«Cinemelografia»: Pirandello e il cinema sonoro – (Con audio lettura)

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Di Fabrizio Miliucci

Cinemelografia è l’unico tentativo pirandelliano di costituire un’estetica originale del cinema. Si tratta di un’idea coltivata tra il 1927 ed il 1930, quando, in una lettera a Marta Abba, ne determinerà la fine inappellabile scrivendo: «bisogna orientarsi verso una nuova espressione d’arte: il film parlato.

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«Cinemelografia» Pirandello e il cinema sonoro
Pirandello istruisce Isa Miranda e Pierre Blanchar sul set del film Il fu Mattia Pascal (1937). Immagine dal Web.

«Cinemelografia»: Pirandello e il cinema sonoro

da Atti del XX Congresso dell’ADI
Associazione degli Italianisti (Napoli, 7-10 settembre 2016)

da Italianisti.it (pdf con note al testo)

Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza. 

L’intervento si propone di esporre ed analizzare la posizione assunta da Luigi Pirandello sullo scorcio degli anni Venti circa la questione del nascente cinema sonoro, in articoli come Se il film parlante abolirà il teatro, interviste e ancora prima in una serie di lettere a Marta Abba. L’idea dell’autore, decisamente rivolto, nella sua ultima stagione, all’arte cinematografica e ai suoi possibili sviluppi, è che il fonofilm dovrà convertirsi alla musica, coniugandosi ad essa, più che alla parola recitata, per dar vita a un genere nuovo che coinvolga «pura musica e pura visione».

Cinemelografia è l’unico tentativo pirandelliano di costituire un’estetica originale del cinema. Si tratta di un’idea coltivata tra il 1927 ed il 1930, quando, in una lettera a Marta Abba, ne determinerà la fine inappellabile scrivendo: «bisogna orientarsi verso una nuova espressione d’arte: il film parlato. Ero contrario; mi sono ricreduto». Fino a quel momento, Pirandello, posto davanti al mutamento che il cinema stava subendo, dal muto alle prime forme di sonoro, aveva creduto di intravedere un futuro possibile della nuova arte giunta finalmente a maturazione, e aveva creduto di poter basare questa raggiunta maturità della tecnica cinematografica estromettendo e osteggiando in essa ogni forma di mimesi teatrale e letteraria. La parola, lo strumento imperfetto a partire dal quale l’autore aveva negli anni precedenti sviluppato la visione di un infallibile inganno riverberato fin nel profondo della realtà, simulacro di una condizione paradossale e infrangibile, deve essere, secondo quanto affermato in lettere ed interviste, estromessa dagli sviluppi del cinema sonoro. Ad essa bisognerà sostituire la musica.

Intorno al 1927 la collaborazione di Pirandello con il cinema appare piuttosto strutturata, contando già otto film muti. Gli ultimi anni venti sono privi di lavorazioni vere e proprie ma ricchi di trattative condotte tra Italia, Germania ed USA. La più importante di tutte, quella che occupa le maggiori aspettative dell’autore, riguarda una versione cinematografica dei Sei personaggi in cerca d’autore, per la cui regia Pirandello pensa al tedesco Friedrich Wilhelm Murnau. Di questo travagliatissimo progetto, che conta una quindicina di tentativi nell’arco di un decennio, non se ne farà mai niente, anche se nel 1936 i tempi sembreranno maturi per una produzione Warner, affidata alla regia di Max Reinhardt, prima che la morte dell’autore, che doveva interpretare se stesso nella pellicola, metta la parola fine anche a questo estremo tentativo. Si tratta di anni cruciali in cui Pirandello sta lavorando a quel ‘salto di qualità’ che gli permetterebbe di coltivare in patria i suoi interessi teatrali senza dover ricorrere all’appoggio di terzi, come si vede dalle lettere di questo periodo indirizzate a Marta Abba, in cui il tasto del ritorno in Italia ‘da padroni’ è spesso sollecitato.

Le potenzialità del cinema affascinano sempre di più l’autore, come appare evidente da alcune dichiarazioni pubblicate il 4 ottobre 1928 su «Il Popolo d’Italia». L’autore si trova a Milano, in attesa di recarsi a Berlino per le sue trattative sui Sei personaggi. Conversando con il giornalista Enrico Rocca, l’autore afferma di voler portare nel cinema la stessa rivoluzione di cui è stato artefice nel teatro, e aggiunge che fa grande affidamento sulle capacità di Murnau per rendere visibili alcuni effetti rimasti inespressi nella versione teatrale. Ciò a cui pensa Pirandello è una dilatazione delle possibilità narrative, ampliando il piano del racconto alla dimensione dell’autore che concepisce e rifiuta i suoi personaggi.

“Feu Mathias Pascal”, Francia, 1926. Ivan Mozžuchin.
“Feu Mathias Pascal”, Francia, 1926. Ivan Mozžuchin.

L’esperienza determinante per una presa di coscienza sul cinema è probabilmente il primo film di produzione tedesca, tratto dal Fu Mattia Pascal per la regia di Marcel L’Herbier. Nel 1924, a inizio lavorazione, Pirandello, che rimarrà molto soddisfatto del film, dichiara: «colui che ha saputo così abilmente mettere in scena il Don Juan e il Faust, saprà porre nell’esecuzione della film tutto quello che non è nel romanzo, pur conservando al soggetto originario il massimo di nobiltà e di portata filosofica. Per la prima volta io ho fiducia nell’arte muta, perché due grandi artisti la servono: il Mashojoukine [Mozžuchin] e L’Herbier». Ciò che colpisce ed entusiasma così tanto l’autore è probabilmente l’intuizione, confermata da L’Herbier proprio a margine della lavorazione di questo film, che la cinematografia non sia un’arte di narrazione ma piuttosto di ‘sensazione’: «[…] l’arte dello schermo è la profondità resa sensibile che si stende al di sopra di questa superficie: è l’impercettibile musicale».

Sullo scorcio dell’innovazione del sonoro, Pirandello sta dunque maturando le sue idee sul cinematografo. Nel 1929 è stato invitato a Londra dalla British International Pictures per visionare alcuni dei cosiddetti ‘talkies’, i film parlanti che stanno animando il dibattito in tutto il mondo, e che non mancheranno di stimolarlo in alcuni articoli coevi che segnano l’apice del suo sforzo teorico. Si comincia con un’intervista rilasciata a Oreste Rizzini del «Corriere della Sera», legata proprio al viaggio londinese ed alla visione dei film parlanti dal titolo Se il film parlante abolirà il teatro. In essa Pirandello si dichiara subito ‘non convertito’:

E la mia idea è l’idea che sono venuto a portare fuori d’Italia e che ho manifestato prima di partire a tutti, che bisogna assolutamente liberare il film dalla letteratura. La cinematografia è stata finora su una falsa strada. Ha seguitato a fare letteratura (narrazione o teatro) trovandosi in una doppia impossibilità e cioè: 1) nell’impossibilità di sostituire la parola; 2) nell’impossibilità di farne a meno.

Il doppio danno che deriverebbe da questa situazione intacca l’uno e l’altro fronte. Il cinema, infatti, sarebbe impossibilitato a trovare la sua strada espressiva, mentre la letteratura si troverebbe svuotata di tutti i suoi ‘valori spirituali’. «Ora – conclude l’autore – dare meccanicamente la parola alla cinematografia è il massimo e più brutale degli errori perché, invece di creare una maggiore illusione di realtà, ogni illusione viene ad essere irrimediabilmente distrutta con la voce impressa nel film meccanicamente». La sensazione di immagini parlanti su uno schermo è quella di spettri che appaiono spaventosi e innaturali. Altro fattore che tormenta la percezione dell’autore teatrale e letterario è il fatto che una voce ‘vera’ non si può applicare all’ombra fotografata di un attore, tanto più se gli scenari e le ambientazioni del film cambiano, mentre la voce rimane sempre la stessa, riecheggiante in una sala chiusa. In altre parole, almeno per questi primi anni, Pirandello dimostra di non essere convinto dalla fenomenologia del personaggio (parlante) cinematografico, dalla sua essenza di ombra fotografata che fa rimbombare una voce meccanica dentro una sala anche quando si trova in scenari all’aperto.

Il guasto si deve cercare alla base, nell’aver tenuto la nuova arte sotto lo scacco letterario, e nell’intenzione di proseguire su questa via con l’ ‘aberrazione’ del cinema parlato. È interessante la diffidenza che Pirandello nutre nei confronti della parola, che come un tarlo guasterebbe una tecnica dalle grandi potenzialità immaginifiche che si potrebbero rendere più efficace tramite la musica. Quella che segue, segnacolo di una possibilità strisciante che ha comunque avuto notevoli sviluppi nel corso del secolo (si pensi a film come Fantasia, 1940), è la più nitida proiezione ideale che Pirandello offra dell’arte cinematografica:

La cinematografia è un linguaggio di apparenze. Le apparenze non parlano. Una apparenza non può avere una voce viva e presente, che suppone un corpo vivo e presente. Il linguaggio delle apparenze può essere soltanto la musica. Bisogna levare la cinematografia dalla letteratura e metterla soltanto nella musica. Musica e non più letteratura, deve essere l’elemento fantastico della cinematografia. Il linguaggio nuovo delle apparenze non può essere altro che la musica e la cinematografia deve essere il linguaggio visibile della musica. Le immagini del nuovo film debbono nascere dalla musica attraverso l’interpretazione di un poeta, come un linguaggio visibile della musica, come un linguaggio che nasce soltanto per gli occhi del sentimento che la musica esprime. Cine-melografia. La musica parla a tutti, e tutti ascoltandola immaginano qualche cosa: immagini varie, fluttuanti, luminose o fisiche, lievi o potenti, liete o dolorose, tutte immagini che nascono da sentimenti che la musica esprime, con un movimento lento o affrettato a seconda del ritmo. Non vi è bisogno d’altro. Pura musica e pura visione. Qualunque musica: la canzone popolare o le sinfonie di Beethoven: qualunque musica interpretata visivamente e da un poeta in immagini: in un oceano nel quale la cinematografia potrà navigare a vele spiegate per approdare felicemente ai porti prodigiosi del miracolo.

Ai porti del miracolo, Pirandello continua a indirizzare la sua ‘melografia’ (scrittura accertata nelle lettere a Marta, per tutto il 1929) con altri pezzi importanti come Se il cinema parlante abolirà il teatro, dove si affronta la spinosa questione del rapporto (alcuni dicono del conflitto) fra le due forme d’arte. In opposizione a un allarmismo diffuso circa la scomparsa in capo a pochi anni di ogni forma teatrale, Pirandello afferma che la novità del cinema parlante avrà la ventura di far scomparire il cinema stesso e finirà per rafforzare il preteso rivale. I motivi sono i più vari: il pubblico non accetterà mai di sorbire un surrogato meccanico del teatro e preferirà sempre l’originale; il muto aveva finalmente conquistato una certa popolarità; il cinema parlato non ha mercati alternativi rispetto al paese in cui viene girato e confezionato…

Ancora di ritorno da Londra, l’autore scrive al figlio Stefano, suo ‘complice’ cinematografico già dalla prima stagione, spiegandogli che i film parlanti non lo hanno convinto: «ma nonostante questo, farò un film-parlante contro i films-parlanti. Un’idea originalissima. L’uomo ha dato la sua voce alla macchina, e la macchina parla con una voce ch’è ormai divenuta sua, non più umana; è come se il diavolo fosse entrato in lei; e con spirito diabolico commenta l’azione muta del film, arresta gli attori nelle loro azioni, li chiama, suggerisce loro questo o quell’atto, li incita, ride di loro, fa cose da pazzi». Di questo progetto non sappiamo altro e probabilmente verrà a cadere già nei mesi successivi. In compenso, il 1930 è la data del primo film sonoro e parlato distribuito in Italia, e anche in questo Pirandello ha un posto chiave in quanto autore della novella da cui lo scenario è liberamente tratto: In silenzio.

Per concludere questa ricognizione ‘cinemelografica’ possiamo abbozzare alcuni punti fermi cui le esperienze densissime degli anni in questione conducono l’autore, avviato ormai all’ultima stagione artistica della sua vita. In essa, il cinema, nell’accezione che abbiamo appena visto, ‘immagine + musica’, rappresenta un porto fondamentale. Se la ‘melografia’ non ha lo sviluppo che l’autore aveva pronosticato con tanta certezza, essa condensa una serie di suggestioni che matureranno, sotterranee, nella produzione teatrale dell’ultimo lustro, acuendo il gusto per una rappresentazione sempre più onirica e mitica, attraverso cui l’autore cerca di rivolgersi a certi assoluti artistici che la messa in scena borghese, dopo i Sei personaggi, non può più soddisfare.

Su questa direttrice si muove ad esempio Graziella Corsinovi, rintracciando fra le pieghe della pièce Sogno (ma forse no) alcune tracce di quel ‘cinema nella nostra testa’ che sollecita l’attività onirica, notando come le didascalie della commedia siano degne più di un film espressionista che di una messa in scena teatrale. A questa altezza Pirandello sostituirebbe dunque il codice della parola con quello dell’immagine, abbandonando definitivamente lo statuto di una parola portatrice di senso, benché provvisorio e paradossale, e sublimando idealmente ogni significazione di senso nel potere universale della musica, il tutto muovendo sulla soglia invisibile del sogno, contrapposta ad una poco certa realtà/verità. Il 1929 è infatti un anno di svolta nella poetica dell’autore. Sono stati composti Lazzaro (1928) e La nuova colonia (1926), viene pubblicato a Berlino Questa sera si recita a soggetto e cominciano i preparativi per la stesura de I Giganti della Montagna (1933).

Quella che potrebbe sembrare l’effimera infatuazione di una stagione diviene un efficace modulo poetico da considerare in continuità con quanto elaborato fino a questo momento, e l’idea del cinema come sogno e del sogno come cinema nella testa, ovvero come il correlato più immediato per riesumare il lavorio preconscio della forma artistica, non abbandonerà più i sottintesi di un’arte condotta ormai nel cuore della modernità.
Nonostante la cinemelografia non abbia avuto lo sviluppo che Pirandello pensava, essa rappresenta, se rivolta all’interno del suo sviluppo poetico, un interessante nodo, che sostanzialmente starebbe alla base del ciclo della montagna e della produzione coeva, che dunque riporterebbe al teatro materiali già fortemente entrati nella sua immaginazione per via del cinema e della sua interpretazione (anti-letteraria, anti-parola, ma melodica e onirica) del cinema.

A quest’altezza l’idea del cinema informerebbe più fortemente dell’idea letteraria le ultime trovate teatrali, mutuando alcuni procedimenti che la pratica cinematografica avevano reso ancora più solidi nella concezione artistica e filosofica dell’autore. Se la produzione/collaborazione cinematografica ha dunque un ruolo in sé definito, se non secondario, il riverbero di ciò che viene a chiarirsi grazie a questa breve stagione si amplifica enormemente nel complesso delle ultime produzioni teatrali ponendosi proprio su quella cesura che normalmente viene considerata solo ‘filosofica’ e che invece deve essere ridotta ad elementi tecnici ben precisi, identificabili nella dualità fra cinema (musica) e sogno (simbolo).

Fabrizio Miliucci

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