Candelora – Audio lettura 2

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Legge Gaetano Marino
«Ritornata questa mattina dai bagni di mare, scabra e arrostita dal sole e dalla salsedine, ha negli occhi chiari bruciati, nel mento un po’ rientrato, nei capelli gialli irruviditi, un’aria di capra addormentata nella voluttà.»

Prime pubblicazioni: E domani, lunedì, Treves, Milano 1917, composta probabilmente nel 1913.

Candelora audiolibro
André Derain (1880-1954), Donna in camicia, 1906

Candelora

Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)

******

             Nane Papa, con le mani grassocce appese alle falde del vecchio panama sformato, dice a Candelora:

             – Non ti conviene. Dai retta a me, cara. Non ti conviene. E Candelora, su le furie, gli grida:

             –   E che mi conviene allora? rimanere con te? crepare qua di rabbia, di schifo?

             Nane Papa, placido, calcandosi sempre più il panama:

             –    Sì, cara. Ma senza crepare. Con un po’ di pazienza. Guarda, per dirla com’è, Chico…

             –    Ti proibisco di chiamarlo così!

             –    E non lo chiami così tu?

             –    Appunto perché lo chiamo io così!

             –    Ah, bene. Credevo di farti piacere. Vuoi allora che lo chiami il barone? Il barone. Dico che il barone ti ama, Candelora mia, e spende per te…

             –    Ah, per me spende? Buffone! Mascalzone! Non spende assai più per te?

             –    Se non mi lasci finire… Spende per me e per te, il barone. Ma vedi? Se spende assai più per me, che significa? Sii ragionevole. Significa che dà prezzo a te unicamente perché tu ricevi lustro da me. Questo non lo puoi negare.

             –    Lustro? – torna a gridare Candelora, al colmo della rabbia. – Sì, lustro di queste…

             Alza un piede e gli mostra la scarpa.

             – Vergogna ricevo! vergogna! vergogna!

             Nane Papa sorride, e più placido che mai risponde:

             – No, scusa. Vergogna io, se mai. Sono tuo marito. E tutto qui, credi, Loretta. Se non fossi tuo marito e, sopratutto, se tu non stessi più con me, sotto questo tetto ospitale, tutto il gusto, capisci? svanirebbe. Qua possono venire a onorarti impunemente, e tutti con un piacere tanto più grande, quanto più tu, diciamo così, mi fai disonore e vergogna. Senza più me, tu, Loretta Papa, diventeresti subito una piccola cosa di poco valore e di molto rischio, per cui Chico… il barone, non spen… Che fai? Piangi? Ma no, via! Io sto scherzando…

             Nane s’accosta a Candelora; fa per passarle una mano sotto il mento; ma Loretta gli ghermisce il braccio; apre la bocca come una belva e gli addenta quel braccio; a lungo, a lungo, senza lasciare, stringendo sempre più forte, rabbiosamente.

             Curvo, per tenerle il braccio comodo all’altezza della bocca, Nane digrigna i denti anche lui, ma per sorridere muto allo spasimo che lo fa impallidire.

             Gli occhi gli diventano di punto in punto più lustri e più acuti.

             Poi, quando i denti di Candelora si staccano, delizia! si sente nel braccio come una bollatura di fuoco.

             Non dice nulla.

             Tira su pian piano la manica della giacca; quella della camicia non vien su. La tela s’è affondata nella carne viva. La manica bianca è pezzata nel mezzo di rosso. Una chiostra insanguinata: la chiostra dei denti forti di Candelora, impressi lì tutti a uno a uno. A sollevarla ti voglio! Ma alla fine, sempre sorridente e ancora pallidissimo, Nane ci riesce. Il braccio è una pietà. In giro, ogni dentata, una ferita; e dentro, la carne è nera.

             –    Vedi? – dice Nane, mostrandola.

             –    Il cuore, così, ti mangerei! – rugge Candelora, tutta aggruppata sul sedile.

             –    Lo so, – dice Nane. – E appunto per questo desiderio vedrai che ti persuaderai a non andartene. Togliti il cappellino, via. Un po’ di tintura di jodio, per levare il veleno; la bambagia fenicata e una fascetta di garza. Su, nel cassetto della mia scrivania, Loretta: il secondo a destra. Lo so che sei una bestiolina di quelle che mordono, e appunto per questo tengo una provvista di rimedii urgenti.

             Candelora alza il braccio e lo guarda: guarda di sfuggita il braccio. Nane, in quell’atto, la ammira.

             E una maraviglia di forme e di colori, Candelora, una sfida dispettosa ai suoi occhi di pittore che la scoprono sempre nuova e diversa.

             In questa ora meridiana, qua nel giardino della villetta, sotto questo sole nero d’agosto che si frastaglia tutto d’ombre violente, è spaventosa. Ritornata questa mattina dai bagni di mare, scabra e arrostita dal sole e dalla salsedine, ha negli occhi chiari bruciati, nel mento un po’ rientrato, nei capelli gialli irruviditi, un’aria di capra addormentata nella voluttà. Con quelle robuste braccia nude spellate e quelle anche poderose par che debba stracciare a ogni mossa la fragile vesticciuola aderente, di velo azzurro, che le stride su le carni arse.

             Ah, com’è ridicola quella veste!

             Candelora ha nuotato nuda per mattinate intere; nuda su la spiaggia deserta s’è cosparse e maculate di rena infocata le sode carni al sole, sentendo alle piante dei piedi il fremito fresco delle spume marine. Come può più nasconderle ora la nudità prorompente quella vesticciuola celeste? Messa per decenza, in realtà la fa apparire assai più indecente che se fosse nuda.

             Nella rabbia, ella nota l’ammirazione negli occhi di lui, e istintivamente ha un sorriso di compiacimento, che subito però la esaspera. Diventa ghigno, quel sorriso; un ghigno che a un tratto si rompe in singhiozzi.

             E Candelora scappa via verso la villetta.

             Nane Papa, quasi senza volerlo, arriccia il volto in una smorfia monellesca, seguendola con gli occhi; poi si guarda il braccio ferito, che al sole gli brucia forte; poi, chi sa perché, si sente pungere anche lui gli occhi dal pianto.

             E atroce, veramente, in mezzo a un afoso meriggio d’agosto, avvertire così, in una pausa, la vita che pesa, carica di vergogna e di schifo, e sentire pietà, mentre si suda, del peso sull’anima di quella vergogna e di quello schifo.

             Nella tetraggine di tutto quel sole torrido, sul giardino frastagliato d’ombre, ha il senso, ora, Nane Papa (un senso che l’opprime, lo urta, e quasi lo sgomenta), della presenza di tante cose immobili e come attonitamente sospese davanti a lui: gli alberi, quegli alti fusti d’acacia, la vasca con quel giro di roccia artificiale e con quello specchio verde d’acqua stagnata, i sedili.

             Che aspettano?

             Egli può muoversi; se ne può anche andare. Ma che stranezza! Si sente come guardato da tutte quelle cose immobili, attorno; e non solo guardato, ma anche come legato dal fascino ostile, quasi ironico, che spira dalla loro attonita immobilità e che gli fa apparire inutile, stupido, anche buffo il suo potersene andare.

             Rappresenta la ricchezza del barone Chico quel giardino. Egli, Nane Papa, vi sta da circa sei mesi; e solo questa mattina ha provato il bisogno irresistibile di porre sotto gli occhi a se stesso e a Candelora ritornata dal mare, la sua vergogna e quella di lei, in tutta la sua nudità; ma ridendo, perché Candelora pretendeva d’uscire da questa vergogna, ora che – a suo dire – potevano.

             Già! Perché si vendono bene, ora, i quadri di Nane Papa, e il valore della sua arte nuova, personalissima, s’è imposto, non già perché sia realmente compreso, ma perché l’imbecillità dei ricchi visitatori delle esposizioni d’arte è stata costretta dalla critica a fermarsi davanti alle sue tele.

             La critica? Via, una parola, la critica! Una parola che non vive, se non nei calzoni d’un critico. E il critico a cui Candelora un giorno, per disperata, volle andare a gridare in faccia se era giusto che un artista come Nane Papa morisse di fame, quel critico (il più ascoltato di tutti) ha voluto sì con un magistrale articolo richiamare l’attenzione degli imbecilli sull’arte nuova e personalissima di Nane Papa, ma ha voluto anche che questo riconoscimento dell’artista fosse, non diciamo pagato, ma graziosamente compensato con la più viva gratitudine di Candelora. E Candelora, subito, non solo a quel critico, ma a tutti gli ammiratori più fanatici dell’arte nuova del marito, inebriata della vittoria che forse le pareva dovesse costarle chi sa quanto, subito s’è dimostrata gratissima; gratissima a tutti, a quel barone Chico in ispecie che – ecco – è arrivato finanche ad alloggiarli nella sua villetta, per avere l’onore di dar ricetto a un portento dell’arte, a un figlio della gloria… E che trattamenti! che regali! che feste!

             Se non le è costato nulla far così, niente di male, povera Candelora!

             Le ha fatto paura la povertà, ecco. Dice di no, lei; dice che le faceva rabbia, non paura; perché quella povertà non era lo stento, non era l’avvilimento; era l’ingiustizia, dato il merito di lui. Quest’ingiustizia ha voluto vendicare. E come? Eccolo, come: la villetta, l’automobile, il canotto, ori, gemme, gite, abiti, feste… E ha provato un gran dispetto per lui rimasto tal quale, né triste né lieto, sciamannato come prima, senz’altra gioja fuori di quella de’ suoi colori, senz’altra voglia che di scavare, di scavare nella sua arte per il bisogno sempre insoddisfatto di andare in fondo ad essa, quanto più in fondo fosse possibile, tanto da non veder più nulla della buffa fantasmagoria della vita che gli s’agita attorno.

             Forse, anzi certo, rappresenta la sua gloria, questa buffa fantasmagoria: le gemme, il lusso di Loretta, gl’inviti, le feste. La sua gloria e anche, perché no? la sua vergogna. Ma che glien’importa?

             Tutta la sua vita, tutto ciò che di vivo è in lui egli lo mette, lo dà, lo spende per il gusto di far carnosa una foglia, facendosi egli stesso pasta carnosa, fibre e vene di quella foglia; rigido e nudo un sasso, che si senta e viva sasso sulla tela; e questo solo gl’importa.

             La sua vergogna? la sua vita? la vita degli altri? Cose estranee, transitorie, di cui è vano tener conto. L’arte sua, lei sola vive, l’opera che prepotentemente piglia corpo dalla luce e dal tormento della sua anima.

             Se è stata così la sua sorte, è segno che non poteva essere altrimenti. Gli pare già tanto lontana a pensarci!

             E così, come da lontano, ha detto a Loretta, questa mattina, che gli sarebbe piaciuto, certo – oh, ma senza dare alcun peso alla cosa – gli sarebbe piaciuto trovarsi accanto nella vita una compagna buona, a cui la povertà non avesse fatto tutta quella rabbia; una compagna umile e mite, sul cui seno avesse potuto riposarsi; che gli avesse ispirato con le sue sofferenze la stessa pena che gl’ispirava allora la sua arte misconosciuta.

             Loretta, naturalmente, gli è saltata addosso come una gatta inferocita.

             Ma che fa, intanto? Non ritorna giù con la tintura di jodio, la bambagia e la fascetta? Se n’è andata su piangendo, poverina…

             Vuol essere amata, adesso, Loretta. Amata da lui, forse per dispetto della sua indifferenza. Non è una pazzia? Se egli la amasse davvero, dovrebbe ucciderla. Ci vuole quella indifferenza, come condizione imprescindibile per sopportare la vergogna ch’ella gli rappresenta accanto. Uscire da questa vergogna? E come è più possibile ormai, se tutti e due l’hanno dentro, fuori, attorno? L’unica è questa, non darci importanza, e seguitare, lui a dipingere, lei a divertirsi, con Chico per ora, poi con un altro, ma anche con Chico e un altro insieme, allegramente. Cose della vita, sciocchezze… In un modo o nell’altro, passano e non lasciano traccia. Ridere, intanto, di tutte le cose nate male, che restano a penare nelle Ior forme sgraziate o sconce, finché col tempo non crollano in cenere. Ogni cosa porta con sé la pena della sua forma, la pena d’esser così e di non poter più essere altrimenti. E appunto in questo il nuovo della sua arte, nel far sentire questa pena della forma. Sa bene lui che ogni gobbo bisogna che si rassegni a portare la sua gobba. E come le forme sono i fatti. Quando un fatto è fatto, è quello, non si cangia più. Candelora, per quanto faccia, non potrà più, per esempio, ritornar pura come quando era povera. Sebbene pura, forse, non è stata mai, Candelora, neppure da bambina. Non avrebbe potuto fare ciò che ha fatto; e goderne, dopo.

             Ma come mai, così all’improvviso, questa nostalgia di purezza; di mettersi con lui, adesso, appartata, tranquilla, modesta, amorosa? Con lui, dopo quanto è avvenuto? Quasiché lui, adesso, sia più in grado di prendere sul serio qualche cosa, nella vita; e l’amore, poi! e un amore poi, così tutto gualcito, come quello di lei, con l’immagine buffa di Chico e di quel critico e di tanti altri che, attorno a lei e a lui idillicamente abbracciati, si metterebbero a fare giro giro tondo…

             Ohe, al sole, il sangue s’è tutto aggrumato e incrostato su le dentate; e il polso, e anche un po’ la mano gli si sono gonfiati; e incordate le vene.

             Nane Papa si scuote dalle sue considerazioni e s’avvia per salire alla villetta. Chiama due volte, prima dalla scala, poi dalla saletta d’ingresso:

             – Candelora! Candelora!

             La sua voce rintrona nelle stanze vuote. Nessuno risponde. Entra nella stanza accanto allo studio, ov’è la scrivania, e dà un balzo indietro. Nella gran luce, ferma in quella stanza bianca, Candelora è buttata per terra, lunga, stirata, con le vesti scomposte, come se si fosse rotolata; una coscia scoperta. Accorre, le solleva la testa. Oh Dio, che ha fatto? La bocca, il mento, il collo, il seno, sono macchiati d’un giallo nerastro. Ha bevuto la boccetta del jodio.

             – E niente! è niente! – le grida. – Candelora mia, ma che sciocchezza hai fatto? Bambina mia… Ma non è niente! Ti brucerà un po’ lo stomaco… Su! su!

             Cerca di sollevarla, e non ci riesce, perché la poverina s’è indurita nello spasimo. Ma non le dice poverina, lui: – Bambina… bambina… – perché gli pare un po’ buffo il fatto che abbia bevuto la tintura di jodio. – Bambina… – le ripete, e la chiama anche scioccherella sua… E cerca di tirar la veste azzurra, labile, su quella coscia scoperta che l’offende; e torce gli occhi per non vederle la bocca così tutta nera… La vesticciuola si lacera allo strappo della sua mano convulsa e scopre di più la coscia.

             E solo nella villa. Loretta, ritornata quella mattina dai bagni di mare, prima di partire volle licenziare le donne di servizio. Nessuno dunque può ajutarlo a sollevarla da terra; nessuno può correre a chiamare una vettura per farla trasportare a un ospedale per un pronto soccorso. Ma per fortuna, ecco dalla via la tromba dell’automobile di Chico, il barone. E, poco dopo, Chico appare, sbalordito, con la faccia gialla di vecchio ebete sul corpo giovanile, sperticato, elegantissimamente vestito.

             – Oh! e che è?

             Senza volerlo, sporge l’occhio con la caramella, a fissar quella coscia scoperta.

             – Ajutami a sollevarla, perdio! – gli grida Nane, esasperato dagli inutili sforzi.

             Ma appena la sollevano, dalla mano rimasta schiacciata sotto il fianco casca a terra una rivoltella, e lì, dov’era il fianco, si scopre una chiazza di sangue.

             – Ah! ah! – geme allora Nane, trasportandola con Chico verso la camera da letto.

             Non è indurita dallo spasimo, Loretta, ma dalla morte. Nane Papa, come impazzito, appena disteso il cadavere sul letto, grida a Chico:

              – Chi era ai bagni con voi? dimmi chi era ai bagni con voi quest’estate? Chico, smarrito, fa alcuni nomi.

             –    Ah, perdio! – esclama allora Nane, feroce, venendogli addosso, afferrandolo per il petto e scrollandolo tutto. – Ma è possibile che dobbiate essere tutti quanti così stupidi, vojaltri che avete un po’ di quattrini?

             –    Così stupidi? noi? – fa Chico, più che mai imbalordito, rinculando a ogni scrollone.

             –    Ma sì! ma sì! ma sì! – seguita a inveire Nane Papa. – Così stupidi da far nascere la voglia a questa poverina d’essere amata da me! Capisci? Da me! da me! Amata da me!

             E rompe in un pianto disperato abbattendosi sul cadavere di Loretta.

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Giuseppe Tizza

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