Come gemelle – Audio lettura 4

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Legge Valter Zanardi
«Quel vecchietto entrò con la titubanza di un pollastro sperduto. Oppresso dalla ricchezza solenne e austera della casa, e non sentendo più quasi i proprii piedi su gli spessi tappeti, s’inchinava goffamente a ogni passo.»

Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 11 gennaio 1903, poi in Bianche e nere, Streglio, Torino 1904.

Come gemelle. audiolibro 4
Immagine dalla pagina Facebook Alena Kalchanka Art

Come gemelle

Legge Valter Zanardi

Da Youtube

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             Un lampadino acceso sotto un ritratto di Pio X rischiarava a mala pena la stanzetta, in cui il marchese don Camillo Righi s’era ritirato per non udir le grida della moglie soprapparto.

             Ma gli arrivavano pur lì, quelle grida strazianti, e don Camillo era costretto a turarsi forte gli orecchi con tutt’e due le mani, e ristretto, contratto in sé, come se gli abbajassero dal ventre anche a lui quelle doglie, alzava gli occhi pieni di spasimo e d’avvilimento al ritratto di Sua Santità, il quale col bonario sorriso indulgente dell’ampia faccia pacifica pareva consigliasse calma e rassegnazione, calma e rassegnazione al marchesino, figlio d’una sua vecchia guardia nobile, guardia nobile ora anche lui del suo santo successore.

             Don Camillo avrebbe forse seguito quel muto augusto consiglio paterno, se avesse avuto la coscienza tranquilla, se un certo rimorso cioè non gli avesse accresciuto la pena per gli spasimi che in quel momento sopportava la moglie. Né gli riusciva, allora, rintuzzar questo rimorso con tutte quelle considerazioni che, in altro tempo, a mente serena, quando non si sentiva sopra, come ora, lo sdegno divino e la paura del castigo, non solo bastavano a scusare innanzi agli occhi suoi la propria colpa, ma quasi gliela cancellavano del tutto.

             Sua moglie, infatti, non era più, in quel punto, la donna gelida, arcigna, scontrosa, che, per esser lasciata in pace, lo aveva abilitato a cercarsi altrove quel calor d’affetto invano cercato in lei; ma una povera creatura in pericolo che soffriva atrocemente per causa sua, senza poter trovare a quelle sofferenze un compenso, un conforto nell’amore e nella fedeltà di lui.

             La pietà non le poteva bastare; e difatti, poc’anzi, ella lo aveva scacciato dalla camera, irritata, non reggendo più a vederselo davanti così compunto e afflitto; e s’era invece stretta, forte forte, alla madre, nicchiando:

             – Ah mamma, muojo! Quanto soffro, mamma mia, quanto soffro !

             E non poterci far nulla! Gli era sembrata anche bella, in quel momento, così trasfigurata dall’orrenda tortura.

             Da parecchi minuti le grida erano cessate. In quel silenzio d’attesa angosciosa, balenò a un tratto al Marchese la speranza che il parto fosse avvenuto, finalmente! e uscì a precipizio dallo stanzino. S’imbatté però subito in due cameriere che s’avviavano in fretta alla camera della gestante.

             – Ancora?

             Gli risposero di sì col capo, senza voltarsi, e via.

             Nella vasta sala dal soffitto altissimo, arredata di lugubri mobili antichi, davanti a quella camera, trovò l’ostetrico circondato da altri parenti della moglie, accorsi da poco.

             – Doglie stanche, – mormorò il medico. – S’andrà per le lunghe. Ma stia tranquillo, Marchese: nessun pericolo.

             Don Camillo tornava a rinchiudersi nello stanzino, quando un servitore gli s’appressò per annunziargli piano, che qualcuno chiedeva di lui.

             –    Non posso dare ascolto a nessuno, – rispose il Marchese, seccato. – Chi è?

             –    Un vecchietto, non so. Ha da parlare a Vostra Eccellenza, dice, di cosa grave e che preme.

             Don Camillo ebbe un gesto di stizza, comprendendo da chi gli veniva quell’ambasciata,

             – Fallo passare, – poi disse.

             Quel vecchietto entrò con la titubanza di un pollastro sperduto. Oppresso dalla ricchezza solenne e austera della casa, e non sentendo più quasi i proprii piedi su gli spessi tappeti, s’inchinava goffamente a ogni passo.

             –    So chi vi manda, – gli disse piano il Marchese. – Su, che avete da dirmi?

             –    Signor Marchese, Eccellenza… la signora Carla…

             –    Sss… piano!

             –    Sissignore, dice… se può venire un momentino…

             –    Ora? Non posso, non posso! ditele che non posso, – rispose smaniosamente il Marchese. – Perché, del resto? Che vuole?

             –    Le doglie, Eccellenza, – fece timidamente il vecchietto. – Le sono sopravvenute le doglie.

             –    Anche a lei? Ora? Le doglie anche a lei?

             –    Sissignore, Eccellenza. Son corso io stesso per la levatrice. Ma Vostra Eccellenza non s’impensierisca: tutto andrà bene, con l’ajuto di Dio.

             –    Che ajuto di Dio! – scattò don Camillo. – Questo è il diavolo! La Marchesa, di là…

             S’interruppe, scosse le mani; strizzò gli occhi. Ah, tutt’e due, castigo di Dio! La moglie e l’amante, nello stesso tempo, castigo di Dio!

             – Ma come?… – si provò a domandare, riaprendo gli occhi.

             Si vide davanti quel vecchietto imbarazzato e più che mai smarrito e provò istintivamente il bisogno di levarselo dai piedi.

             – Andate, andate, – gli ordinò. – Dite così che… se posso… tra poco… Ora andate, andate!

             E scappò a rintanarsi nello stanzino semibujo, con la testa tra le mani, come se temesse proprio di perderla, quella sua povera testa. Le gambe, lì, gli mancarono: cadde a sedere su una poltrona e vi si contorse, vi si raggomitolò tutto quasi per nascondersi a se stesso: ira, vergogna, angoscia, rimorso gli fecero tale impeto dentro, che s’addentò un braccio e squassò la testa fino a farsi uno strappo nella manica. Sorse in piedi:

             «Ma come?», si domandò di nuovo. «Carla, le doglie? Dunque, ha sbagliato? Dio, che rovina, che rovina, che rovina!»

             Gli sovvenne a un tratto che il medico di là gli aveva detto che per la moglie c’era tempo: si recò al guardaroba lì accanto, trasse la pelliccia e il cappello dall’armadio, e uscì di furia, dicendo al servitore:

             –   Torno subito!

             Appena fuori si cacciò in una vettura, gridando al vetturino l’indirizzo:

             –   San Salvatore in Lauro, 13.

             Un quarto d’ora dopo era nella vecchia piazzetta solitaria. Salì a sbalzi la scala. La porta, all’ultimo piano, era accostata.

             Fatti pochi passi nella saletta d’ingresso al bujo, don Camillo inciampò in un fantoccio da sarta; all’inciampone, un altro fantoccio dietro a quello gli cadde in testa; il Marchesino, già col piede alzato, se lo trovò fra le gambe; cadde anche lui. Al fracasso, accorse una vecchia incuffiata, con un lumetto in mano. Ma don Camillo s’era già alzato e dava un calcio a quell’arnese di vimini.

             –    Maledetti impicci!

             –    Signor Marchese, è caduto? s’è fatto male?

             –    No, niente. Carla?

             –    Eh, già ci siamo… Venga, venga avanti.

             Dalla camera attigua tuonò la voce imperiosa di Carla:

             –   Lasciatemi fare! Voglio passeggiare, e passeggio!

             Don Camillo, infatti, la trovò in piedi, discinta e maestosa, coi magnifici capelli fulvi scomposti intorno al bel volto pallido.

             –    Carla!

             –    Marchese birbone! Oh, ma che hai, figlio mio? Anche tua moglie? Ho saputo! Su, su, coraggio, caro: non è niente! Così sembrerà che abbia partorito tu, due volte. Ahi ahi… ahi ahi…

             Gli posò le mani su le spalle, appoggiò la fronte madida sulla fronte di lui: attese un momento così.

             –    Niente: è passata! Asciugati la fronte; scusami; e levami un dubbio, Marchese: le hai detto un maschio a tua moglie?

             –    Non capisco…

             –    Che ti facesse un maschio?

             –    Ma no, non le ho detto niente.

             –    Ti farà una femmina, puoi esserne certo! Va’, esci un momentino, ora, e non ti spaventare. L’avrai subito da me, il maschio: contaci! Subito subito, sì. Vedo che hai premura.

             Don Camillo sorrise, senza volerlo, e si ritirò nella stanzetta attigua.

             Bizzarra nei modi e nel linguaggio, pure in quel momento, che differenza!

             Uggito, oppresso, contrariato in tutto e per tutto dalla moglie, egli, solo a vedere questa donna, ecco, si sentiva subito tutto rianimato: un altro. Che donna! Spregiudicata e franca, con l’esuberanza d’una vitalità indiavolata, talvolta anche indiscreta nella furia di fare il bene, sincera, veemente, affettuosa, gli aveva comunicato un fuoco, un fervore, di cui non si sarebbe mai sentito capace. E che fierezza! Non aveva voluto mai accettar da lui, se non qualche regaluccio di poco conto, come testimonianza d’affetto.

             –   Sono più ricca di te, – soleva dirgli. – Cucio e mangio!

             Serviva difatti le più cospicue famiglie aristocratiche e borghesi, ed era stata anche la sarta della marchesa Righi; ma s’era veduta così maltrattata da costei, così contrariata anch’essa nei suoi gusti, nei suoi suggerimenti, che aveva giurato di vendicarsi, non tanto per il dispetto che ne aveva provato, quanto per pietà di quel povero Marchesino che con gli occhi le aveva sempre dimostrato d’esser d’accordo con lei, d’esser una vittima anche lui di quella donna magra, sgarbata, insoffribile. E da un anno e mezzo, il marchesino Righi, amato da Carla, si sentiva proprio un altr’uomo.

             Un ululo lungo, quasi ferino, scosse don Camillo da queste riflessioni. Balzò in piedi. Udì la voce della levatrice, che diceva di là:

             – Fatto! Zitta. Brava.

             Padre, dunque! Ecco, già padre! Una strana ansia lo prese di veder la creaturina che in quel momento entrava nella vita, per lui. Ma due, due, in quella stessa notte, signore Iddio! Forse in quel punto stesso, nel suo palazzo, nasceva un’altra creaturina, pur sua. Ed egli era ancora qua! L’ansia, a questo pensiero, diventò smania. Ancora? ancora?

             – Signor Marchese!

             Don Camillo accorse. Carla, dal letto, pallidissima, abbandonata, gli sorrise.

             – Femmina, sai? Troverai il maschietto di là. Va’, dammi un bacio, e scappa, caro!

             Il Righi si chinò a baciarla appassionatamente; ma prima di scappare a casa, volle veder la bambina. Se ne pentì. Vide un mostriciattolo ancor tutto paonazzo, che incuteva ribrezzo.

             – Vedrà, eh vedrà fra qualche ora… – gli disse però la levatrice. – Più bella della mamma!

             Poco dopo, rientrando nel suo palazzo, il Marchesino non poté più ricordarsi di ciò che aveva lasciato nella piazzetta solitaria di San Salvatore in Lauro.

             Sua moglie era morta di parto, da mezz’ora, lasciando, mal viva, una povera bambina.

             Passarono più di tre mesi prima che il marchese don Camillo Righi si recasse a rivedere la sua amante e l’altra sua bambina.

             Trovò Carla che lo aspettava, sicura del suo ritorno; vestita di nero. Dapprima, vedendola, non se n’accorse nemmeno; tanto gli parve naturale.

             Carla non cercò in alcun modo di confortarlo; gli domandò soltanto notizie della piccina, che don Camillo aveva dato a balia.

             –    Tre balie in pochi giorni. Se vedessi: uno scheletrino! Non so più che fare. Mi si sono dimostrati tutti d’un cuor duro, d’un cuor nero…

             –    I parenti di lei?

             –    Figurati! M’hanno lasciato solo! Intanto ho paura che anche quest’altra balia non abbia latte abbastanza.-

             Le espresse il desiderio di rivedere la bambina.

             –    L’avete battezzata?

             –    Non ancora. Ho voluto aspettare che tu disponessi.

             La vecchia zia la recò. Com’era bella, ah com’era bella, questa! Invece di rallegrarsene, don Camillo si mise a piangere pensando all’altra là, misera, orfana, digraziata.

             Carla gli cinse lievemente il collo con un braccio:

             – Senti, Millo, – gli disse: – quella tua povera piccina senza mamma… Se tu volessi… Sai? avrei latte per due…

             E gli occhi le brillarono subito di lagrime.

             Don Camillo ebbe un brivido di tenerezza per tutte le fibre; si nascose il volto con le mani e, rompendo in singhiozzi, le abbandonò il capo sul grembo.

             Oh, no, no: egli, nella sciagura che lo aveva atterrato; messo in guerra con tutti e con se stesso, non poteva più fare a meno di quella donna fervida e forte.

             Risolvette d’allontanarsi per sempre da Roma. Si sarebbe ritirato nelle sue terre di Fabriano. Pregò Carla d’accettare per suo amore quel rifugio; si mise d’accordo con lei, e la fece partire avanti, con la bambina e quella vecchia zia.

             Dopo una ventina di giorni, sistemato tutto, partì anche lui per la campagna, con la povera piccina senza madre.

             Fin dal primo momento Carla ebbe per lei affetto e cure più che materni. Tanto che don Camillo stesso provò quasi rimorso per quell’altra bambina, ch’era pur sua, temendo non fosse trascurata troppo.

             –   No, che dici? Milluccia, per il momento, non ha tanto bisogno di me. Tinina sì, invece. Ma già, vedi, vedi come s’è fatta bella?

             Era rifiorita veramente, in quei pochi giorni, la povera bambina, con la primavera che rideva e brillava dalla campagna a tutte le finestre della villa piena di sole. Ancora, messa accanto all’altra, nel lettuccio comune, pareva più piccina.

             –   Ma vedrai fra qualche mese. Sembreranno proprio come gemelle, e non sapremo più distinguere l’una dall’altra.

             Don Camillo Righi sapeva dell’indignazione che aveva cagionato a Roma, nei parenti e negli amici, la notizia scandalosa ch’egli aveva dato ad allevar la figliuola alla propria amante. Ma voleva che venissero qua, tutti, a vedere quelle due piccine, l’una accanto all’altra, e l’amore e le cure di quella madre per esse.

             –   Imbecilli!

Come gemelle – Audio lettura 1 – Legge Mirko Lamberti
Come gemelle – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Come gemelle – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza
Come gemelle – Audio lettura 4 – Legge Valter Zanardi

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