Come prima, meglio di prima – Personaggi, Atto primo

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Premessa
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

En Español – Como antes, mejor que antes

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Come prima meglio di prima - Atto I
Marina Malfatti, Laura Carli, Come prima meglio di prima. 1990. Immagine dal Web.

Personaggi

Fulvia Gelli, (Flora e Francesca)
Silvio Gelli, suo marito
Livia, loro figlia
Marco Mauri
La zia Emestina Galiffi
Betta, vecchia governante
Don Camillo Zonchi
La vedova Nàccheri
Giuditta, sua figlia
Il fattore Roghi
Il signor Cesarino, organista e maestro di musica
La signora Barberina, sua moglie
Un commesso di negozio
Giovanni, giardiniere
Una bambinaja

Il primo atto in un paese della Valdichiana; il secondo e il terzo, in una villa presso il lago di Como. – Oggi.

1920
Come prima, meglio di prima
Atto Primo

       Al levarsi della tela sono in iscena Don Camillo Zonchi, il fattore Roghi, la vedova Nàccheri e sua figlia Giuditta. Queste due sul pianerottolo della scaletta dell’orto, in fondo, guardano giù nella vallata, la Nàccheri con un binòculo, la figlia Giuditta facendosi solecchio d’una mano, se da lontano lontano, sulla via che sale al colle, si scorgano le vetture di ritorno dalla stazione ferroviaria. Don Camillo Zonchi e il Roghi sono nella sala; questi, seduto su una seggiola presso il canapè; l’altro in piedi.

La vedova Nàccheri, sui cinquant’anni, ha un curioso parrucchino ondulato fìtto fitto e pieno di riccetti sulla fronte, stretto in una reticella. Il volto magro, angoloso, dagli occhi calvi, biavi, infossati, dà l’impressione d’una maschera, tutto bianco com’è di cipria e goffamente ritinto; ma con l’orribile effetto d’un teschio imbellettato. Veste giovanilmente, costringendo la vecchia persona a una ridicola snellezza e a una buffa formosità. Parla a scatti e con quasi legittimo impero al cognato; con piglio scostante, alla figlia, di cui è gelosa; agli altri, con una languida importanza di decaduta signora.

La figlia Giuditta ha ventott’anni: abbandonata dal marito, è umile e trasandata; capelli cascanti, viso giallo incavato, e un’aria smarrita di povera bestia raccolta per carità.

Don Camillo Zonchi ha cinquantaquattr’anni: canonichetto della Collegiata e maestro di scuola. È un omarino bruno, itterico, nervoso, con occhietti cattivi. Sopporta lo scandaloso impero della cognata friggendo d’umiltà vergognosa. Padrone della Pensione, vi figura da ospite della Nàccheri, a cui, almeno in apparenza, ne lascia il governo. È senza sottana, con una lunga giacca di saja nera; colletto da prete fissato alla sottoveste; calzoni a mezza gamba; calze lunghe di lana e fibbie d’argento alle scarpette.

Il fattore Roghi, sulla quarantina, è un omaccione pesante, triste, dalla barba non rifatta da parecchi giorni. Ha una giacca alla cacciatora, un vecchio cappellaccio bianco in capo: grossi stivaloni da campagna con sproni.

Una sala della Pensione Zonchi: vasta sala di vecchia casa a cui l’intonaco nuovo non riesce a mascherar la vecchiaja. Un ampio e alto uscio a vetri nel mezzo lascia scorgere la scura saletta d’ingresso, che ha in fondo, a sua volta, un usciolino aperto sulla scaletta dell’orto, di cui si vede il pianerottolo con la ringhierina di legno verde, scolorita. Lo sfondo, oltre questa ringhierina, è di cielo, e luminoso, perché la casa sorge alta sul colle e da quel pianerottolo si gode la vista della grande vallata e si domina la via che da essa sale al colle, girandolo due volte.

L’uscio a vetri, chiuso, non lascia più intravedere la saletta d’ingresso, perché a una certa altezza ha sui vetri una tendina di mussola celeste, goffa e nuova, fissata rusticamente alle bacchette. Nella sala, il solito arredo delle vecchie pensioni di provincia, disposto con meticolosa simmetria. Una stufa di porcellana; un canapè d’antica foggia, con poltroncine e seggiole imbottite, adorni di cuscini e ricamini fatti in casa; una mensola non meno antica con un grande specchio dalla grossa cornice rameggiata e dorata, coperta da una garza celeste, ingiallita, a riparo delle mosche, vasetti con fiori di carta; una cantoniera con ninnoli di vecchia maiolica; oleografie volgari, un po’ annerite, alle pareti, e un’antica pèndola che batte le ore e mezz’ore con un languido suono di campana lontana. Usci laterali a destra e a sinistra.

Chiara mattinata, sulla fine d’aprile.

       DON CAMILLO (in attesa, rivolto alle due donne che guardano dalla scaletta dell’orto). No, eh?

       ROGHI (dopo una breve pausa d’attesa). Sarà un po’ troppo presto.

       DON CAMILLO (stizzito, in attesa ancora della risposta). Ehi, Giuditta, dico a te!

       LA NÀCCHERI (venendo avanti dalla scaletta, furiosa e schizzante veleno). Crederei che se ci fosse da vedere, tra me e la Giuditta, a me e non a lei dovreste domandare, perché con questo (mostrando il grosso binòculo e pigiando sulle parole) se ci fosse da vedere – vedrei meglio io, che lei.

       DON CAMILLO. Eh no, abbiate pazienza, Marianna. Anche con queste (mostra le lenti e se le inforca sulla punta del naso) tra me e il signor Roghi, vedo sempre meno io, che lui.

       ROGHI. Ah sì, grazie a Dio, la vista…

       LA NÀCCHERI. Ma anch’io, signor Roghi, anch’io! Non ho punto bisogno di lenti io, sa? né per leggere, né per cucire, né per veder qua entro certe cose, che Dio sa se s’avrebbero a vedere!

       DON CAMILLO. Eh via, Marianna! Non è di cose da veder qua entro che si discorre; ma delle vetture giù a valle, Dio bono, se non si scorgano di ritorno dalla stazione.

       GIUDITTA (che ha seguitato a guardare). Eccole, eccole! Già due! Ma vanno in giù! (La Nàccheri corre a guardare col binòculo.)

       DON CAMILLO. In giù? O come in giù? Possibile?

       GIUDITTA. Sì. Eccone un’altra! La vettura di Dodo.

       LA NÀCCHERI. Ma che di Dodo! Quella di Dodo è la prima!

       GIUDITTA. No, mamma; guardate bene: è la terza.

       LA NÀCCHERI i. La prima!

       DON CAMILLO. O la prima o la terza, se vanno in giù…

       LA NÀCCHERI (voltandosi di là verso il cognato, inviperita). Vi dico che è la prima!

       ROGHI. Mi par difficile che si possano distinguere a tanta distanza. Si vedran di quassù piccine piccine, così. (Fa segno sull’indice.) E Dodo, mi scusi, signora Marianna, l’ho visto io partir di piazza dopo gli altri.

       LA NÀCCHERI. Questo non vorrebbe dir nulla, perché ha un cavallo, Dodo, per sua norma, che è un demonio peggio di lui. Anche a partir l’ultimo, arriva sempre il primo.

       GIUDITTA (alla madre, guardando sempre). E difatti, guardi, guardi: ha già sorpassato la seconda e sta per sorpassar la prima. Tant’è vero che è lui! (La Nàccheri scrolla le spalle e viene in sala.)

       DON CAMILLO. Io non so, saran tutte in ritardo stamani. A quest’ora, di solito (la pèndola batte le undici) ecco, sono le undici – gli altri giorni, alle undici, son di ritorno e si vedono alla seconda girata dello stradone su per la costa. A proposito, Giudi… (s’interrompe, imbarazzato, cercando di riprendersi): – cioè, dico…

       LA NÀCCHERI (di nuovo inviperita, chiamando). Giuditta! E vieni, corri qua a sentir che altro vuol domandarti tuo zio!

       DON CAMILLO (c. s.). Ma niente, niente… Volevo dire una cosa… (forzandosi a far viso fermo) una cosa appunto, che mi pareva da domandar a lei piuttosto che a voi.

       LA NÀCCHERI (sfidandolo). E su, ditela! Sentiamo!

       DON CAMILLO (volgendosi al Roghi). Ho insegnato al signor professore, prima che partisse, la malizia di far fermare al ritorno la vettura giù sotto il nostro orto, per tagliar la salita alla scorciatoia, anziché fare, con la vettura al passo, tutta la girata fin quassù in cima.

       LA NÀCCHERI (c. s.). E poi?

       DON CAMILLO. Volevo appunto domandare alla Giuditta, se si era ricordata d’andare ad aprire il cancellino dell’orto giù.

       LA NÀCCHERI. Niente altro? (Rivolgendosi alla figlia, che si tiene in discosto, mortificata): Su, e rispondi a tuo zio, se ti sei ricordata!

       GIUDITTA (guardando in là, infastidita). Ma sì, sì, è aperto.

       LA NÀCCHERI (con un inchino ironico al cognato, come se lo facesse per conto della figlia). È aperto. – Un ordine dello zio! Mi pareva assai che non se ne fosse ricordata! Avesse mai obbedito così a suo marito! Non mi sarebbe rimasta lì melensa per casa; sulle braccia, e così, né acerba, né matura.

       ROGHI. Ma è poi sicuro, don Camillo, che il professore ritornerà stamattina? Non vorrei star qui ad aspettarlo inutilmente.

       DON CAMILLO. Ma che! Per ritornare, ritorna di sicuro!

       LA NÀCCHERI. Vorrei vedere che non ritornasse! – Ah, io sono stufa, sa!

       DON CAMILLO. Per carità, Marianna!

       LA NÀCCHERI. Stufa! stufa! stufa!

       DON CAMILLO. State tranquilla, che ritornerà. – Ma non vi nascondo, caro Roghi, che mi par difficile, difficile per non dire impossibile, che voglia accettare il vostro invito.

       ROGHI. Neanche per un semplice consulto?

       DON CAMILLO. Ma neanche…

       ROGHI. A me basterebbe che me la vedesse, la mia povera bambina!

       DON CAMILLO. Eh, se vi riesce che vi venga a vederla! – Detto e fatto, ve la opera e ve la salva!

       ROGHI. Dio volesse! Verrei a prenderlo subito subito con l’automobile.

       GIUDITTA. Per essere, è la carità in persona!

       DON CAMILLO. Già; ma non può. Capirete, dopo il miracolo di qui…

       LA NÀCCHERI (interrompendo). E giusto qui ci voleva codesto miracolo!

       DON CAMILLO (con un’occhiataccia alla cognata, passando sopra all’interruzione). Sparsa la fama, tutti vorrebbero averlo!

       ROGHI. Ma come jeri, a un bisogno, è andato a Sarteano, così non potrebbe oggi…?

       DON CAMILLO. Non può! Avrà più di venti richieste, a dir poco.

       LA NÀCCHERI. E non ci mancherebbe altro che, per carità degli altri, tenesse qua noi nello scompiglio ancora per un mese!

       DON CAMILLO. Lassù a Merate ha poi la figliuola… avrà i suoi affari. Era venuto qua per un giorno solo…

       LA NÀCCHERI. E ne son passati la grazia di quarantacinque!

       GIUDITTA. Par che la figliuola lassù non sappia ancor nulla.

       ROGHI. Ah sì? Della madre qui?

       DON CAMILLO (ammiccando e accennando con la mano all’uscio a destra). Piano, eh! piano… S’è già levata di letto. (Misteriosamente al Roghi): Ah, caro Roghi, come non siamo tutti esciti di cervello, io non lo so!

       ROGHI. Con quel giudice, eh?

       DON CAMILLO (irritato). Ma che giudice! Ma che giudice! Non diciamo giudice, per carità!

       GIUDITTA (molle molle, afflitta). Un matto, s’ha a dire!

       DON CAMILLO (incalzando). Da legare, s’ha a dire!

       GIUDITTA (lamentosamente). Quel che ci fece vedere!

       DON CAMILLO (collerico, incalzando ancora). Il diavolo! Tutti i diavoli dell’inferno! Non mi ci fate pensare!

       LA NÀCCHERI (che è stata a mirarli, zio e nipote). Attento veh, attento, signor Roghi, come parlano adesso tutt’e due.

       DON CAMILLO (stordito). O come parliamo?

       LA NÀCCHERI. Una, molle molle: (rifacendole il verso con voce nasino): «Quel che ci fece vedere!». E lui, là, come il rum che dà grazia alla ricotta: (rifacendo il verso anche a lui): «Il diavolo! Tutti i diavoli dell’inferno!».

       ROGHI (non potendo tenersi di ridere). Avete voglia di scherzare, signora Marianna!

       DON CAMILLO. Già! Come se proprio ne fosse il momento… O che non è vero che qua s’è visto il diavolo?

       LA NÀCCHERI. Ma no, eh, che non istà bene, il diavolo in casa d’un sacerdote come voi. Il terremoto, si dice! E creda, signor Roghi, che mi sarei tanto spassata, io, a vederli ballare tutt’e due, zio e nipote, se per causa loro non fosse toccato di ballare anche a me!

       DON CAMILLO. Se si potesse saper prima le cose!

       LA NÀCCHERI. Gran merito allora, saperle dopo!

       DON CAMILLO. Potevo mai supporre che il marito dovesse accorrer qui?

       LA NÀCCHERI. Ma sì che potevate, se lo chiamaste proprio voi!

       DON CAMILLO. Nossignori! Nient’affatto! Io gli scrissi a Merate per il mio ministero di sacerdote, appena ricevuta la confessione.

       ROGHI. Ah, quando la signora si tirò?

       DON CAMILLO. Precisamente. Volle confessarsi. Per morire in pace con tutti, chiese per mio mezzo al marito il perdono de’ suoi trascorsi. Ora il professore poteva rispondere alla mia lettera con un’altra lettera. Nossignori. Per sua bontà, preferì venire ad accordar di presenza il perdono.

       ROGHI. E trovò qui quell’altro?

       DON CAMILLO. Che c’era piombato da Perugia all’alba, poche ore dopo che la signora s’era ferita. Nel trambusto, in principio, non ce n’eravamo neanche accorti.

       GIUDITTA. Non sapevamo chi fosse la signora…

       DON CAMILLO. Si vide lui attorno al letto, che piangeva, piangeva, come non ho mai visto nessuno!

       ROGHI. Eh, l’amante!

       LA NÀCCHERI. Sì, amante… Che amante! – Uno dei tanti. – L’ultimo.

       ROGHI. Ah, perché la signora… Sì, dico, – andata proprio a male?

       LA NÀCCHERI. Ma sì, roba… roba da guerra!

       GIUDITTA. Piano, per carità!

       LA NÀCCHERI. Ih che scrupoli! Non c’è poi mica d’aver tanti riguardi!

       DON CAMILLO. Ma almeno per il professore!

       LA NÀCCHERI. Sì – che vi pagherà le spese. Il fastidio, intanto, non ve lo paga di sicuro! Di due mesi a momenti.

       DON CAMILLO. Oh che discorsi! (Poi, ipocritamente al Roghi): La signora aveva abbandonato da tredici anni il tetto coniugale, e… (Abbandona la frase, socchiudendo gli occhi, a un indulgente gesto delle mani.)

       LA NÀCCHERI (rifacendo smorfiosamente con aria compunta il gesto del cognato). E… e… (Subito, staccando): Qua, dietro l’esempio, caro lei, una voglia abbiamo tutti, ma una voglia di farci male con la indulgenza e la sopportazione, che Dio, si spera, ne vorrà tener conto lassù, perché quaggiù, quanto agli uomini, non si fa che rider di noi, gliel’assicuro io!

       DON CAMILLO. Ma non è vero!

       LA NÀCCHERI (staccando ancora). Oh, ce n’è, dico, di paesi, in Valdichiana; e di pensioni qua, per la cura delle acque, dico, non c’è soltanto la mia! Ebbene: proprio qua doveva capitare codesta signora, e proprio da noi! Ma colpa sua, veh! (Indica il cognato.) Sua, e di quella lì!(Indica la figlia.)

       GIUDITTA. Son io sempre la colpa di tutto…

       LA NÀCCHERI. Se per te non fosse vangelo, sempre, tutto ciò che dice e fa tuo zio! – E così, m’intende, tutti i malanni, alla fine, mi si rammucchiano qui! – Ah, che! Non si maturerà mai nulla qui: (cantarellando) c’è troppe frasche!

       DON CAMILLO. La vidi arrivar di sera, in legno! giusto con Dodo. Sola, mogia mogia, con una valigina… Io ritornavo da scuola…

       LA NÀCCHERI. Non c’ero, io!

       GIUDITTA. Ma noi si disse bene, mamma, che la pensione non era ancora aperta ai forestieri.

       LA NÀCCHERI. E dunque, non si doveva pigliare!

       DON CAMILLO. Di bujo, una signora sola… Insistette, chiedendoci posto almeno per la notte…

       GIUDITTA (scotendo in aria le mani). E la notte…

       LA NÀCCHERI. Un botto, caro lei, nel silenzio della casa, che mi fece springar un palmo su dal letto!

       ROGHI. Ma si tirò proprio al ventre?

       DON CAMILLO. Che! Al cuore aveva mirato…

       LA NÀCCHERI. Lo suppone lui!

       DON CAMILLO. Ma sì! Mano di donna… Premendo il grilletto, la canna – voi capite – s’abbassò. Si ferì al ventre.

       GIUDITTA. Accorremmo tutti. Poverina, sul letto…

       LA NÀCCHERI. Poverina, già!

       ROGHI. Eh via, in quello stato…

       DON CAMILLO. Bianca come un cencio, sorrideva come a chiederci scusa, e diceva che non era nulla… – Lei scappò per il medico. (Indica Giuditta.)

       ROGHI. Il dottor Balla?

       DON CAMILLO. Sapete com’è!

       ROGHI. Se lo so! Mi sta lasciando finir così la mia povera figliuola!

       DON CAMILLO. E anche qui difatti disse che non c’era più da far nulla; quando invece, venuto il professore, si vide che a operarla in tempo non ci sarebbe stato rischio di sorta; mentre, quando poi la operò lui, il marito, dopo quattro giorni, già tutta infetta, capirete, agonizzante, il caso s’era fatto disperato.

       GIUDITTA. E quel matto lì che non voleva! non voleva!

       ROGHI. Ah sì? – L’amante? Oh bella! Non voleva che il marito la operasse?

       DON CAMILLO. Che! Fece il diavolo a quattro! Se la voleva caricar su le braccia e portar via, così moribonda, per non fargliela toccare!

       ROGHI. Oh bella!

       DON CAMILLO. Perché diceva che, se il marito la salvava, era perduta per lui!

       GIUDITTA. Ed era più contento che morisse!

       ROGHI. E il marito? o come fece a sopportarselo davanti, e così accanto alla moglie?

       DON CAMILLO. Se la prese con me!

       LA NÀCCHERI. Che gusto!

       DON CAMILLO. Già, come se non avessi fatto di tutto, io, per farlo andar via, prima ch’egli arrivasse. Non ci fu verso! – Tanto vero che non se ne volle andare, neppur quando arrivò lui, che dopo tutto, ohe, dico, era il marito! (Giuditta a questo punto, si recherà di nuovo infondo a guardare, se si scorgano le vetture di ritorno.)

       LA NÀCCHERI. E come gli tenne testa! Bisognava vedere!

       ROGHI. Sì, eh?

       DON CAMILLO. Col pretesto, capite? che in punto di morte non c’è più gelosie, e che il marito non poteva, dice, adontarsi di lui, dopo tredici anni e dopo ciò ch’era passato. Si dovette mandarlo via con le guardie.

       GIUDITTA (dal pianerottolo della saletta infondo, annunziando). Ecco, ecco, ritornano le vetture! (La Nàccheri accorre come una papera.)

       DON CAMILLO. Oh finalmente!

       GIUDITTA (con un grido di spavento). Oh Dio! Ma è lui! Lui, di nuovo qua!

       ROGHI. Chi lui?

       DON CAMILLO. Il matto? Di nuovo qua?

       LA NÀCCHERI. Lui! sì! lui! lui! – Rièccoci daccapo!

       DON CAMILLO. Ma come! Che altro, ora, vorrà qua?

       GIUDITTA (ritirandosi impaurita). Vien su di corsa! ha scavalcato il murello dell’orto!

       ROGHI. È una bella sfrontatezza!

       DON CAMILLO. E di nuovo in assenza del signor professore! Se lo ritroverà qui tra i piedi!

       LA NÀCCHERI. E come giulivo! Fa i gesti, oh, così… così… (Agita in aria le braccia.)

       DON CAMILLO. Dateci man forte per carità, caro Roghi! Non bisogna farlo entrar qua dalla signora! – Andiamo, andiamo via tutti di là! (Indica la saletta d’ingresso e s’avvia spingendo fuori gli altri.) Chiudiamo quest’uscio! Chiudiamo quest’uscio! (Richiude l’uscio a vetri, andando via col Roghi, con la Nàccheri e Giuditta.)

Quasi contemporaneamente s’apre l’uscio a destra e appare Fulvia Gelli, incerta, sgomenta, pallidissima, come una che sia stata or ora strappata dalle mani della morte. Ha tuttavia negli occhi un che di fosco; e il volto è come indurito, sassificato in una disperazione squallida e cupa. Venuta qui per morire, sprovvista di tutto, levandosi ora di letto, ha indossato – in mancanza d’altro – il suo abito di viandante perduta, che stride, in contrasto con quella disperazione del volto. Stridono ancor più i voluminosi magnifici capelli in disordine, sfacciatamente ritinti d’un color fulvo acceso, che le avviluppano come in una fiamma lingueggiante il volto disperato. Non ha avuto forza d’agganciarsi il busto sul seno, che è quasi scoperto, e provoca, ma frigidamente, poiché ella ha un evidente sdegno e un vero intimo odio per la sua bella persona, come se da un pezzo non le appartenesse più, e non sapesse più neppure com’esso è, non avendo mai, se non con feroce ribrezzo, condiviso la gioja che gli altri ne han preso. Muove alcuni passi per la sala, verso l’uscio a vetri chiuso, attraverso al quale giungono le voci concitate delle due donne, di don Camillo e del Roghi, che cercano d’impedire il passo a Marco Mauri. A un tratto, però, questi, sbarazzandosi di tutti con uno strappo violento, irrompe spalancando l’uscio e si precipita su Fulvia (ch’egli chiama Flora) abbracciandola, stringendola a sé freneticamente. È sulla quarantina, bruno, magro, con lucidi occhi sfuggenti, da matto: quasi ìlari, pur nella più fiera esagitazione, ìlari e parlanti. Fronte rotonda, specchiante. Capelli da negro, crespi e gremiti, ma già in parte grigi, spartiti nel mezzo. Sopracciglia foltissime. Parla e gestisce con quella certa teatralità che è propria della passione esaltata: teatralità calda e sincera, ma che pure, a tratti, quasi vede se stessa, e scatta allora per rimorso in gesti irosi, o scade, quasi in compenso, improvvisamente, in toni confidenziali, che fanno, per contrasto e così senza trapasso, un curiosissimo effetto. Fulvia tenta dapprima di respingere, quasi odiosamente, l’abbraccio; ma poi, investita, soffocata da quella frenesia, nello smarrimento della debolezza che il male recente le ha lasciato, vien meno e s’abbandona come morta tra le braccia di lui).

       MAURI (liberandosi e spalancando l’uscio). Via tutti, vi dico! (Precipitandosi su Fulvia e abbracciandola c. s.) Flora! Flora mia! Flora! Flora! – Libero! Sono libero! Ritorno a te, liberato! – Mi son liberato di tutto e di tutti! (Notando che ella gli s’abbandona tra le braccia, riversa): Flora mia! (A questo grido, don Camillo, il Roghi, la Nàccheri e Giuditta, che sono entrati nella sala dietro il Mauri e, sopraffatti dalla violenza, son rimasti sgomenti e sospesi a mirare il frenetico abbraccio, accorrono premurosi, e minacciosi gridando insieme.)

       ROGHI. Ma non vede, perdio, che non si regge!

       DON CAMILLO. Che violenze son codeste?

       GIUDITTA. È svenuta! è svenuta!

       MAURI. Svenuta? No! no! – Flora!

       DON CAMILLO (aggressivo). La lasci! via! – La lasci, e vada via subito di qua!

       MAURI (senza dargli ascolto, sorreggendo Fulvia). Flora mia… Flora… Flora…

       DON CAMILLO (alle donne). Ma levategliela dalle mani! (Giuditta e la Nàccheri si fanno avanti.)

       GIUDITTA. Dia qua… dia qua…

       MAURI (gridando minaccioso). Non me la tocchi nessuno!

       DON CAMILLO. Non appartiene mica a lei!

       MAURI. Appartiene a me! a me!

       DON CAMILLO. Ah, nossignori! – C’è qua il marito!

       MAURI. E venga! – Dov’è? – Me la strappi dalle braccia, se è buono!

       ROGHI (vedendo Fulvia tra le braccia di lui, così abbandonata, che quasi sta per cadere). Ma la adagi almeno qua, per ora, in nome di Dio! (Indica il canapè.)

       GIUDITTA (accorrendo e aiutandolo a sorregger Fulvia). Qua, venga qua – qua: l’ajuto io!

       MAURI (trasportando Fulvia sul canapè). Non è niente, vi dico! Ora rinviene!

       GIUDITTA. Vado a prendere i sali! (Corre via per l’uscio a sinistra; rientrerà poco dopo.)

       LA NÀCCHERI (al cognato). Ma che siete voi qua? Siete o no il padrone?

       ROGHI (a don Camillo). Questa infine è casa vostra!

       MAURI (subito rizzandosi con gli occhi spiritati, grida sillabando): Nossignori: – Al-ber-go!

       DON CAMILLO (investendolo). Che? dove? quando? Chi gliel’ha detto, albergo? dove sta scritto?

       MAURI. Sulla porta, giù: – Pensione Zonchi!

       DON CAMILLO. Sissignore – ma d’estate! – Ora non è stagione, capisce? ed è casa mia soltanto; e vi ricevo chi mi pare e piace!

       MAURI (gridando). Non strillate così!

       DON CAMILLO (restando, quasi sbalordito). Ah senti: strillo io!

       MAURI. Tanto è inutile: non me ne vado!

       DON CAMILLO. Lei andrà via, andrà via, perché…

       LA NÀCCHERI (intromettendosi e terminando la frase). Questa non è casa vostra!

       DON CAMILLO (seguitando). E non ha più nulla a far qui! Inteso? (Il Mauri per tutta risposta, poiché Giuditta ritorna coi sali, si china su Fulvia per farglieli odorare.)

       MAURI (a Giuditta). – Dia qua! dia qua!

       DON CAMILLO (al Roghi, indicandoglielo). – Là – vedete come intende lui?

       MAURI (chino su Fulvia). Flora mia, son qua io… – Su, via… Sei salva, guarita… E io, libero – libero, sai? E ora ti porto via con me!

       DON CAMILLO (rifacendosi avanti, risoluto). Ah no, sa! Per questo, può star sicuro: – lei non porta via nessuno!

       MAURI. Me l’impedirete voi?

       ROGHI (facendosi avanti anche luì). Potrei, a un bisogno, impedirglielo anch’io!

       DON CAMILLO. Ma no: c’è il marito, caro Roghi, che sarà qui a momenti.

       MAURI. E io son venuto per parlare con lui!

       DON CAMILLO. Vi farà cacciar di nuovo!

       MAURI. Vorrò vederlo! – Non s’era mica uccisa per lui, questa donna! – Per me, per me s’era uccisa. E io, per lei – io, Marco Mauri – ho abbandonato il mio posto, la mia famiglia, mia moglie, i miei figli! (Guardando tutti in giro; poi rivolto al Roghi): Veda un po’ se è possibile, che qualcuno ora mi stacchi da lei!

       DON CAMILLO (vedendo che Fulvia, sorretta da Giuditta, comincia a riaversi e guarda come smarrita). Ma sarà lei… ecco, ora… sarà lei stessa, la signora!

       MAURI (subito voltandosi e accorrendo a lei). Tu, Flora? Mi scaccerai anche tu? (Fulvia leva una mano per tenerlo discosto e si volta verso don Camillo, ancora stordita, ma già fosca.)

       DON CAMILLO. Io la prego di credere, signora, che è entrato a forza, approfittando dell’assenza del signor professore!

       FULVIA (alzandosi). Che volete ancora da me – voi?

       DON CAMILLO. Ecco! Come gli ho detto io!

       MAURI (quasi trasecolato). Flora!… Oh Dio… Mi dà del voi?

       FULVIA (seccata, scrollandosi). Ma se vi conosco appena!

       DON CAMILLO. E voi l’avete ingannata, codesta signora: – Io lo so!

       MAURI (violentissimo). Statevi zitto, voi!

       DON CAMILLO. Ingannata! ingannata! me l’ha detto lei!

       MAURI (a Fulvia). Come! Tu mi conosci appena? Me, Flora? me, che t’ho dato tutta la mia vita?

       FULVIA (con nausea). Ma finite una buona volta di parlare così!

       MAURI (c. s. smorendo). Oh Dio… Come parlo? – Ma tu piuttosto, Flora…

       FULVIA. Io non mi chiamo Flora.

       MAURI. Fulvia, sì, Fulvia, lo so! Ma se volesti tu stessa, che ti chiamassi Flora…

       FULVIA (con crudezza sdegnosa). E volete dire anche come fu, davanti a codesti signori?

       MAURI (ferito). No! – Io? – Ah! – Ma allora veramente tu mi disprezzi?

       FULVIA (rimettendosi a sedere, tutta assorta in sé, cupa, mormora, seccata): Non disprezzo nessuno, io.

       MAURI (insistendo). – Perché t’ingannai?

       FULVIA (esasperatamente). Ma no, vi dico!

       MAURI (rivolgendosi a don Camillo). Me lo rinfacciate? Ma se lo gridai io stesso a tutti, qua, che avevo dentro di me lo strazio d’un doppio rimorso! Anche davanti a tuo marito lo gridai! – Testimoni tutti qua! – Dite, dite se non gli gridai ch’era un impostore! Impostore, sì, impostore! Perché era «venuto a perdonare»! Lui: a perdonare! Quando avrebbe dovuto invece buttarsi in ginocchio qua, davanti a te, e farsi lui perdonare – come me! come me! – qua, così, ecco! (Le casca davanti in ginocchio e grida): Perché tutti l’abbiamo ingannata, questa donna!

       FULVIA (si leva da sedere senza scatto e dice piano, frigidamente, con disperata stanchezza): Dio mio, ancora codesto teatro… Che nausea!

       MAURI (come se si vedesse con gli occhi di lei; lì in ginocchio, ma tuttavia non riuscendo a rialzarsi). Ah sì! nausea, sì! Hai ragione. Mi vedo; me n’accorgo io stesso! (Si copre la faccia con le mani, e dice piangendo): Ma non sono io; è la mia passione, Flora! Non grido io: grida lei! Faccio nausea a me stesso, a sentirmi gridare così: ma non posso farne a meno! Non vorrei gridare, e grido! (Si alza infine risolutamente, come se d’improvviso, a forza, si riprendesse.) Sono venuto qua però per dimostrarti che non t’ho mentito, io, sai? La verità ti dissi: quella ch’era la verità per me; perché non ho avuto mai nessuno io nella vita, veramente per me; – tranne te, per pochi giorni! – Venti – quanti sono stati? – non più di venti, in tutta una vita!

       FULVIA. Sì, va bene. Venti. Sono finiti. E dunque, basta.

       MAURI. No! Come basta? No! – Adesso, Flora? Adesso che è finito invece l’inganno?

       FULVIA. Ma che inganno? di che inganno mi parlate?

       MAURI. Del mio! di quello che ti feci! – È finito! finito! – Mi sono liberato! sono libero ora!

       FULVIA (fissandolo fosca, come se cominci a prestargli attenzione solo ora, per qualche idea che già le si matura dentro). Di che siete libero?

       MAURI. Di disporre di me! Ho lasciato tutto! Il posto. Mi son dimesso. E mia moglie, sai? lei stessa, mi ha aperto la porta: – «Vattene!» – Felicissima.

       LA NÀCCHERI. Oh guarda!

       MAURI (voltandosi a lei, pronto). Non mi ha mai amato! Non ha mai saputo che farsi di me! Vive per conto suo; ricca, con case e poderi. Solo per un malvagio istinto andò a scovar lei – (indica Fulvia) là, a Perugia – e le disse – (si volta verso Fulvia, che si è di nuovo seduta, ma come assente, ancora assorta in sé) che ti disse? che ti disse? – Io ancora non lo so! (Epoiché Fulvia non risponde, seguita rivolto agli altri): Forse lei, capite? lusingandosi di ridar la pace a una famiglia, se ne venne qua per levarsi di mezzo. (Riaccostandosi a Fulvia, allegro, e lanciandosi a dire una cosa, che a un certo punto non gli par più facile a dire; tuttavia la dice, facendosi coraggio, con una sfrontatezza, che un po’ fa pena, un po’ fa ridere): Ma ora l’inganno è finito! Figurati che… ma sì, non ho vergogna a dirlo… lei stessa, con le sue mani, mi… mi diede… sì, un po’ di denaro, per farmene andar via.

       FULVIA (levando il capo, subito, per impedire che altri ne faccia le meraviglie). E poi?

       MAURI (stordito alla domanda inopinata). E poi? Che vuoi dire?

       FULVIA. Che farete poi?

       MAURI. Che farò? – Oh! – Che farò poi? – Ma se ho te, ho tutto! Farò di tutto! Mi metterò a dar concerti… Posso – non nelle grandi città, s’intende.

       FULVIA (freddamente e stranamente, alzandosi). Mi farete il piacere di dire a lui tutto questo, appena sarà di ritorno.

       MAURI (con gioja impetuosa, mentre gli altri restano come basiti). Io? a lui? Sì? Vuoi che gli dica questo?

       FULVIA (per troncare, più che mai fredda, rivolgendosi a don Camillo). Dovrebbe già esser qui…

       DON CAMILLO. Già… io non so… questo ritardo…

       MAURI. E allegramente, sai? allegramente glielo dirò… Eh, ora che tu… Sono felice!

       FULVIA (infastidita). Vi prego… vi prego…

       MAURI. Ma non sono stato mai io, Flora! Tu, invece – devi convenirne: sei stata tu a voler prender la cosa così sul serio! Fare quello che hai fatto, scusa! Ma sì, via! – Per quel vecchio cammello là!

       ROGHI (non potendo tenersi dal ridere). Ah senti!

       LA NÀCCHERI (contemporaneamente, gargarizzando). Ah! ah! ah! ah! La moglie? cammello?

       DON CAMILLO (contemporaneamente anche lui). Ma non ve lo dico, che è matto?

       MAURI (con perfetta serietà). Un vecchio cammello, vi assicuro, signori. – Nove anni più di me. – Zotica! Contadina… Lei l’ha veduta! (Indica Flora.) – La sposai perché aveva un pianoforte.

       LA NÀCCHERI (c. s. più forte, irrefrenabilmente). Ah! ah! ah! ah! (Il riso si comunica per contagio al Roghi e a Giuditta.)

       MAURI (c. s. irritato un po’). Scusi, signora, se le dico che in questo, veramente, non c’è niente da ridere.

       ROGHI (ridendo ancora). Ma come no, abbiate pazienza!

       MAURI. Perché non capite che cosa voglia dire capitare a venticinque anni, pieno di sogni in un paesucolo più piccolo, più brutto – scusate – di questo vostro, e marcirvi quattro, cinque, dieci eterni anni, pretore!

       ROGHI (a don Camillo). Ah, ecco dunque, è giudice davvero!

       DON CAMILLO (con forza convinta). È matto!

       MAURI (subito, serio). Mi sono dimesso. – Una vita che non si può figurare! come nessuno di voi, che vi marcite dentro qua, può conoscere! – Neanche tu, sai, Flora; che pure hai conosciuti tutti gli orrori della vita! Ma, Dio mio, sono orrori almeno! – Non una vita fatta di niente. – Niente! – Ombra. – Silenzio d’un tempo che non passa mai. – Neanche acqua da bere. – Acqua di cisterna, amara, renosiccia… – Ma non sarebbe nulla! È quel silenzio! quel silenzio! Figuratevi che vi si sente anche un soffio di vento, quando scuote la fune della cisterna giù in piazza, e la carrucola che ne stride; mentre voi, dentro… – Ah! Un piano di vecchio tavolino, unto, polveroso, ingombro di carte giudiziarie – e una mosca che vi scorre a tratti, sopra. E tutta la vita lì, in quella mosca che voi state a guardare per ore e ore. – Ebbene, immaginate di sentire un giorno, in quel silenzio, il suono d’un pianoforte: l’unico del paese. Vi corsi incontro come un assetato! E sissignori, sposai quella donna più vecchia di me, che mi parve bellissima e intelligentissima, solo perché aveva quel pianoforte. – Perché musica, musica io ho studiato, capite: non ho mai studiato legge io. – Sono un musicista, io! – E quella – dacché la sposai – m’ha chiamato sempre pretore. Sì, sì, e anche i figli! – Quattro – cresciuti con lei in campagna – a-nal-fa-be-ti. – Anch’essi, anch’essi – non mi chiamano mica papà! pretore mi chiamano! anzi: – Preto’!, come la madre. – È in casa il Preto’? – No, è alla pretura, il Preto’! (Scoppiano a ridere tutti, tranne Fulvia.)

       ROGHI (tra le risa). Oh bella! oh bella!

       MAURI. Ridete, sì, ridete! Voglio riderne anch’io, ora! – Me ne sono liberato, vivaddio! – D’amore e d’accordo – sì! Con qualche carezza, anche. – E l’avrei strozzata, v’assicuro!

       DON CAMILLO (vedendo apparire dalla porticina dell’orto, in fondo, Silvio Gelli, che viene avanti tra quelle risa, costernato). Oh, Dio sia lodato, ecco qua finalmente il signor professore!

       Alto di statura, Silvio Gelli, di circa cinquant’anni, ossuto, poderoso, porta occhiali a staffa, cerchiati d’oro. Non ha barba né baffi. Quasi calva la sommità del capo; ma lunghe ciocche di capelli biondastri, scoloriti, gli scendono scompostamente su la fronte e su le tempie. Egli se le rialza di tanto in tanto, e si tiene allora, per un tratto, le mani sul capo, come per un gesto di meditazione, che gli è abituale. Ha l’aria tra stordita e aggrondata d’un uomo che attraversi una grave crisi di coscienza. Ma vuol dissimularla. Per cui, spesso, resta quasi ottusamente inerte, con un sorriso freddo e vano, rassegato sulle labbra: espressione involontaria d’un che di beffardo, che è nella sua natura, e che quasi affiora a sua insaputa da antiche, maligne passioni, non ancora spente in lui, sebbene già da un pezzo domate. A urtarlo un po’ in queste pause di ottusa inerzia, che sono in lui come ambigui arresti di difesa morale, egli s’intorbida: quel sorriso vano gli si scompone in una contratta smorfia di dolore, come se gli bisognasse che il dolore gli diventasse anche fisico, per poterlo sentire. Da queste contrazioni la sua fisonomia riassomma poi ricomposta, o meglio, quasi impostata in una grave e stanca aria di probità, che vorrebbe apparire da gran tempo serena, come lontanissima ormai da quelle passioni che pure or ora, in tempestoso fermento, lo hanno travagliato. Al suo entrare Fulvia si rizza in piedi felinamente, con lo stesso animo che, tredici anni addietro, la condusse alla perdizione. È per lei, questo, il momento d’una prova suprema. E in tutto il suo aspetto sarà dunque la risoluzione ferma d’affrontar questa prova, già meditata e preparata oscuramente nella scena antecedente, a costo di qualunque crudezza, mettendo a nudo come un vivo lacerto la sua coscienza e quella di lui, con la più brutale sincerità, avvalendosi anche della presenza di quel suo pazzo amante.

       SILVIO (notando la presenza del Mauri, ìlare tra la ilarità degli altri, e l’aria di sfida della moglie). Ah, di nuovo qua?

       MAURI (irrompente). – Sissignore. E son venuto per…

       FULVIA (pronta, troncando, imperiosa). Lasciate parlar me! (Al marito, recisamente): Qua di nuovo, sì. – Prega tutti questi signori di lasciarci soli.

       DON CAMILLO. Oh, subito, signora. Soltanto tengo a dichiarare al signor professore…

       FULVIA (interrompendo di nuovo, per troncare). Che questo signore è entrato a forza. – Va bene!

       MAURI (a don Camillo, accennando a Fulvia). Ma se siamo già d’accordo!

       LA NÀCCHERI (al cognato). Se son d’accordo! Che storie!

       SILVIO (a Fulvia). L’hai forse chiamato tu?

       FULVIA. Non l’ho chiamato io. – Dobbiamo parlar di questo.

       SILVIO. Sento che c’è un accordo…

       FULVIA. Nessun accordo. Non è vero!

       MAURI. Io son venuto da me.

       FULVIA, (c. s.). Aspettate a parlare!

       DON CAMILLO. E su, su, andiamo noi, andiamo via! (Invitando col gesto a uscire il Roghi, Giuditta, e la Nàccheri.)

       LA NÀCCHERI (rivoltandoglisi). Ecco, ecco… Ma diciamo anche noi, a nostra volta, al signore e alla signora, che noi qua…

       DON CAMILLO (sulle spine). Ma no, via, Marianna, che dite?

       LA NÀCCHERI. Dico che siamo alla fine d’aprile, ohe! e che col maggio, voi sapete bene, cominciano a venire i forestieri per la cura delle acque.

       SILVIO. Conto, per me, di ripartire prestissimo, signora.

       LA NÀCCHERI. La prescriverà, m’immagino, anche lei ai suoi ammalati, signor professore! Ora, noi, qua, dobbiamo ancora rimettere in ordine la pensione, ecco!

       DON CAMILLO. Ma non vorrei che il signor professore credesse…

       SILVIO. Lei sa bene che ho ragioni impellenti d’andar via al più presto.

       ROGHI. Ma se non dovesse oggi, signor professore – ecco, io vorrei…

       SILVIO (accennando alla moglie). Vi prego…

       ROGHI. Sì, sì, attenda, attenda con comodo, signor professore! Io posso aspettare… aspetterò, ritornerò…

       DON CAMILLO. Ritiriamoci, ritiriamoci adesso… (Spinge fuori il Roghi, la Nàccheri, Giuditta ed esce per ultimo, inchinandosi e richiudendo l’uscio a vetri.)

       FULVIA (subito, nervosamente). Ecco, Silvio. Questo signore, che conosco appena…

       MAURI (ferito, protestando). Ma no, Flora!

       FULVIA. Vi ho detto di lasciare pariar me!

       MAURI. Ma se gli dici così, scusa!

       FULVIA. Che volete che significhi, per una come me, conoscere uno da poco o da molto?(Voltandosi verso il marito): «Flora» hai sentito? – Mi chiama Flora!

       MAURI (in tono di rimprovero). Fulvia!

       FULVIA (precipitosamente). No, no, Flora, Flora – sono Flora. – (Di nuovo al marito): Mi si chiama subito per nome, e mi si dà del tu.

       SILVIO. A me premerebbe ora di sapere, come e perché – dopo quanto è avvenuto – si trovi qua di nuovo codesto signore.

       FULVIA. Ecco, sì. – Questo signore, Silvio, crede sinceramente ch’io abbia voluto uccidermi per lui. E non è vero!

       MAURI. Ah, non è vero?

       FULVIA. Non è vero. L’ho fatto per me. Ditegli come e dove m’avete conosciuta. Basterà per farglielo comprendere.

       SILVIO. Ma io non voglio saperlo.

       FULVIA. Ero arrestata.

       MAURI (subito protestando). No! Che arrestata! Che dici!

       FULVIA. Con un mandato di comparizione, sì. Complicata in un volgarissimo delitto.

       MAURI (c. s.). Ma che! Non creda! Prosciolta in Camera di Consiglio!

       SILVIO. Vi dico che non voglio saperlo!

       MAURI (seguitando con foga). Venuta soltanto per deporre. Lo so io! Fu a Perugia, guardi, un mese appena dopo il mio trasferimento colà. C’ero io nella sala del giudice, mio collega. Fu nel processo per l’assassinio d’un tal Gamba.

       FULVIA. Con cui ero andata a Perugia.

       MAURI. Sì, un pittore…

       FULVIA. Ma che pittore! Un miserabile applicatore mosaicista della fabbrica di Murano.

       MAURI. Già… venuto per restaurare non so che mosaico…

       FULVIA. Un mascalzone che s’ubriacava tutti i giorni.

       MAURI. E la picchiava! la picchiava!

       FULVIA. Fu trovato morto, una notte, sulla strada, con la testa spaccata. (Silvio Gelli si rialza i capelli sul capo e vi trattiene le mani.)

       MAURI (scattando al gesto di Silvio Gelli). Orrore, eh? «Fin dov’era caduta!» eh? – Ma mi faccia il piacere! lasci andare!

       FULVIA (subito, forte). Non declamate, al vostro solito!

       MAURI (senza darle retta, seguitando, ma in tono più basso, rivolto a Silvio). Lei m’insegna che tutto sta nel togliersi d’addosso, una prima volta, sotto gli occhi di tutti, l’abito che ci ha imposto la società. Si provi, lei che sorride…

       SILVIO. Ma io non sorrido.

       MAURI. Ha sorriso! – Si provi, si provi a rubare una volta cinque lire e faccia che venga scoperto nell’atto di rubare. Me ne saprà dire qualche cosa! – Ma lei non ruba… Grazie! –E questa disgraziata avrebbe fatto quello che fece, se lei, suo marito…

       FULVIA (troncando, fierissima). Basta! Vi proibisco di seguitare!

       SILVIO (piano, calmo). Io sono venuto qua…

       MAURI. Per perdonare, lo sappiamo!

       SILVIO (pronto, fermo, grave). No! – Per riconoscere il danno degli antichi miei torti verso questa donna. Non m’aspettavo però che altri qua, oltre lei, potesse arrogarsi di rinfacciarmeli.

       MAURI (subito, a sfida). E riparare?

       FULVIA (c. s.). Aspettate! Non sapete ciò che vi dite!

       MAURI. No, io dico riparare, Flora! E lo dico davanti a lui! Perché ho anch’io il mio torto verso di te. Tu mi hai perdonato, ma io sono qua per riparare, per riparare!

       FULVIA (col piglio di chi non vuol discutere). Dunque – sta bene – ecco – io ti volevo dir questo, Silvio: – che egli è pronto…

       MAURI (insistendo, pigiando, sfidando). A riparare, sì, a riparare!

       FULVIA (esasperatamente, sdegnata, gridando). Ma non dite a riparare – fate ridere – se io non vi riconosco il torto, di cui volete accusarvi! – Oh quest’è bella! – Avete mentito con me – come tanti… Che volete che me n’importi? (Rivolgendosi di scatto al marito): Senti forse anche tu qualche dovere verso me per avermi salvata? – No, niente, caro! Grazie!

       SILVIO (stordito). Come! Io…

       FULVIA (subito incalzando, ma col tono di chi vuol ragionare). Sei forse venuto qua come medico, per operarmi?

       SILVIO. No.

       FULVIA (c. s.). Ma anche operandomi – (cosa che nessuno però ti chiese di fare).

       MAURI. Io m’opposi! io m’opposi!

       FULVIA (c. s. senza badare al Mauri). Io, per me certo, non te lo chiesi – è vero?

       SILVIO (impacciato, come sopraffatto, non sapendo a che cosa tenda quell’interrogatorio). No… – io lo feci…

       FULVIA (subito, venendogli in ajuto, con uno strano lustro negli occhi). Quasi irresistibilmente, è vero?

       SILVIO. Vedendoti in quello stato…

       FULVIA. E dunque! – Ero come morta. Fu un miracolo anche per te!

       – Se sapessi come credo adesso ai miracoli!

       SILVIO. Che vuoi, insomma, concludere?

       FULVIA. Niente. Questo. Che non devi credere neanche tu d’aver adesso verso di me qualche dovere per avermi così… diciamo «restituito alla vita». – Nessun dovere, nessun dovere. Non ne accetto! – Né da te, né da altri. Né doveri, né riparazioni.

       SILVIO. E che intendi di fare allora?

       MAURI. Se ne viene con me!

       FULVIA. Sono qua. Vedete voi… Giacché mi trovo tra un dovere che riconosco insussistente, e un rimorso che dichiaro immaginario…

       SILVIO. Tu sei sempre la stessa!

       FULVIA. Ah, questo sì, vedi? questo sì, mi fa veramente piacere! Che i miei capelli tinti, questa mia faccia d’ora, non ti impediscano di vedermi ancora, di fronte a te, quella di prima!

       SILVIO. Ma ti vedo adesso, così – in questo momento! Non ti ho veduta così in tutti questi giorni!

       MAURI. Ci sono io, ora, qua!

       FULVIA (subito, voltandosi a lui.) Voi non ci siete per nulla! Vi ho detto di non parlare!(Rivolgendosi di nuovo al marito): Mi hai veduta come un tempo? Perciò sei stato tutto… non so, come sospeso…

       SILVIO. Io?

       FULVIA. Sì, turbato, incerto… pentito dentro di te – ne sono sicura!

       SILVIO. No, di che?

       FULVIA. Ma d’aver fatto qua, inconsultamente, più di quanto t’eri proposto!

       SILVIO. No! non è vero! – Non per questo!

       FULVIA. Ma sul serio ti credi molto cambiato tu?

       SILVIO. Potresti giudicarne dal fatto che mi trovo qua.

       FULVIA. Ah, ma non t’aspettavi questo, venendo qua!

       SILVIO. No – ah, questo no! questo no davvero! – Non sarei venuto!

       FULVIA (pronta, con disprezzo). E dunque puoi andartene!

       SILVIO (contenendosi). Io dico, che tu debba tenermi qua, ora, così… (accenna al Mauri.)

       MAURI. Ma so tutto io, sa! Di lei – so tutto!

       SILVIO. Che sapete? Ciò che vi avrà detto lei, saprete! Dei miei torti. Non di ciò che ho sofferto per essi.

       FULVIA. Molto hai sofferto?

       SILVIO. Molto – se mi ha condotto qua. Non m’obbligherai a dirlo davanti a un estraneo.

       FULVIA. Ah no, caro, fuori! fuori! – Perché questo estraneo, caro, è qua – non tanto per me quanto per te.

       MAURI. E io non sono un estraneo per lei! (Indica Fulvia.)

       SILVIO (rispondendo a Fulvia). Per me? Che vuol dire?

       FULVIA. Oh! d’un gran professore come sei ora, non s’immagina certo! Quasi ho soggezione io stessa, a dirlo. Ma se sono qua – e così con questo accanto, o con un altro – via, tu sai bene che è per te per te, com’eri prima! – Che vuoi? posso ricordarmi soltanto d’allora, io! Di quando giocavi con me, che avevo appena diciott’anni, come un gatto col topolino – per il gusto di vedere dove sarei arrivata. – Ecco qua, dove sono arrivata. – E tu hai molto sofferto! – Sarei curiosa di saper come.

       SILVIO. Te l’ho detto, come.

       FULVIA. No: scusa: m’hai detto anzi, che non ti riesce di soffrire.

       SILVIO. Che non sento – t’ho detto, – di toccare la mia sofferenza: in me, in te… Questo t’ho detto!

       FULVIA. Ah già! Il vuoto, sì.

       SILVIO. Tu non puoi comprendere. E certe cose non si spiegano.

       FULVIA. Non avevi nessuno con te? (Allude, con questo, alla figlia, e s’infosca più che mai.)

       SILVIO. Mi vedevo inetto…

       FULVIA. Indegno, no?

       SILVIO. Anche indegno. Perché ho riconosciuto che tu eri andata via per causa mia. E perciò appunto non m’è riuscito di colmarlo, questo vuoto.

       FULVIA (con sprezzo). Ma dunque dici che hai sofferto per me!

       SILVIO. No. Non come tu credi. Neanche in questo momento. No! Per la vita, che è così…

       MAURI. Ah, questo è vero! Ha ragione! Anch’io, sa!

       SILVIO (senza badargli). Tu qua t’uccidi… un altro là impazzisce… chi crede di ragionare e non conclude nulla…

       MAURI (quasi tra sé). La vita è brutale! Se lo so!

       SILVIO (c. s.). Vengo qua, dico: «Muore; vuol andarsene in pace; va’, va’, accorri…» – E il mio sentimento s’infrange qua contro una realtà che non potevo immaginare.

       FULVIA. Che vuoi fare ora?

       SILVIO. M’hai aggredito, appena entrato – con codesto signore. Non vuoi doveri, non vuoi riparazioni. – Non so… Ti vedo decisa – non so a che cosa…

       FULVIA (con voce improvvisa, come per una subitanea scoperta). Tu non sai, caro mio, quanta malizia hai ancora nello sguardo, quando – senza volerlo – guardi di sottecchi.

       SILVIO (stordito). Io?

       FULVIA. Tu, tu, sì.

       SILVIO. Malizia?

       FULVIA. Malizia, malizia. Me ne sono accorta così bene! ora, sì – or ora – come ti sei voltato a guardare così. (Imita il modo.)

       SILVIO. Fastidio, forse – o stanchezza.

       FULVIA. No. Malizia, malizia. Quella di prima! Devi darti per forza, anche adesso, un’aria di fronte a me. Questa, o un’altra. – Tutti gli uomini ve la date! Ma dimenticate come le donne vi hanno veduto, quando non ve la date più, in certi momenti. Mi spiego? E perciò le donne ridono sotto il naso, poi, nel veder le arie degli uomini. – O ne provano dispetto o disgusto. – Ma questo ora non importa.

       SILVIO. Tieni a liberarmi d’ogni dovere, per mettere a prova davvero se sono o non sono cambiato?

       FULVIA. No no – non per questo! Ma ecco – vedi la tua malizia?

       SILVIO. No, Fulvia – credi! È soltanto perché una prova su questo non potrei dartela!

       FULVIA. E io non la voglio! – Non capisci che non voglio da te nessun obbligo d’ora? Io sono ora… quella che sono. Non voglio approfittarmi della tua venuta, vincolandoti per la vita che m’hai ridata. Di questa mia vita d’ora, di quel che sono ora, di tutto ciò che può accadermi ora, non m’importa più nulla – proprio nulla! E tu saresti uno sciocco, se te ne facessi qualche scrupolo. Sei accorso qua, perché credesti che non potessi sopravvivere. Peggio per me, se non sono morta!

       MAURI (con forza). Ma ci sono qua io, Flora!

       FULVIA (subito con leggerezza sprezzante, mostrandolo al marito). Ecco – vedi? – c’è lui. – Volevo dirti questo!

       MAURI (c. s.). Io: io – tutto per te!

       FULVIA (quasi atterrita). Per carità, non parlate d’amore! – (Al marito): Disposto, pronto a riprendermi con sé.

       MAURI. Con me! Per sempre!

       FULVIA. Bravo, caro! Come dicono i fidanzati.

       MAURI (con forza). No! – Come posso dirtelo soltanto io!

       FULVIA (spiegando, come sopra al marito). Ha lasciato per me moglie e figliuoli. – Anche il posto, non è vero?

       MAURI. Tutto!

       FULVIA. E m’offrirà una bellissima posizione! – Darà concerti in provincia! Peccato che la voce con questa mia vitaccia, mi si sia arrochita! Ci metteremmo insieme: lui sonerebbe e io canterei! (Scoppia a ridere stridulamente.)

       MAURI (ferito). Tu dunque ridi di me?

       FULVIA (subito). No, no: credo, credo nella vostra bravura di pianista.

       SILVIO (sdegnato). Tutto questo, via, non è serio!

       FULVIA. E ti fa molta impressione? – A me, nessuna. – Vi prego, insomma, di non darvi pensiero di me, nessuno dei due. Quante volte devo dirlo? – Stabiliamo così alla buona. – Ho vissuto per anni, caro mio, giorno per giorno. Mi sono mancate le cose più necessarie; e il domani senza certezza non mi spaventa più. Può passarsi, il destino, tutti i suoi capricci, con me. – Sono cosa sua. (S’accosta al marito e lo guarda con uno strano, orribile ammiccamento di donna perduta.) – Anche quei tuoi, sai?

       SILVIO (smorendo). Che, miei?

       FULVIA (ridendo, ma con un misto di pianto, in una convulsione chediverrà man mano più forte, quanto più, per vincerla, ella si strazierà, dicendo di sé le cose più crude). Mah! quelli che ti passasti, quand’ero come una bambina, e m’insegnavi cose che mi parevano orribili!

       SILVIO (per richiamarla a sé). Fulvia!

       FULVIA. Mi sono divenuti familiari.

       SILVIO (c. s.). Fulvia! Fulvia!

       FULVIA. Oh, sai, famosa!

       SILVIO. Tu hai la voluttà di dilaniarti!

       FULVIA. Con le tue mani, sì. – Le ho fatte sapere anche a lui, sai? Perciò egli spasima così di me! (Subito – staccando – al colmo dell’orgasmo – grida tre volte): Che schifo! Che schifo! Che schifo! (Segue come un nitrito, e in un brivido lungo di ribrezzo, restringendosi tutta in sé con le mani afferrate ai capelli e il volto nascosto dalle braccia, aggiunge): Ah Dio, che schifo! (Subito, Silvio e Mauri le si fanno accosto, premurosi e sconvolti, e mentre l’orgasmo di lei par che si scarichi in un tremore convulso, di freddo, le parlano insieme concitatamente.)

       SILVIO. Non è possibile seguitare così!

       MAURI (supplice). Ma come, Flora! Se ti ho tenuta come una santa! come una santa!

       FULVIA (all’improvviso, rialzandosi ancora convulsa, ma di nuovo risoluta, e ponendo le mani sulle spalle del Mauri). Sì, è vero, sì! – Voi, sì! (Subito correggendosi, spiccatamente): Tu, sì! – Ma fammi il piacere: – zitto!

       MAURI (felice, provandosi a prenderle una mano per baciargliela). Oh Flora! Grazie!

       FULVIA (ritraendo subito la mano, con ribrezzo). No… no… no…

       MAURI. Mi basterà che tu abbia così… pena… pena soltanto… codesta pena che hai, del mio amore, e niente più – niente! – È così dolce, che mi basterà.

       FULVIA (in fretta). Sì, va bene. (Poi, rivolgendosi al marito): Dunque, sarà così. – Vado con lui. – Puoi ripartirtene, caro, con la coscienza tranquilla d’aver compiuto una buona azione.

       SILVIO (la guarda con occhi pieni d’una sofferenza atroce, poi contenendosi a stento, dice gravemente): Io ti prego, Fulvia, di levarmi da questa situazione.

       FULVIA. Ti dico sinceramente. Che tu sii venuto, – è una buona azione. Dell’altra che hai compiuto, quasi senza volerlo, e che non era certo nella tua intenzione, venendo – se si riduce per me a un cattivo servizio – in coscienza ti dico che non posso né voglio fartene responsabile – dunque puoi proprio ripartirtene in pace con te stesso. – O al più, guarda – se proprio lo vuoi – (non ho più nulla del mio!) – vedi? e sono una donna veramente volgare – puoi darmi un po’ di denaro – come a lui l’ha dato sua moglie! (Scoppia a ridere indicando il Mauri.)

       MAURI (scattando). No! – niente danaro! no! Non accettar danaro da lui, Flora!

       FULVIA. Stupido! Non capisci che non è per noi? Dico per lui! Quanto più ne dà, per lui, meglio è. – Si vede così chiaro che (pigiando con intenzione le parole) – non ostante ch’io faccia di tutto – gli persiste un certo rimorso. – Gli propongo di liquidarlo in contanti.

       SILVIO (non potendone più, con estrema risolutezza). Basta così, Fulvia! – Io debbo parlarti!

       FULVIA (con furore appena contenuto e aria di minaccia). Ah, no, sai! Non arrischiarti ora a parlarmi di ciò che ti leggo negli occhi!

       MAURI (tra sé, sogghignando). Della figlia… della figlia!

       SILVIO. Debbo pure parlartene!

       FULVIA. Guai a te, se lo fai! Ma non vedi che sto qui da un’ora a imbrattarmi di fango per impedirti di parlarne?

       SILVIO. Non vuoi dunque che te ne parli?

       FULVIA. No!

       SILVIO. Mi provochi!

       FULVIA. Se hai sfuggito di parlarne anche poc’anzi!

       SILVIO. Te ne parlo adesso!

       FULVIA. Ti sfido a farlo; con me così (passa un braccio sul collo di Mauri) decisa ad andarmene con lui!

       SILVIO. Sta bene. – Vado… Ma bada che veramente tu perdi ora ogni diritto d’accusarmi!

       FULVIA. Io? (Rivolgendosi al Mauri): L’ho accusato? (A lui): T’ho lodato; ringraziato; t’ho detto d’andartene via tranquillo. – Sei tu, là, impedito. Insisti tu! Vuoi parlare, per cercarti scuse, ch’io non ti chiedo.

       MAURI(c. s.). Eh – lo specchio! lo specchio!

       SILVIO (provocante). Che dite voi, specchio?

       MAURI (placido, quasi sorridente). Quello, caro signore, che ci mettiamo noi stessi davanti, senza saperlo. Ce lo troviamo davanti: ci pare che ci parli un altro, e siamo noi stessi. – Io lo so bene.

       SILVIO. Lo saprete per voi!

       MAURI. Anche per lei, anche per lei!

       SILVIO (a Fulvia). Perché mi butti in faccia un rimorso, ch’io stesso t’ho dichiarato e provato?

       FULVIA. No, scusa: voglio levartelo!

       SILVIO. Come? così? «imbrattandoti di fango» per accrescermelo?

       FULVIA (con voce nuova, di disperata sincerità, quasi avvilita, come se fosse arrivata al punto di non poter più sostenere la sua parte). Ah Dio, sono stata qua tanti giorni con lui – e lui stesso ha detto come – quella di prima – con tutto il cuore sospeso – il mio cuore d’un tempo – là, nella mia casa – il mio cuore di madre – tutti questi giorni in attesa che mi parlasse della figlia – dicendo a me stessa: «stai così… stai così… egli ora è buono… è venuto… ora te ne par la, ora te ne parla…».

       SILVIO (forte, vibratamente, per rompere la commozione di lei). Ma se non potevo parlartene!

       FULVIA (subito, violenta, cangiando tono anche lei). E perché vuoi parlarmene adesso?

       SILVIO. Ma per dirti appunto perché non te n’ho parlato!

       FULVIA. Ora non voglio più saperlo! – Sono ragioni per te!

       SILVIO. No, non per me! Per tua figlia!

       FULVIA. Ragioni di non parlarmene? Anche per lei?

       SILVIO. Unicamente per lei!

       FULVIA. Perché mi crede morta, è vero! – Eh, si sa! – Storia vecchia! – Chi gliel’ha detto? glie l’hai detto tu, che sono morta?

       SILVIO. Non gliel’ho detto io…

       FULVIA. L’ha creduto da sé, e tu gliel’hai lasciato credere? – E va bene. Basta. Lo supponevo: – Vuoi dire che il miracolo di farmi rivivere anche per lei, non puoi farlo?

       SILVIO. No, dimmi tu, se lo credi, se lo vedi possibile! – Non faccio altro che pensare a questo da un mese. Subito, dacché vidi la possibilità che tu guarissi. – Tu hai atteso che te ne parlassi. Ma non te n’ho parlato per questo! – Come si può fare? – Dimmi tu! – Rispunti a casa, ora, così?

       FULVIA (con orrore). No, no!

       SILVIO (seguitando). Dove sei stata tutto questo tempo? E perché le si è lasciato credere che tu fossi morta, senz’esser vero?

       FULVIA. Non è possibile – no!

       SILVIO. Ecco – lo vedi tu stessa!

       FULVIA. E credi che me n’importi? – Se fossi morta davvero… Ma non sono! Non lo dico per me, bada! Tu non sai ancora, caro mio, tutto intero il miracolo che hai operato! – Non me lo sarei mai atteso! – Stato di grazia! – Tornata per un momento come allora… Caro mio, se non puoi farmi rivivere per tua figlia, può lei ora, invece, rivivere per me!

       SILVIO (stordito, costernato). Che dici? per te? E come?

       FULVIA. Lei – o un’altra – se l’ho già in me, per me è la stessa!

       SILVIO. Fulvia, che dici?

       MAURI. Come! – Tu dunque…?

       FULVIA. E perché sono così spensierata? – Per questo! – Non vedi che non m’importa più di niente?

       MAURI. Ti sei lasciata riprendere da lui?

       SILVIO (levandosi ormai d’ogni ambascia, d’ogni dubbio, con animo fermissimamente risoluto). Ah – se è così – senz’altro, allora!

       FULVIA. Che cosa?

       MAURI (quasi tra sé). Ma questo è un tradimento!

       SILVIO. Avevo già pensato – prima che tu dicessi questo – che c’era forse un mezzo – uno solo – per riparare!

       FULVIA. Che mezzo? Se mi hai uccisa per lei!

       SILVIO. No – c’è! c’è! – E ora, senz’altro, bisogna che tu lo accetti, per quanto possa esser duro per te e per me.

       FULVIA. E sarebbe?

       SILVIO. Verrai con me!

       MAURI. No, Flora! Non farlo! non farlo!

       SILVIO. Lei ora lo farà!

       FULVIA (a Mauri, per rassicurarlo). Aspettate! (Al marito, con aria di sfida) Con te, dove?

       SILVIO. Dove? A casa!

       FULVIA. E come?

       SILVIO (subito, con forza). Come moglie! come moglie!

       FULVIA. E se c’è lei che mi crede morta?

       SILVIO. Ecco, sì – questo è duro – e irreparabile! – Ma bisogna superar questo, nel solo modo in cui è possibile!

       FULVIA. Non capisco come dici!

       SILVIO. Ma che tu sii moglie, anche se in apparenza per lei non potrai esser madre!

       FULVIA. Moglie senz’esser madre? Ah, tu intendi «un’altra»?

       MAURI (subito). È una barbarie! è una barbarie!

       FULVIA. Ma io non sono un’altra!

       SILVIO. Certo! Sarà solo apparenza! Tu sarai pure la madre!

       FULVIA. E lei mi crederà la matrigna?

       MAURI. Non accettare, Flora! non accettare! È una barbarie!

       SILVIO. Non c’è altro mezzo! – Se questa è una barbarie, che è meglio: la condizione che le offrite voi?

       MAURI. Meglio, sì! centomila volte meglio! La fame, Flora… con me! Meglio! Pensa che strazio, essere un’altra per tua figlia!

       SILVIO. Se puoi sopportarlo…

       FULVIA (subito, con sprezzo, ma già sopra pensiero). Ma non è questo! Sopporto tutto, io! – Se la figlia è mia – io non sono un’altra – sono sua madre! (Si alza e come se cominciasse a comprendere soltanto ora): Tu dunque mi riprenderesti con te?

       MAURI (trasecolato). Accetti?

       FULVIA (senza badare al Mauri, rivolgendosi al marito, o piuttosto, parlando quasi tra sé). Ma come? – Ah già, il matrimonio c’è… Non ci sarebbe più bisogno di nulla!

       SILVIO. È solo per lei! Apparenza…

       MAURI (tra sé). Ah che tradimento… Lasciarsi riprendere da lui!

       FULVIA (c. s.). Ha già sedici anni… Certo non può avere nessuna memoria di me.

       SILVIO. Ne aveva poco più di tre…

       FULVIA (subito, con sdegno). Quando io morii… – (Poi, riprendendosi): Ma gli altri? Potranno riconoscermi!

       SILVIO. Nessuno, dove sto ora – quasi in campagna. Ma questo non importa! Cambieremo paese.

       MAURI (risoluto). Dunque, per me, Flora, è proprio finito? Non è possibile, bada! non è possibile!

       FULVIA (scrollandosi infastidita). Ma che volete voi!

       MAURI (terribile). Come, che voglio! E come faccio io ora? Come resto senza di te?

       SILVIO (facendosi innanzi). Dovreste capire che non è più tempo di parlare così!

       MAURI (c. s.). Io ho spezzato, distrutto la mia vita per lei!

       FULVIA (interrompendoli, rivolta al marito). Lascia, aspetta. Gli parlo io…

       MAURI (abbracciandola, frenetico). Non voglio sentir nulla! Sei mia! Non ti lascio!

       SILVIO (avvicinandosi per strappargliela). Ah, con la violenza?

       FULVIA (divincolandosi). Lasciatemi!

       MAURI (c. s.). Non ti lascio! Non la lascio!

       FULVIA (riuscendo a liberarsi e respingendolo). Lasciatemi, vi dico!

       SILVIO. Fuori! Fuori di qua! Via, fuori!

       MAURI (rompendo in disperati singhiozzi). Ma per pietà, almeno!

       FULVIA (vibrante). Che pietà volete, se io avevo già troncato ogni legame con voi?

       MAURI. Ma io, no! io, no!

       FULVIA. Questo vostro pianto, ora, è veramente di più.

       MAURI. Una vita… Come se non fossi uno, io! – Mi stronchi… – dici che sono di più!(Casca a sedere, come stroncato veramente, singhiozzando sempre.)

       SILVIO. Via, via, basta…

       FULVIA (facendo un cenno a Silvio, e accostandosi al Mauri). Un po’ di carità, un po’ di carità… Bisogna mandarlo via con le buone!

       Tela

1920 – Come prima, meglio di prima – Commedia in tre atti
Premessa
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

En Español – Como antes, mejor que antes

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