. S’era trovato all’improvviso a tu per tu con un altro se stesso, ch’egli non conosceva affatto, in un altro mondo che gli si scopriva adesso per la prima volta attorno: duro, ottuso, opaco, inerte.
In prima era rimasto quasi con quello stordimento che il silenzio cagiona a coloro che vivono in mezzo a un fracasso di macchine, allorché d’un subito vengono fermate. Poi aveva considerato la rovina, non sua solamente, ma anche del padre e del fratello della seconda moglie, che gli avevano affidato grossi capitali. Ma forse il suocero e il cognato, pur soffrendo gravi danni, si sarebbero rialzati. La sua rovina, invece, era totale.
S’era chiuso in casa, schiacciato non tanto dal peso della sciagura, quanto dalla coscienza dell’irrimediabilità del guasto misterioso avvenuto così fulmineamente nel congegno della sua vita.
Muoversi? E perché? Perché uscire di casa? Inutile ogni atto, ogni passo; inutile anche parlare.
Zitto, rincantucciato in un angolo, era rimasto a guardar le smanie e le lacrime della moglie disperata, come un insensato. Tutto barba e tutto capelli.
Finché non era venuto sulle furie il cognato a cacciarlo fuori a spintoni, dopo averlo fatto tosare a viva forza.
C’era da fare qualche cosa, da guadagnare dieci lirette al giorno, mettendosi per galoppino a servizio d’una piccola banca agraria, che s’era aperta or ora. Che stava a covare lì su quella sedia? Fuori! Fuori! Non bastava il danno arrecato finora? Voleva anche vivere, con la moglie e le due piccine, alle spalle delle sue vittime? Fuori!
Fuori, ecco qua. Era uscito di casa, da alcuni giorni. S’era messo a fare il galoppino per conto di quella piccola banca agraria. Il cappello spelato, l’abito stinto, le scarpe sdrucite, e un’aria d’allocco che consolava.
Nessuno lo riconosceva più.
– Matteo Sinagra, quello lì?
Non si riconosceva più neanche lui stesso, per dire la verità. E quella mattina, finalmente…
Era stato un amico, un caro amico del buon tempo, a chiarirgli la situazione.
Chi era più, lui? Nessuno. Non solo perché aveva perduto tutto il suo; non solo perché s’era ridotto in quella misera, avvilente condizione di galoppino, con l’abito stinto, il cappello spelato, le scarpe sdrucite. No, no. Non era più, veramente, nessuno, perché non c’era più niente in lui, fuorché l’aspetto (e pur esso tanto cangiato, irriconoscibile!) di quel Matteo Sinagra ch’egli era stato fino a tre anni fa. In questo galoppino uscito or ora di casa né lui si sentiva né gli altri lo riconoscevano. E dunque? Chi era lui? Un altro, che ancora non viveva: che bisognava imparasse a vivere, se mai, una nuova vita, meschina, affliggente, da dieci lirette al giorno. E ne valeva la pena? Matteo Sinagra, il vero Matteo Sinagra era morto, morto assolutamente, tre anni fa.
Questo gli avevano detto con la più ingenua crudeltà gli occhi di quell’amico incontrato per caso quella mattina.
Ritornato in paese dopo circa sei anni d’assenza, questo amico non sapeva nulla della sciagura di lui. Passando per via, non lo aveva riconosciuto.
– Matteo? Ma come? Sei tu Matteo Sinagra?
– Dicono…
– Ma come?
E gli occhi, quegli occhi, erano rimasti a mirarlo con tale espressione di smarrimento e insieme di pietà e di ribrezzo, ch’egli tutt’a un tratto s’era veduto in essi morto, assolutamente morto, senza più neanche un briciolo in sé di quella vita che Matteo Sinagra aveva avuto.
E allora, appena quell’amico, non sapendo più trovare una parola, uno sguardo, un sorriso da rivolgere a quest’ombra, gli aveva voltato le spalle, aveva avuto l’impressione strana che tutte le cose, a un tratto, proprio gli si fossero votate d’ogni senso, tutta la vita gli si fosse fatta vana.
Ma da ora soltanto? – No… Perdio! Da tre anni così… Da tre anni era morto, da ben tre anni… E ancora stava lì, in piedi?… camminava… respirava… guardava?… Ma come?… Se non era più niente! se non era più nessuno! Con quell’abito addosso, di tre anni fa… con quelle scarpe di tre anni fa, ancora ai piedi.
Via, via, via: non si vergognava? Un morto, ancora in piedi? A cuccia, là, al cimitero!
Tolto di mezzo l’ingombro di questo morto, alla vedova, alle due orfanelle avrebbero pensato i parenti.
Matteo Sinagra s’era tastata nel taschino del panciotto la rivoltella, sua fida compagna di tant’anni. E senz’altro, eccolo per la via che conduce al cimitero.
È una cosa davvero divertente, Un godimento inaudito.
Un morto, che se ne va da sé, co’ suoi piedi, piano piano, con tutto il comodo, al suo destino.
Matteo Sinagra lo sa perfettamente, che è un morto: un morto vecchio, anche; un morto di tre anni, che ha avuto tutto il tempo di votarsi d’ogni rimpianto della vita perduta.
Ora è leggero leggero: una piuma! Ha ritrovato se stesso; è entrato nella sua qualità, d’ombra di se stesso. Libero d’ogni ostacolo, scevro d’ogni afflizione, esente d’ogni peso, va a riposarsi comodamente.
Ed ecco: quella via che conduce al cimitero, a farla così da morto, per l’ultima volta, senza ritorno, gli si rappresenta in un modo nuovo, che lo riempie d’una gioja di liberazione, che è veramente già fuori della vita, oltre la vita.
I morti la fanno in carrozza, chiusi e saldati in una doppia cassa, di zinco e di noce. Egli cammina, respira, può volgere il collo di qua e di là, a guardare ancora.
E guarda con occhi nuovi le cose che non sono più per lui, che per lui non hanno più senso.
Gli alberi… oh guarda! erano così gli alberi? erano questi? E quei monti laggiù… perché? quei monti azzurri, con quella nuvola bianca sopra… Le nuvole… che cose strane!… E là, in fondo, il mare… Era così? Quello, il mare?
E un sapore nuovo ha l’aria, che gli entra nei polmoni, una soavità di refrigerio su le labbra, nelle narici… L’aria… ah, l’aria… Che delizia! La respira… ah, la beve ora, come non l’ha mai bevuta di là, nella vita; come nessuno che stia nella vita, può berla! E aria come aria; non respiro per vivere. Tutta questa infinita, avvolgente delizia mica la possono avere gli altri morti, che se ne vanno per quella via in carrozza, tesi, stirati, attufati nel bujo d’una cassa. Neanche i vivi la possono avere, i vivi che non sanno che cosa voglia dire goderla dopo, così, una volta e per sempre: eternità viva, presente, fremente!
Ancora è lunga, la via. Ma egli già potrebbe fermarsi qui; è nell’eternità; vi cammina, vi respira, in un’ebrezza divina, ignota ai vivi.
– Mi vuoi? Portami con te…
Un sasso. Un sasso della via. E perché no?
Matteo Sinagra si china, lo raccatta, lo pesa nella mano. Un sasso… Erano così i sassi? erano questi? Sì, eccolo: un piccolo frantume di roccia, un pezzo di terra viva, di tutta questa terra viva, un frantume dell’universo… Eccolo qua: in tasca; verrà con lui.
E quel fiorellino?
Ma sì, anch’esso, qua qua, all’occhiello di questo morto, che se ne va da sé, così alieno e sereno e felice, coi suoi piedi, alla sua fossa, come a una festa, col fiorellino all’occhiello.
Ecco l’entrata del cimitero. Un’altra ventina di passi, e il morto sarà a casa sua. Niente lagrime. Ci viene da sé, con passo svelto, e con quel fiorellino all’occhiello.
Fanno un bel vedere questi cipressi di guardia al cancello. Oh, è una casa modesta, in vetta a un poggio, tra gli olivi. Ci saranno, sì e no, un centinaio di gentilizie, senz’alcuna pretesa d’arte: cappellette con un altarino, il cancelletto e un po’ di fiori attorno.
E proprio, per i morti, una dimora invidiabile, questo cimitero. Lontano dal paese, i vivi ci vengono di raro.
Matteo Sinagra entra e saluta il vecchio custode che sta seduto davanti all’uscio della sua casetta, a destra dell’entrata, con lo scialle bigio di lana su le spalle ed il berretto gallonato sul naso.
– Ehi, Pignocco! Pignocco dorme.
E Matteo Sinagra resta a contemplar quel sonno dell’unico vivo fra tanti morti, e – in qualità di morto – ne prova dispiacere, una certa irritazione.
S’ha un bel dire. Fa bene ai morti pensare che un vivo vegli sul loro sonno e stia in faccende sopra la terra che li ricopre. Sonno sopra, sonno sotto: troppo sonno. Bisognerebbe svegliare Pignocco; dirgli:
– Eccomi qua; sono dei tuoi. Sono venuto da me, co’ miei piedi, per far risparmiare un po’ di soldi ai miei parenti. Ma è questa la cura che tu ti prendi di noi?
Oh via, che cura, povero Pignocco! Che bisogno di custodia hanno i morti? Quando ha annaffiato qua e là qualche ajuola; quando ha acceso in questa e in quella gentilizia qualche lampadino che non fa lume a nessuno; quando ha spazzato le foglie morte dai vialetti; che altro gli resta da fare? Non fiata nessuno lì dentro. Il ronzio delle mosche allora e il lento stormire degli smemorati olivi sul poggio lo persuadono a dormire. Sta in attesa anche lui della morte, povero Pignocco; e in quest’attesa, ecco qua, provvisoriamente dorme sopra i tanti morti che dormono per sempre sotto.
Forse si sveglierà tra poco, allo scoppio secco della rivoltella. Ma forse, neppure. E così piccola la rivoltella, e lui dorme così profondamente… Più tardi, verso sera, allorché prima di chiudere il cancello, si recherà in giro a fare un’ultima ispezione, troverà un ingombro nero in quel vialetto, là in fondo.
– Oh! E che roba è questa?
Niente, Pignocco. Uno che deve andar sotto. Chiama, chiama che gli apparecchino il letto, giù, alla meglio, senza tanti riguardi. Per risparmio di spese ai parenti è venuto da sé, e anche per il piacere di vedersi così, prima, morto tra i morti, a casa sua, arrivato a destino in buona salute, con gli occhi aperti, in perfetta coscienza. Lasciagli in tasca il sasso che si è seccato anch’esso di stare al sole su la strada. E lasciagli anche il fiorellino all’occhiello, che è la sua civetteria di morto in questo momento. Se l’è colto e se l’è offerto da sé, per tutte le corone che i parenti e gli amici non gli offriranno. E qua ancora sopra la terra; ma è proprio come se fosse venuto da sotto, dopo tre anni, per curiosità di vedere che effetto fanno sul poggio queste tombe gentilizie, queste ajuole, questi vialetti inghiajati, queste croci nere e queste corone di latta nel campo dei poveri.
Un bell’effetto, veramente.
E zitto zitto, in punta di piedi, Matteo Sinagra, senza svegliare Pignocco, s’introduce.
È ancora presto per andare a dormire. Vagherà per i vialetti fino a sera, curiosando (da morto, s’intende); aspetterà che sorga la luna, e buona notte.
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