Di Luigi Lunari.
Riflessioni sull’opera del drammaturgo ma da un’angolatura inusuale, giusto per non ripetersi…
Leggere correttamente un testo di Pirandello significa leggerlo in un “tempo” teatrale: a un dipresso nel tempo, cioè, che gli attori impiegano a recitarlo.
Come leggere Pirandello (anche senza capirlo)
Inserto tratto da “Fitainforma“, periodico di Fita Veneto. Giugno 2010.
Testo ed Immagini dal documento originale in PDF: qui
Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza.
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Su lui ho scritto qua e là, parlando della sua cosiddetta filosofia (che in realtà non esiste, poiché il suo pensiero è essenzialmente “sentimentale” e non pretende a nessun carattere di sistematicità), mettendo in guardia dal pirandellismo (a cui tante volte egli stesso ha abboccato), leggendo in lui il più grande drammaturgo del XX secolo (con un certo beneficio del dubbio a favore di Arthur Miller o di Bertolt Brecht), e ricordando infine la malevolenza che a suo tempo gli ha usato il teatro italiano (la cui stupidità è seconda solo alla misericordia di Dio, che notoriamente infinita).
Saltando dunque tutto quello che si può leggere nei libri (ma ancora una volta avvertendo che la letteratura critica su Pirandello è molto più criptica, oscura e complicata che non le opere di Pirandello stesso) ecco una riflessione un po’ più inedita sul “come leggere Pirandello“. Riflessione nata da una precisa esperienza pratica, e che si sostanzia in una pratica “istruzione per l’uso”: quella – appunto – di come leggere un qualsiasi testo teatrale del grande autore siciliano ed europeo. Ora, al problema sul come leggere un autore, sono sempre più tentato, con il passare degli anni, o di non rispondere, o di rispondere con insignificanti tautologie quali “da sinistra a destra, dall’alto al basso, dalla prima pagina all’ultima”. Per Pirandello, tuttavia, un problema particolare esiste: e nasce dal fatto che la pagina pirandelliana riproduce con assoluta verosimiglianza il parlare quotidiano, con tutte le sue ripetizioni, i suoi intercalari, le sue sospensioni, le sue riprese, la sua originalissima punteggiatura… Una pagina del tutto diversa dalla “bella pagina” tradizionale, con tutte le sue componenti ben ordinate e ben legate tra loro, come un tema in classe o il fervorino di un politico.
Basta questo esempio, celeberrimo, dai “Sei personaggi”, Atto II: “Non voglio fare offesa ai suoi attori. Dio me ne guardi! Ma penso che vedermi adesso rappresentato… – no so da chi… Ecco, penso che per quanto il signore s’adoperi con tutta la sua volontà e tutta la sua arte ad accogliermi in sé… Eh, dico, la rappresentazione che farà – anche sforzandosi col trucco a rassomigliarmi… – dico, con quella statura… difficilmente potrà essere una rappresentazione di me, com’io realmente sono. Sarà piuttosto – a parte la figura – sarà piuttosto com’egli interpreterà ch’io sia, com’egli mi sentirà – se mi sentirà – e non com’io dentro di me mi sento…”
Indubbiamente, la lettura di una pagina siffatta può creare sulle prime qualche difficoltà, proprio in virtù della sua anomalia rispetto alla bella pagina normale. Ma un minimo di allenamento, che ci renda la scrittura familiare (aiutandoci magari col leggere ad alta voce: che per il teatro è spesso un trucco vincente) aiuterà non solo a superare l’iniziale disagio, ma anche – proprio servendosi di queste fluenti sconnessioni – ad entrare nel flusso del pensiero del personaggio, e sentire sotto la sua faticata e distorta esternazione l’intimo tormento che ne è all’origine.
Ma vi è una seconda condizione, forse più difficile da accettare ma altrettanto necessaria: ed è quella di non pretendere di “capire” nel dettaglio le circonvoluzioni del pensiero dei personaggi, primi fra tutti i protagonisti. Un esempio in particolare, dal “Piacere dell’onestà” (Baldovino, Atto III): “guardate… guardate… Io dunque, semplicemente, la conseguenza ho voluto far notare al signor marchese di ciò che ho fatto: – che cioè, volendo far passare per ladro un uomo onesto – non io onesto, capite? Ma quell’uomo che egli ha voluto qua onesto e che io mi sono prestato a rappresentare per dimostrargli la sua cecità – volendo farlo passare per ladro, bisognava che il danaro lo rubasse lui.” Inutile sforzarsi di capire “esattamente” quello che dice Baldovino: la sua argomentazione non tanto non sta in piedi, quanto – semplicemente – “non è”.
La riflessione nasce – come detto – da un’esperienza personale: parecchi anni fa, in occasione di un allestimento del “Piacere dell’onestà” con Alberto Lionello, ho sostituito per la prima settimana di prove il regista Lamberto Puggelli, esaurendo per così dire la fase della lettura a tavolino. Lionello, che non aveva nessuna difficoltà a riprodurre lo spezzato linguaggio di Baldovino, si era messo per l’appunto in testa di voler capire, nel dettaglio, il senso di quella battuta (e ovviamente di tutte le altre), e pretendeva da me che glielo spiegassi. Ebbene – e questa è la seconda parte della mia ricetta su “come leggere Pirandello”: il problema va bellamente ignorato. Non tanto – o non solo – per non arrivare alla conclusione che Baldovino straparla, quanto perché si tratta di un falso problema, una sorta di trompe-l’oreille, simile ai trompe-l’oeil dei quadri di Escher. Un testo di Pirandello ospita spesso un “paradosso” che si esprime in un ragionamento viziato e fallace, che non regge all’analisi: una sorta di escrescenza del pensiero – perlomeno nei suoi esiti estremi – che costituisce la malattia del personaggio, e di qui la sua eccezionalità e dunque il suo fascino. Anche il tentare di eliminare le contraddizioni non può che produrre uno sfrondamento della vicenda, e ridurla a un nucleo essenziale che è a volte del tutto banale, e che solo da quella sua sofferta superfetazione riceve il suo significato più profondo e universale.
Ma se l’anomalia è più complicata che non la semplice sconnessione sintattica e grafica della pagina scritta, la soluzione è più facile: basta – ripeto – ignorare il problema, e non pretendere di capire. Nel flusso dei pensieri dei personaggi pirandelliani(e più “pirandelliani” sono e più calza il mio discorso) che ci colpisce come un’ondata di piena, deve afferrarsi soltanto il valore globale, e non altro. Occorre ricordarsi che Pirandello “scrive teatro”, e che se di fronte a un’opera narrativa, o storica, o poetica al lettore che “non capisce” o che non ha afferrato bene, o che si è distratto, e che si è stufato, o che ha sonno, è data la possibilità di ritornare sul già letto, di fermarsi a pensare, di sviscerare e chiarire; a teatro questo non è possibile. A teatro lo spettatore non ha né il tempo né la possibilità di anatomizzare i ragionamenti di Baldovino, come pretendeva Lionello. Il tempo teatrale è sempre “in presa diretta”: la parola va colta nel suo farsi, e tutto ciò che non viene raccolto è perduto.
Pertanto: leggere correttamente un testo di Pirandello significa leggerlo in un “tempo” teatrale: a un dipresso nel tempo, cioè, che gli attori impiegano a recitarlo. Chi si ferma (anche solo per “capire”) è perduto. Se lo spazio lo consente, vorrei uscire un poco dal seminato, con uno straordinario esempio letterario: un brano de “La ginestra” di Leopardi, in cui la contorta presa di coscienza del “fatto” si traduce in sentimento, in modo affine alle sofferte anatomizzazioni pirandelliane, e – direi – con analogo scandalo della bella pagina tradizionale. È il brano in cui il poeta contempla l’immensità abitata del firmamento: “E poi che gli occhi a quelle luci appunto / ch’a lor sembrano un punto, / e sono immense, in guisa / che un punto appetto a lor sono terra e mare / veracemente; a cui / l’uomo non pur, ma questo / globo ove l’uomo è nulla, / sconosciuto è del tutto / e quando miro / quegli ancor più senz’alcun fin remoti / nodi quasi di stelle / ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo / e non la terra sol, ma tutte in uno, / del numero infinito e della mole, con l’aureo sole insiem, le nostre stelle / o sono ignote, o così paion come / essi alla terra, un punto / di luce nebulosa…” E se tu, benigno lettore, preso così di petto, non hai capito, niente paura: puoi rileggere e riflettere: qui non siamo a teatro.
Luigi Lunari
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