Chi fu? – Audio lettura 3

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Legge Giuseppe Tizza
«La via Flaminia s’allungava diritta, fangosa, rischiarata qua e là dai fanali, il cui lume a tratti balzava e s’oscurava sotto i colpi del vento, che a le mie spalle agitava gli alberi foschi di villa Borghese battuti dalla pioggia.»

Prima pubblicazione: Roma di Roma, quotidiano politico-letterario, anno I, n. 59, 27-28 giugno 1896.

Chi fu? Audiolibro
Immagine dal Web

Chi fu?

Voce di Giuseppe Tizza

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Ditelo voi chi fu, se quel che dico io vi deve soltanto far ridere. Ma liberate almeno Andrea Sanserra che è innocente. All’appuntamento egli è mancato; lo ripeto per la centesima volta. E ora parliamo di me.

Prova della mia reità sarà forse l’essere io tornato a Roma in ottobre, è vero? mentre negli altri anni io sono stato sempre solito di venirci una volta sola, e per tutto il mese di giugno. Ma non volete dunque tener conto che in quest’ul­timo giugno andò a monte il mio fidanzamento? A Napoli, dal luglio all’otto­bre, fui come pazzo; tanto che il mio capo-ufficio volle darmi per forza un altro mese di licenza, giusto in ottobre. Il sogno mio, il sogno mio di tant’anni era crollato! E mente per la gola chi afferma che a Napoli mi fossi dato al vino, per dimenticare. Vino, non ne ho mai bevuto. Avevo qui un male, qui, alla testa, che mi dava il farnetico, il capogiro e i conati della vomizione. Ub­briaco, io? Ma già, che meraviglia, se ora si tenta di far credere che mi finga pazzo per iscusarmi? Invece, m’ero dato alle… sì, alle facili avventure, scioccamente, per prendermi una rivincita, anzi una vendetta della costanza, della fedeltà, dell’astinenza mia di tant’anni. Questo sì; e in questo, ne convengo, ho ecceduto.

A Roma, in casa di mia madre, rivedo, dopo sett’anni, Andrea Sanserra tornato da due mesi dall’America. La mamma m’affida a lui. Eravamo cresciuti insieme, da ragazzi, e ci conoscevamo meglio che non ci conoscesse la poveretta che nella santità dei suoi pensieri faceva di noi miglior conto, che in realtà non meritassimo; ci credeva due angeli, a ventisei anni! Ma in questa buona opinione l’avevo indotta io per il modo di vita da me tenuto nei cinque anni del mio fidanzamento. Basta. Con Andrea seguitai per la trista via in cui da tre mesi m’ero messo a Napoli. E ora vengo al fatto. Una sera egli mi propone… Premetto che il Sanserra non conosceva la persona di cui ora debbo dire; ne aveva soltanto inteso parlare da altri. Mi propone, dicevo, di far conoscenza con una – si espresse così – specialità del genere. Mi parlò… non sa­prei ridirvelo; ho soltanto l’impressione suscitatami dalle sue parole: una ca­mera al buio, con un gran letto, e a pie del letto un paravento; una fanciulla avvolta in un lenzuolo, come una fantasma, dietro il paravento una vecchia, zia della fanciulla, che faceva la calza, seduta accanto a un tavolinetto tondo, con un lume che proiettava sul muro, ingrandita, l’ombra della vecchia con le mani agili in moto. La ragazza non parlava, e si lasciava appena vedere in volto; parlava invece la zia, raccontando ai pochi fidati clienti un mondo di miserie: la nipote fidanzata con un ottimo giovane, che aveva un impiego lu­croso, di fiducia, nell’alta Italia: il matrimonio, andato a monte per la dote: dote che c’era, ma che una sciagura di famiglia aveva ingoiata… Bisognava ri­farla, e in pochissimo tempo, prima che l’ottimo giovane venisse a sapere… – Su l’uscio di quella camera – conchiuse Andrea Sanserra – si può scrivere: Spasimo.

Naturalmente, fui tentato. E con Andrea ci demmo appuntamento per la sera del domani, alle otto e mezzo, fuori porta del Popolo. Egli abita in via Flami­nia. La casa delle due donne è in via Laurina; il numero non lo rammento più.

Fu una sera di sabato, e pioveva. La via Flaminia s’allungava diritta, fangosa, rischiarata qua e là dai fanali, il cui lume a tratti balzava e s’oscurava sotto i colpi del vento, che a le mie spalle agitava gli alberi foschi di villa Borghese battuti dalla pioggia. Erano circa le nove, e Andrea ancora non si vedeva. Pensai che non sarebbe più venuto, con quel tempaccio; pure non sapevo decidermi ad andar via, e rimanevo perplesso a guardare i fili d’acqua che cadevanmi intorno dall’ombrello. Recarmi solo in via Laurina? No, no… Una nausea profonda della vita che conducevo da tre mesi mi vinse, in quel punto. Ebbi vergogna di me, abbandonato lì, su la via del vizio, dal compagno. Pen­sai che Andrea probabilmente era andato a passar la serata in un’onesta casa, non sospettando ch’io fossi così corrotto da tener l’appuntamento con quella sera da lupi. Eppure, no, – pensai; – più che corrotto, io son misero. Dove po­trei andare io, adesso? E mi sovvennero le sere tranquille e beate, con la mia gioja accanto, la precedente mia vita, la casetta di lei. Ah, Tuda! Tuda! – A un tratto, dall’arco centrale della porta, ecco un vecchietto sguisciar curvo, con un mantello che gli scendeva fino alla noce del piede. Reggeva con ambedue le mani un ombrellaccio sdrucito. Andava, quasi portato dal vento, in giù, per via Flaminia. Aguzzo gli occhi… Un brivido mi corre per tutta la persona. Il signor Jacopo, Jacopo Sturzi, il padre di Tuda, della mia fidanzata!… Ma se io, io stesso, con queste mani, un anno addietro, lo avevo composto nella bara e accompagnato a Campo Verano? Pure, eccolo lì: mi passa dinanzi, oh Dio!… E si volta a guardarmi, e piega da un lato la testa, come per farmi ve­dere un sorriso. E che sorriso! Resto inchiodato al suolo, in preda a un tremor convulso; cerco gridare, ma la voce non m’esce dalla gola. Lo seguo un tratto con gli occhi; alfine riesco a svincolarmi dalla paura e mi lancio dietro a lui.

Credetemi, vi prego. Io non sono capace d’inventare una cosa simile. Non saprei riferirvi parola per parola quel che mi disse; ma comprenderete agevolmente che certe idee non possono uscire dal mio cervello, perché Jacopo Sturzi, quantunque uomo intemperante assai, fu un vero filosofo, filosofo originalissimo, e mi ha parlato col senno dei morti.

Lo raggiunsi, mentre già stava per posar la mano piccola e tremula su la gruccia della porta a vetri d’una osteria. Si volse di scatto, mi prese per un braccio e, trascinandomi in giù, nell’ombra, fece:

– Luzzi, per carità, non dire che son vivo!

– Ma come… lei? – balbettai.

– Sì, son morto, Luzzi – soggiunse; – ma il vizio, capisci, è più forte! Mi spiego subito: C’è chi muore maturo per un’altra vita, e chi no. Quegli muore e non torna più, perché ha saputo trovar la sua via; questi invece torna, perché non ha saputo trovarla; e naturalmente la cerca giusto dove l’ha perduta. Io, per esempio, qui, all’osteria. Ma che credi? È una condanna. Bevo, ed è come se non bevessi, e più bevo, e più ho sete. Poi, capirai, non posso concedermi troppe larghezze…

E, strofinando insieme l’indice e il pollice della mano destra, contrasse il volto in una smorfia, intendendo con quel gesto significare: Quattrini non ne ho.

Io lo guardavo stupito. Sognavo? E mi venne alle labbra questa sciocca do­manda:

– Ah, giusto! E come fa?

Egli allora sorrise, posandomi una mano su la spalla; poi rispose:

– Se sapessi!… Ho cominciato, fin dal domani del mio seppellimento, col rivendermi la bella corona di porcellana che mia moglie mi aveva fatto collocar su la tomba, col motto in mezzo: Al mio adorato consorte. Certe bugie noi morti non possiamo soffrirle. Me la son rivenduta per poche lire. Tirai avanti così una settimana. Non c’è pericolo che mia moglie venga a farmi qualche visita e s’accorga che la corona non c’è più. Ora gioco a carte qui con gli avventori, vinco, e bevo a costo di chi perde. Insomma… m’industrio. E tu che fai?

Non seppi rispondergli. Lo guardai un istante, poi ebbi un impeto di pazzia e lo afferrai per un braccio:

– Dimmi la verità! Chi sei? Come sei qui? Non si scompose; sorrise:

– Ma se tu, da te stesso, m’hai riconosciuto!… Come son qui? Te lo dirò. Ma prima entriamo. Non vedi? Piove.

E m’attirò nell’osteria. Lì mi forzò a bere, a ribere, certamente con l’inten­zione d’ubbriacarmi. Tanto era il mio stupore e tanto lo sgomento, che non seppi ribellarmi. Non bevo vino; eppure ne bevvi non so più quanto. Ricordo: una nube soffocante di fumo; il tanfo acuto di vino; il sordo acciottolio di stoviglie; l’odor caldo e grave di cucina; i sommessi borbottìi di voci rauche. Curvi, quasi volessero rubarsi il fiato l’un l’altro, due vecchi giuocavano a carte lì accanto, tra grugniti di rabbia o di consenso degli spettatori intenti e addossati alle loro spalle. Dal tetto basso, un lume a sospensione aduggiava la sua giallezza tra la densa nube. Ma quel che maggiormente mi stupiva era il vedere che, tra tanti, nessuno sospettava che lì dentro c’era un estraneo alla vita. E guardando or questa, or quella persona, mi veniva la tentazione d’indi­carle il mio compagno e di dirle: «Costui è un morto!». Ma allora, quasi mi leggesse su le labbra questa tentazione, Jacopo Sturzi con le spalle appoggiate alla parete e il mento sul petto, sorrideva senza levarmi gli occhi d’addosso, occhi infiammati e pieni di lacrime! Anche bevendo, mi guardava. A un tratto si riscosse e cominciò a parlarmi a bassa voce. Già la testa mi girava pei va­pori del vino; ma quelle parole strane sulle cose della vita e della morte, me la facevano girar peggio. Se ne accorse e, ridendo, concluse:

– Non son cose per te: Parliamo d’altro. Tuda?

– Tuda? – io feci. – E non lo sa? Tutto è finito…

Egli accennò di sì più volte col capo; poi, invece, disse:

– Non lo sapevo. Ma hai fatto bene a romperla. Di’, per causa della madre, è vero? Amalia Noce, mia moglie, pessima creatura! come tutti i Noce! Io, guarda…

Si tolse il cappello, lo posò sul tavolino, e battendosi una mano su la fronte calva, e strizzando un occhio:

– Due volte. – esclamò – la prima nel 1860; poi nel 75. E metti che non era più fresca, sebbene ancora bellissima. Ma di questo non posso più lagnarmi: la perdonai; e basta. Figlio mio – permetti che ti chiami così? – figlio mio, cre­dimi: ho cominciato a respirare soltanto appena morto. Infatti, mi occupo forse più di loro? Né della madre né della figlia. E neppur della figlia, per causa della madre. Voglio dirti tutto: so come vivono. Potrei, senti, non visto, come fanno molti altri nel mio stato, recarmi in casa loro, di tanto in tanto, e provvedermi furtivamente d’un po’ di denaro. Ma no; di quel denaro io non ne rubo! Lo sai, lo sai come vivono?

– Come? – risposi. – Non ho più chiesto notizie di loro.

– Va’ là! lo sai – riprese egli. – Te l’hanno detto ieri sera. Feci, esitando, un cenno interrogativo cogli occhi.

– Sì, dove volevi andare prima di vedermi!

Balzai in piedi, ma non mi ressi e caddi sui gomiti sopra il tavolino, gridan­dogli:

– Son loro? Tuda? Tuda e la madre?

Mi afferrò per un braccio, mettendosi l’indice a traverso le labbra.

– Zitto! Zitto! Paga, e vieni con me. Paga, paga.

Uscimmo dall’osteria. Pioveva più forte; il vento cresciuto, saettandoci l’ac­qua in faccia, quasi c’impediva d’andare. Ma quegli mi trascinava pel braccio via, via, contro il vento, contro la pioggia. Cempennante, ebbro, con la testa in fiamme e più pesante del piombo, io gemevo: – Tuda? Tuda e la madre? –. La figura di lui ammantellato mi si confondeva nell’ombra violenta con l’om­brello ch’egli sorreggeva alto contro la pioggia, e diveniva enorme agli occhi miei, come un fantasma d’incubo, che mi trascinasse verso un precipizio. E là, con uno spintone, mi cacciò dentro il portoncino buio, urlandomi all’orecchio:

– Va’, va’, da mia figlia!…

Ora io ho qui, qui nella testa, soltanto gli urli di Tuda avviticchiata al mio collo, urli che mi spezzano il cervello… Oh! fu lui, torno a giurarlo, fu lui, Ja­copo Sturzi!… Lui, lui strangolò quella strega che si spacciava per zia… Se non l’avesse fatto lui, però, l’avrei fatto io. Ma l’ha strozzata lui perché ne aveva più ragione di me.

Questa è la verità. Io ho le mani nette.

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