La sorte aveva fatto incontrare troppo tardi a Pirandello il più grande amore della sua vita, e in circostanze morali e giuridiche tali da renderne comunque impensabile una realizzazione alla luce del sole.
Biografia di Luigi Pirandello
di Giuseppe Bonghi
da Biblioteca dei Classici Italiani
Capitolo 5
Il Fascismo e la Musa
V-a. L’adesione al fascismo
«Eccellenza, sento che questo è il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita in silenzio.
Se l’Eccellenza Vostra mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregierò come massimo onore tenervi il posto del più umile e obbediente gregario»
Questa è una parte del messaggio che Luigi Pirandello inviò a Mussolini nel settembre 1924, nel periodo della massima incertezza e della massima debolezza del regime che Mussolini da poco ha cominciato a instaurare e a realizzare dal punto di vista istituzionale. Tre mesi prima (il 10 giugno), Giacomo Matteotti era stato rapito e poi presumibilmente subito dopo assassinato da un gruppo di squadristi capitanati dal famigerato fascista fiorentino Amerigo Dumini (Panella).
Ma pur esistendo questa adesione apparentemente totale al fascismo, una adesione che non sarà del resto mai ritirata, i rapporti tra Pirandello e il Fascismo sono tormentati e contraddittori, e direi anche influenzati da vicissitudini personali (il proprio successo e quello di Marta Abba) e da ideali (come la creazione di un Teatro Nazionale). Dal 1925 Pirandello era preso da due passioni, che diventano intimamente connesse e in qualche modo interdipendenti, tanto da cancellare o mettere in secondo piano tutto il resto, perfino i figli: il teatro e Marta Abba: e la sua era un’arte che mal si adattava alle direttive e allo spirito del fascismo, perché l’arte è aliena da qualsiasi orientamento o linea di condotta dittatoriale. Già dal 1927 Pirandello comincerà a distinguere tra la propria disinteressata adesione e il comportamento spesso “gaglioffo” di molti che mangiavano e si saziavano nella mangiatoia fascista senza produrre nulla di buono; anzi distruggendo il Teatro italiano, come il “famigerato” Paolo Giordani (impresario teatrale, consigliere delegato della società teatrale Suvini-Zerboni e della Società Finanziaria Italiana per la gestione di aziende teatrali e commerciali e della società del Teatro Drammatico), più volte accusato da Pirandello di essere il losco despota dei trusts che monopolizzavano i teatri italiani per lungo tempo protetto da Bottai, condannato nel 1935 a cinque anni di confino ma riabilitato dallo stesso Mussolini dopo pochi mesi.
Pirandello è considerato dai fascisti come un corpo estraneo, nel senso che i suoi atteggiamenti e il pensiero espresso dalla sua arte non sono allineati alla “filosofia” fascista, e nessuno dei suoi personaggi, neanche lontanamente, esprime l’atteggiamento del “libro e moschetto, fascista perfetto”. Pirandello non è un intellettuale fascista, nel senso che l’intellettuale è una persona che, grazie alle sue eccezionali capacità intellettive e conoscenze culturali, con la sua opera e colle sue azioni “esercita una profonda influenza in seno a una classe sociale, a una categoria, a un partito politico, in modo da costituirne la guida, l’elemento dirigente, la mente organizzatrice”: l’intellettuale è colui che si pone e si impone al centro della situazione. E a questo proposito Leonardo Sciascia afferma che “L’arte pirandelliana non ha nulla a che fare col fascismo, ma l’uomo sì!”, distinguendo opportunamente l’artista dall’uomo. Ma è una distinzione che comunque non soddisfa pienamente, perché quando Pirandello si presenta in camicia nera alle parate fasciste non è solo l’uomo che fa atto di presenza lasciando a casa il Pirandello-artista, (“jeri … alle 10 son dovuto andare in camicia nera al grande discorso del Duce alla II Assemblea Quinquennale del Regime, e m’è passata così tutta la mattinata”, scrive a Marta Abba il 19-3-1934). Fino a che punto è possibile accettare l’affermazione di Leonardo Sciascia? Si tratta forse dell’uomo che ha mire ambiziose di potere (essere a capo del Teatro Nazionale), avere la possibilità di guadagnare moltissimo? Comunque, tolto l’uomo, resta la sua arte: ma è quell’uomo che intriga e fa discutere.
Pirandello diventa un personaggio scomodo non tanto per la sua grande arte, che non va contro nessuno, quanto per la sua scomoda posizione sociale e personale, così diversa e contraria ai grandi valori in cui crede la maggioranza delle persone e lo stesso regime fascista, di cui a Pirandello non interessa poi molto se non per raggiungere un obiettivo, che non riguarda lui, ma la sua Marta.
È comunque difficile capire quale sia il motivo che spinge Pirandello ad avanzare la richiesta di adesione al fascismo e le intime motivazioni della mancata sconfessione di quell’adesione, come altri personaggi fecero, pur avendo strappato la tessera del fascismo in una burrascosa lite con alcuni gerarchi romani, che volevano costringerlo ad accettare decisioni prese in alto e contro le quali nessuno aveva il coraggio nemmeno di manifestare il proprio dissenso. Questo atteggiamento ambiguo tra l’adesione e lo spirito di critica e di indipendenza è il nodo gordiano, che ognuno può risolvere a modo proprio, perché per scioglierlo bisognerebbe capire a fondo l’uomo e i suoi sentimenti. E che Pirandello sia perfettamente consapevole dell’impossibilità di essere indipendenti e che il fascismo abbia esteso i suoi tentacoli ad ogni aspetto della vita pubblica fino a determinare perfino il modo di pensare e di agire della gente è dimostrato: basta leggere queste righe scritte a Marta Abba da Berlino il 27 settembre 1936: “fin da jersera son venuti a trovarmi due agenti, Ahn e Simrok, divenuti ormai, col nuovo regime, i primi di Berlino e della Germania, i quali sono animati dal proposito di fare una rinascita del mio teatro qui e mi hanno offerto condizioni vantaggiosissime. Alfieri ha promesso loro che ne avrebbe parlato domani o doman l’altro col Goebbels che gli si dimostra amico. Se verrà l’autorizzazione, l’affare è fatto. Qua ci vuole l’autorizzazione per tutto; e per tal riguardo si sta molto peggio che da noi.”
Agli occhi di Pirandello certamente la classe politica italiana, che aveva retto le sorti del Paese dal 1890 in poi, era responsabile di una Grande Guerra che aveva toccato nell’intimo ogni persona, con morti, feriti e prigionieri, distruzioni e miseria nuova aggiunta alla miseria vecchia, e si era dimostrata incapace di risolvere i problemi del paese e ancor peggio, di capire i bisogni e i problemi del paese (pensiamo ad esempio a cosa pensavano i politici del “paese reale”). L’adesione è innanzitutto un atto d’accusa contro quella classe politica che era partita dallo scandalo della Banca Romana. Al contrario, il fascismo si poneva come l’unica formazione in grado di rompere con il passato e di risolvere i problemi, e qualcosa in questa direzione viene pur fatto, se pensiamo ad esempio all’istituzione della “Cassa mutua” e della pensione di vecchiaia che pone la legislazione sociale italiana all’avanguardia fra le nazioni civili e successivamente alla legge di riforma agraria. Ma nel contempo i mali morali del fascismo cominciavano a diventare sempre più evidenti, e i quattro anni trascorsi fuori dall’Italia dal ’28 al ’32 in “volontario esilio” gli faranno capire molte cose.
Ma quando capisce, e questo avviene già a partire dal ’27, che l’essenza morale del fascismo è negativa almeno quanto quella della incapacità della vecchia classe politica dirigente, perché non sconfessa la sua adesione? Pirandello di fronte alla vita è nudo come i suoi personaggi, e ciascuno di noi può rivestirlo dei panni che ritiene più giusti: e per noi resta un mistero il suo atteggiamento più intimo. Vien da dire: è difficile conoscerlo! Di fronte alla politica svolge il ruolo passivo dell’osservatore, tanto che il regime non lo mostrerà mai come un fiore all’occhiello, ma in molte occasioni, come nel 1929, gli mette i bastoni fra le ruote impedendo la rappresentazione di Questa sera si recita a soggetto. Ma quale importanza e significato avrebbe assunto una sua eventuale sconfessione? In quanti modi diversi sarebbe stata giudicata quella sconfessione? Comunque col passare degli anni e coll’aumentare del suo terribile senso di solitudine, un atto pubblico del genere sarebbe stato assolutamente inutile. Mussolini non organizzerà mai una serata in onore di Pirandello, come quelle tributate a Stoccolma, a Parigi, a Londra, a Praga, a Berlino, a New York: il fascismo non ha bisogno di Pirandello per tirare avanti ma Pirandello ha bisogno del successo, sia artistico che economico, per tenere avvinto a sè una parte di Marta, che era più importante del fascismo e dei figli e della vita stessa, perché Marta (Santa Marta, come la chiama in alcune lettere) è la sua vita. Così scrive alla sua donna una ventina di giorni prima della morte, l’ultima volta in cui parla di sè, il 21 novembre 1936:
New York è come una scacchiera; e, conoscendola, mi posso render conto benissimo di dove abiti: so la strada 53ma, dove taglia la VI Avenue (West); non ricordo soltanto se i numeri dispari siano a destra o a sinistra della strada. A che piano stai? Posso domandarlo al portiere. Già ci sono. Salgo con l’ascensore. Suono il campanello alla porta. Mi si presenta una “magnifica” cameriera negra.
– Miss Marta Abba? E odo dall’altra stanza il Tuo grido: – Maestro! Maestro! Marta mia, che sogno! Soltanto a farlo, mi sento tutto rinascere. Ti farei, prima di tutto, un grosso rimprovero amoroso, d’aver trascurato la salute. … Mi domandi di me, Marta mia, ti lamenti che non Ti parlo di me, di quel che faccio. Non faccio più nulla, Marta mia, sto tutto il giorno a pensare, solo come un cane, a tutto ciò che avrei da fare, ancora tanto, tanto, ma non mi pare che metta più conto di aggiungere altro a tutto il già fatto; che gli uomini non lo meritino, incornati come sono a diventare sempre più stupidi e bestiali e rissosi. Il tempo è nemico. Gli animi avversi. Tutto è negato alla contemplazione, in mezzo a tanto tumulto e a tanta feroce brama di carneficina. Ma poi, nel segreto del mio cuore, c’è una più vera e profonda ragione di questo mio annientarmi nel silenzio e nel vuoto. C’era prima una voce, vicino a me, che non c’è più; una luce che non c’è più… C’era prima una voce … una luce che non c’è più: quale importanza può avere ormai la vita stessa se quella luce-Marta non c’è più? Forse è proprio per questo che, quando si parla di Pirandello, si tende a mettere in sordina la questione fascismo. |
V-b. L’amore per Marta
Alla fine del 1924 si costituisce a Roma davanti al notaio Metello Mencarelli il Teatro d’Arte, da un’idea di Orio Vergani e Stefano Pirandello, fondato da un gruppo di undici personaggi, tra cui figurano anche Massimo Bontempelli e Giuseppe Prezzolini, che per questo verrà definito il «Gruppo degli Undici», che nel ’25 affiderà la direzione artistica sia per la sua ormai grande esperienza che per la sua fama a Luigi Pirandello, che ottiene sovvenzionamenti per i lavori di ristrutturazione del Teatro Odescalchi. Sovvenzionamenti scarsi e che purtroppo arrivano a rilento (c’è perfino una contribuzione autorizzata da Mussolini di 50.000 lire).
Nell’esperienza diretta del palcoscenico e attraverso il contatto diretto con gli attori ai quali cerca di far capire lo spirito dei suoi personaggi, correggendo toni e intonazioni, atteggiamenti mentali e perfino la postura del corpo in una sorta di interazione tra attore e personaggio che porta Pirandello ad accentuare la teoria del “siamo tutti personaggi che recitano una parte”, qualunque essa sia, voluta da noi o voluta dagli altri: viene a modificarsi, quindi, la concezione dell’attore, che, come avviene nei Sei personaggi, inevitabilmente tradisce il testo, recitandolo secondo la propria sensibilità e intelligenza e non secondo ciò che è presente; ora l’attore deve appunto identificarsi con il personaggio d’arte: Marta Abba arriverà a mettere sulla porta del suo camerino non il suo nome ma quello del personaggio. Pirandello, infatti, fa di tutto perché i suoi attori si calino nel personaggio.
La direzione artistica della Compagnia del «Teatro d’Arte» costituisce un momento di fondamentale importanza nello svolgimento della poetica teatrale di Pirandello, che non si limita solo a dare delle indicazioni scenografiche contenute nelle didascalie delle opere, ma mette in pratica le sue idee e le sue intuizioni sia sul piano della messa in scena che della recitazione, idee che era venuto affinando assistendo ad alcune rappresentazioni a Parigi e a Berlino, attraverso Antoine e Pitoëff da un lato e dall’altro alla scuola di recitazione russa, che aveva in Stanislavskij la sua massima espressione. Guido Salvini ricorda che nei primi tempi dell’attività del «Teatro d’Arte» Pirandello tenne ai suoi attori delle vere e proprie lezioni sui sistemi di recitazione sperimentati dalla scuola di regìa russa, che ha come centro l’idea che ogni attore deve calarsi nel personaggio, per sentirlo dentro fino a immedesimarsi. Pirandello diceva « calarsi in un personaggio » quasi come in uno scafandro. Si trattava di un termine che, tolto dalla sua genericità e reinserito nel contesto dell’insegnamento registico pirandelliano, raccoglie alcuni importanti risultati dello studio di regole e caratteristiche della regìa europea di quegli anni e si ricollega così, da un lato, al suggerimento della verità, della spontaneità, della «obbedienza» naturalistica dell’attore che voleva Antoine Pitoëff e, dall’altro, all’insegnamento della recitazione, secondo il mitico Stanislavskij, per il quale era essenziale il momento della «identificazione» col personaggio, alla quale si doveva arrivare con tutti i mezzi possibili, razionali e non, al fine di raggiungere quel «cerchio dell’attenzione» nel quale coinvolgere gli spettatori, in cui nulla di estraneo deve interferire.
Il 4 aprile al Teatro Odescalchi ha luogo, alla presenza di Mussolini, l’inaugurazione del del Teatro d’Arte con la rappresentazione dell’atto unico Sagra del Signore della nave, ricavato dalla novella Il Signore della nave, pubblicato sulla rivista “Il Convegno” del 30 settembre 1924: è una commedia in cui risalta l’interesse per la scenografia di un Pirandello che si mette alla prova come direttore artistico della compagnia e manifesta qui il desiderio di una partecipazione corale della platea alla rappresentazione, affrontando difficili problemi scenici. L’opera si ispira ad un’antica leggenda fiorita intorno alla chiesetta di San Nicola eretta dai frati Cistercensi nel Duecento, che si trova in una piccola vallata a metà strada tra le rovine della valle dei Templi e la città agrigentina.
Il giorno della festa di San Nicola è caratterizzato da due avvenimenti particolari: la sagra della macellazione del maiale, avvenimento folkloristico diffuso in molti paesi della Sicilia, con tanto di “Mastro Medico” che deve sovrintendere come incaricato del Comune al primo scannamento dei suini, e il ringraziamento dei marinai che sono scampati, miracolati appunto da San Nicola, alla “mala morte” in mare. Nella mattinata sul piazzale antistante la chiesa, fra le bancarelle che espongono per la vendita le carni di maiale insieme a insaccati e altri prodotti, e le tavolate imbandite per una “abbuffata” collettiva, arriva la processione dei marinai miracolati, ciascuno dei quali viene avanti senza senza scarpe e accompagnato da tamburini, portando “sul petto una tabella votiva, appesa al collo” sulla quale è dipinto un mare in burrasca e una barchetta col suo nome ben visibile e “il Signore della Nave” che appare e fa il miracolo.
I due motivi, il sacro e il profano, si intrecciano creando un’atmosfera paesana un po’ primitiva, con tanto movimento, in cui i sentimenti sono assolutamente naturali. È quest’atmosfera che bisogna tener ben presente per capire l’alterco fra il grasso “Signor Lavaccara”, che si era pentito di aver portato allo scannatoio il suo bellissimo e intelligente maiale Nicola (gli mancava solo la parola) e non aveva fatto in tempo per ritirarlo per riportarselo a casa, e il “giovane pedagogo”, maestro del piccolo Lavaccara, che che sostiene che i maiali non possiedono intelligenza perché mangiano per ingrassare e quindi non per sè ma per gli altri. Gli uomini, invece, con la loro beata intelligenza, mangiano non per gli altri, ma per sè. Perché un porco è porco e basta, mentre un uomo può essere porco e avvocato, porco e professore, porco e notajo, ecc. Alla fine tutti, uomini in foia sborniati e furenti e donne ubriache strappate scarmigliate … si butteranno a danzare un frenetico trescone. Ma all’improvviso s’ode un rintocco di campana: c’è la processione del “Signore della Nave”. I presenti allora si battono furiosamente il petto e piangono pentendosi dei propri peccati. Si sono ubriacati, si sono imbestiati; ma eccoli qua ora che piangono dietro al loro Cristo insanguinato! E volete una tragedia più tragedia di questa?
La Compagnia scrittura per un anno (dalla Quaresima del 1925 al Carnevale del 1926) la giovane Marta Abba come prima attrice, che debutta con Nostra Dea di Massimo Bontempelli, una «commedia moderna» nella quale l’autore afferma “una di quelle verità quotidiane, che ognuno ha cento volte modo di osservare, e prima le esaspera fino a darle un sorprendente aspetto di paradosso, poi grado a grado ne viene sviluppando le più impensate e divertenti conseguenze. I quattro atti alternano continuamente i toni più diversi della comicità più piena e gioconda alla più tagliente indagine dell’animo umano” (Dal programma di sala della serata).
In giugno è a Londra, in luglio a Parigi; dopo un breve soggiorno in Italia, fra ottobre e l’inizio di novembre la Compagnia è in Germania (Berlino, Dresda, Colonia, Kassel, Düsseldorf, ospite del Governo a Bonn, altri centri minori); dal 12 novembre al 30 luglio del 1926 lunga tournée in 22 città italiane. Nei tre anni di vita della Compagnia vengono allestiti cinquanta spettacoli, molti dei quali rimangono tra i più significativi della storia del teatro italiano.
La conoscenza di Marta Abba sconvolge la vita di Pirandello e rappresenta una svolta importante, perché apre un campo nuovo nella drammaturgia pirandelliana, che attraversa dal 1910 cinque fasi essenziali, che spesso si sovrappongono, ma sostanzialmente corrispondono a cinque momenti della vita dello scrittore e dei suoi interessi e sentimenti; sono fasi, cui corrispondono tematiche ben precise, che possiamo così schematizzare, tenendo conto che ogni schematizzazione presenta sempre delle incongruenze:
1 – 1910-1917 – teatro dell’uomo realtà, superstizione, uomo, religione La morsa; Lumìe di Sicilia; Il dovere del medico; Se non così; Cecè; Pensaci, Giacomino!; Liolà; La giara; La patente; L’imbecille; Bellavita2 – 1918-1925 – teatro del personaggio Pirandello al centro della scena realtà e apparenza, forme di vita, la vita della forma Così è, (se vi pare); Il berretto a sonagli; Il piacere dell’onestà; Ma non è una cosa seria; Il giuoco delle parti; l’innesto; L’uomo la bestia e la virtù; Tutto per bene; Come prima, meglio di prima; La signora Morli una e due;3 – 1921-1930 – trilogia del teatro nel teatro teatro come vita, vita come teatro personaggi vs attori, Sei personaggi in cerca d’autore attore vs spettatore, Ciascuno a suo modo personaggi vs regista, Questa sera si recita a soggetto 4 – 1925-1930 – teatro della donna e dell’amore 5 – 1932-1936 – teatro dei miti |
L’incontro con Marta sconvolge Pirandello che d’ora in poi cambia atteggiamenti anche nei confronti delle persone che più gli stavano vicine. Vediamo quel che scrive Benito Ortolani nella sua introduzione a “Pirandello, Lettere a Marta Abba”, nell’edizione mondadoriana dei Meridiani:
La sorte aveva fatto incontrare troppo tardi a Pirandello il più grande amore della sua vita, e in circostanze morali e giuridiche tali da renderne comunque impensabile una realizzazione alla luce del sole. Il primo incontro avvenne a Roma, al Teatro Odescalchi, dove il Maestro stava mettendo insieme una compagnia con la quale intendeva dare anche all’Italia un teatro nobilmente ispirato e di alto livello artistico. L’attrice era stata scritturata per debuttare nel ruolo di protagonista nel dramma di Massimo Bontempelli Nostra Dea. Veniva da Milano, non aveva ancora compiuto venticinque anni, ed era ai primi passi della carriera. Autore ormai affermato in Europa e al di là dell’Oceano, Pirandello aveva già cinquantotto anni, e si trovava in una situazione familiare particolarmente penosa per la malattia mentale della moglie, così grave da rendere necessario il suo internamento in una casa di cura, senza serie speranze di guarigione. Il divorzio allora in Italia non esisteva, i figli di Pirandello erano più vecchi di Marta. Da autentico gentiluomo siciliano, correttissimo, all’antica, il drammaturgo aveva un profondo pudore a esternare i sentimenti che pur gli esplodevano dentro; era anche conscio che la fama internazionale di cui godeva attirava su di lui l’attenzione del mondo. E l’incombere della vecchiaia lo ossessionava.
In una scena del suo ultimo dramma, Quando si è qualcuno, dove l’ispirazione autobiografica sembra prevalere, Pirandello presenta un anziano poeta al quale la giovane Veroccia rinfaccia il tempo in cui lei, innamoratissima, gli si era offerta tutta: «tutta – e tu lo sai – tu che non hai voluto, vile… non hai avuto il coraggio di prendermi, di prenderti la vita che io t’ho voluta dare – per te che soffrivi di non averne nessuna». È la fine del secondo atto e il poeta, rimasto solo, si mette a parlare con tenerezza infinita a Veroccia, come se fosse ancora presente: «… eri pronta a tutto… E ora mi rinfacci il male che non t’ho fatto… Tu non l’hai compreso questo ritegno in me del pudore d’esser vecchio… e la vergogna dentro, la vergogna allora, come d’una oscenità, di sentirsi, con quell’aspetto di vecchio, il cuore ancora giovine e caldo». Il dramma sembra riflettere situazioni cui le lettere accennano: il non aver voluto e non aver potuto realizzare un grande amore destinato ad ardere senza più spegnersi, insoddisfatto, irraggiungibile, e quasi precipitato in un limbo penoso in seguito a un misterioso episodio traumatico al quale lo scrittore allude come a un evento ben noto a Marta: quella «atroce notte passata a Como» (lettera del 20 agosto 1926). Anni dopo (1929), abbandonato da Marta a Berlino, Pirandello attribuirà la sua miseria a un «sentimento che non c’è più» nel cuore dell’amata. Ma la speranza che quel sentimento possa rinascere non lo lascerà fino all’ultimo giorno.
In queste parole troviamo compendiata la storia d’amore di Pirandello per Marta, che ha il suo momento più profondo e drammatico in riva al lago di Como, in una notte tra l’1 e il 6 ottobre 1925 durante la prima delle trasferte nella città lariana della compagnia del Teatro d’Arte, prima di partire per la tournée in Germania: ciò che avvenne quella notte resta misterioso per noi e caratterizzerà d’ora in poi il loro rapporto e sprofonda lo scrittore in uno stato di depressione che col passare degli anni diventerà sempre più acuto, tanto che nei momenti in cui la cappa di solitudine diventerà più pesante e irrespirabile, penserà più volte al suicidio.
Pirandello incontra in Marta il grande amore, e lei, anche per compiacerlo, affigge sulla porta del suo camerino non il suo nome ma quello dei personaggi che viene man mano interpretando. La sesta donna della sua vita sembra diventare quella più vera ed importante, ma leggendo molte delle sue lettere, anche quelle alla figlia Lietta quando questa si trovava in Cile, i contorni della passione e dell’amore sono sempre gli stessi. Fin dal primo incontro l’attrice è l’unico punto di riferimento della vita di Pirandello che vive ogni momento in funzione di lei e per lei anche se troppo poco con lei, come avrebbe voluto e come fortemente desidera, ma questo desiderio non si realizzerà mai. Marta nell’anima di Pirandello assume il ruolo di santa guida, di consigliera infallibile, di ispiratrice del suo teatro, di colei che con la sua presenza sia fisica che spirituale, attraverso una lettera o un telegramma, lo può salvare dalla depressione donandogli la vita: un suo sguardo, una sua parola detta o scritta diventa un alito di vita indispensabile, e quando questo alito non arriverà più, perché la donna si trova in America, troppo lontana, il suo corpo non avrà più la forza di lottare contro la depressione e l’angoscioso senso di solitudine che lo attanaglia ormai da molti anni: è il fatale 10 dicembre 1936.
Col 1925 comincia per Pirandello un decennio che sarà dominato da una solitudine che col passare degli anni diventerà sempre più dolorosa e atroce, dalla quale potrebbe salvarsi solo in un modo: vivere con Marta Abba e non solo per Marta Abba: ma questa soluzione è per tanti versi inattuabile, sia per motivi di educazione profonda dei due personaggi, sia per motivi di convenienza sociale, perché nessuno avrebbe potuto tollerare una tale unione vista la differenza di età (33 anni) e la sua situazione matrimoniale. È un decennio di sofferenza che porta lo scrittore in un “abisso di tristezza senza fine” e a diventare “come una mosca senza capo”. Da adesso in poi tutte le sue azioni saranno scandite dalla presenza fisica o anche soltanto pensata di Marta, della quale, quando sono lontani, vorrebbe conoscere ogni momento, sapere tutto quello che fa in ogni attimo della giornata, per poterla seguire con l’immaginazione momento per momento. È una dolce ossessione che da un lato rasenta la follia e dall’altro gli dà quella terribile forza di vivere che lo sorreggerà fino agli ultimi istanti della sua esistenza.
La follia d’amore e la realtà della vita, con tutti i suoi problemi, saranno le due componenti di ogni sua giornata. La sua visione di Marta, i suoi pensieri su Marta, i pensieri stessi di Marta, i consigli di Marta saranno d’ora in poi non solo l’oggetto della sua ossessionante condizione amorosa, ma anche della sua arte: nasceranno in questo modo Diana e la Tuda, Come tu mi vuoi, L’amica delle mogli ed altre importanti opere teatrali fino a Trovarsi, in cui il personaggio è sospeso tra l’arte della recitazione e la vita reale.
V-c. Il nuovo rapporto coi figli
Nel gennaio 1925 Lietta col marito Manuel e il figlio, nato in un drammatico parto che lo segnerà crudelmente nei suoi pochi anni di vita, e la piccola Lietta torna dal Cile e va ad abitare in via Pietralata, nella casa del padre che fino a quel momento era stato insieme al figlio Stefano con la moglie Olinda che in questo modo ritrovano la loro libertà di movimento. Manuel incomincia a mettere ordine fra le carte del suocero. Diventa il suo segretario, sollevando Stefano da un compito che gli pesa, ne cura con competenza gli interessi ottenendo perfino una procura a trattare e stipulare contratti. La stessa Lietta crede di trovare la stessa situazione che aveva lasciato tre anni prima. Ma la realtà è diversa. (Le parole in corsivo sono citazioni da M. Luisa Aguirre, cit.)
La situazione sembra inizialmente buona e favorevole per ricostruire quella unità familiare che si era frammentata con la lontananza in Cile di Lietta. Ma in febbraio avviene il fatale incontro tra Marta e Pirandello, che già era molto assorbito dall’impegno come direttore della Compagnia, nella quale cominciano subito i problemi, che Stefano, uno dei dodici firmatari, dovrebbe conoscere abbastanza bene, e sono problemi ovviamente di natura economica: al grande successo artistico non fa seguito un altrettanto grande successo economico e i sovvenzionamenti promessi dal regime tardano a venire e quando arrivano sono largamente insufficienti. Manuel compra un terreno in via Onofrio Panvinio (una traversa di via Nomentana), intestandolo ovviamente a Pirandello, e fa costruire un villino quando i proventi dai diritti d’autore sono copiosi e possono essere in larga parte utilizzati. Ma giorno dopo giorno i problemi economici diventano sempre più pressanti, con incassi spesso disastrosi, come confermano molte testimonianze.
Nel villino di via Onofrio Panvinio si trasferiscono alla fine del 1925 dopo la morte del piccolo Manolo di Lietta e la nascita di Maria Luisa: Luigi Pirandello è sempre fuori Roma, in tournée, in Inghilterra, in Francia, in Germania e infine in Italia. Lietta è gelosa di Marta sia perché allontana il padre dai figli colla sua presenza, sia perché ha preso il suo posto accanto al padre, anche se è un posto che col passare dei mesi si fa del tutto particolare visto il tipo di rapporto che si instaura fra i due. Luigi sul piano umano ha perso la testa e sembra vivere in un perenne stordimento nel quale non vede che Marta, non pensa che a Marta, non ascolta che Marta, dimenticando i figli che diventano sempre più un peso e cacciandosi in una situazione strana che porta alla solitudine e alla depressione: si trova davanti a un bivio, una strada è l’accettazione dell’amore per Marta che significa abbandonare i figli, l’altra strada è l’accettazione dei figli che avrebbe significato abbandonare Marta razionalizzando il suo sentimento. E Pirandello segue l’istinto.
Ciò che manca in questo momento, e che mancherà fino alla fine dei suoi giorni, è proprio la razionalizzazione di ciò che prova nel suo intimo e di quelli che sono i suoi doveri di uomo e di padre, che così bene aveva descritto nella novella La carriola, composta probabilmente nel 1916, nella quale la soluzione è rappresentata da un gesto: qui non esiste alcuna soluzione,. Da questo momento possiamo parlare di una dicotomia nella personalità di Pirandello: da un lato l’uomo, coi suoi problemi e la sua discutibilità, dall’altro l’artista, grande, che si afferma sempre più e che affronta l’ultima stagione della sua vita col tormento, profondamente radicato in un animo scosso da tante sfortune e disavventure, di un amore irrealizzato. È una situazione che possiamo così sintetizzare:
– un grande artista
– un padre che non fa il padre
– un marito che non fa il marito
– un fascista che non è fascista
– un amante che ama una donna che non non è la sua amante e che per lui prova affetto e gratitudine e tanto altro, ma non amore: basta leggere Trovarsi per rendersene conto.
Il rapporto Abba-Pirandello diventa oggetto di critiche più o meno velate e diffuse non solo nell’ambiente teatrale. La rottura tra Pirandello e tutto ciò che lo circonda diventa insanabile. Tra l’aprile e il maggio del 1926 Lietta scrive al padre: leggiamo come riporta l’episodio Maria Luisa Aguirre (cit. pag. 133-134)
«Nell’aprile o nel maggio del 1926 scrive al padre una lettera che desta il suo risentimento. Avevo sentito parlare di questa lettera, ma fra le carte di mia madre c’è solo la minuta di un’altra lettera (non so se questa seconda lettera fu poi scritta e inviata) che dice:
«Papà mio, forse non ti interessa sapere come sono andate e vanno le cose qui: te ne sei allontanato anche materialmente e devi giudicare senza vedere e sapere, da quello che te ne arriva lassù. Così non saprai mai come e perché e con che scopo io scrissi quella lettera. Io sapevo che mi difendevo il mio Papà e non ho veduto altro: la maniera mi fu suggerita come la migliore, l’unica forse. Papetto mio, tu sei l’unica persona che per qualche anno ha reso quasi felice questa mia vita disgraziata. Ma del mio affetto a te ormai non t’importa e quindi non puoi trovarmi scuse. Sono andata a cercarti a Milano per dirti quello che non so più scrivere, ma non m’è riuscito di sapere dov’eri.»
Le parole di Lietta sono inutili, come inutile era stata la disperazione per la lontananza del padre. Aveva letto e aveva sentito parlare con poco rispetto di lui: glielo avrà scritto con parole che lo avranno ferito. Lietta avrà mancato di prudenza. Ma non è del tutto colpevole: quella lettera l’hanno incitata a scriverla, soltanto lei può permetterselo, le hanno detto. »
Ai primi d’agosto del 1926 Pirandello torna a Roma per pochi giorni; i rapporti tra i figli sono diventati burrascosi. Stefano e Fausto, che vedono Lietta vivere in grande agiatezza mentre Manuel spesso ritarda il pagamento dei loro assegni vogliono chiarimenti: nel villino di via Onofrio Panvinio urla e grida contrassegnano la tragedia di una famiglia disunita. Pirandello si rende conto della tragica situazione finanziaria in cui versa; Lietta e Manuel, sono accusati di sperpero e di appropriazione di somme di denaro e Manuel non ha la possibilità di difendersi e di provare come tutte le sue azioni siano state rivolte a migliorare le condizioni finanziarie della famiglia (la stessa costruzione del villino potrebbe confermare le sue parole, che con l’annesso terreno ha un valore di circa un milione) facendo anche in modo che queste non risentissero delle disperate condizioni in cui versava la compagnia, per le quali Pirandello versa grandi somme e il 4 ottobre 1925 (quasi un anno prima) era arrivato perfino ad inviare un telegramma a Mussolini pregandolo di intervenire tempestivamente per evitare per sè e per la propria famiglia la bancarotta. Manuel e Lietta sono costretti ad abbandonare la casa e restano privi di mezzi finanziari: Pirandello aveva fatto perfino bloccare il loro conto corrente. Vengono ospitati dalla zia Lina a Viareggio finché non raggranellano la somma per pagarsi il viaggio di ritorno in Cile che avverrà l’anno seguente; i rapporti stessi fra i due coniugi diventano difficili, Lietta si sente sola e isolata dalla famiglia e non può ricorrere a nessuno nei momenti più dolorosi.
Del doloroso episodio così scrive a Marta Abba il 5 agosto
Cara Marta,
posso darti finalmente qualche notizia su quanto si prepara per il venturo anno comico. Ma debbo dirti prima, che non ti ho scritto finora perché la mia casa, il giorno dopo il mio arrivo, è stata purtroppo teatro di scene selvagge tra i miei figli e mio genero. Puoi immaginarti in quale stato d’animo mi trovi. Sono andato giù in pochi giorni, più che in dieci anni. Ma ho ancora tanta forza in me, da riavermi subito, appena passato questo momento di tempesta. Oggi alle 5 l’avvocato finirà d’accertare come stanno le cose, e si deciderà la sistemazione e il modus vivendi di ciascuno. … |
Trascorreranno tre lunghi anni prima che possano essere in qualche modo ricuciti i rapporti familiari, anni che non bastano comunque a far superare a Pirandello i suoi problemi finanziari, che, ironia delle liti, solo con la vendita del villino di via Panvinio nel 1929 potranno essere appianati ma le sue finanze non diventeranno mai floride viste le ingenti spese. Lietta ritornerà in Italia nel 1930. Ma le parole di Pirandello saranno amare: così scrive a Marta l’11 maggio mentre si trova a Berlino alle prese con la preparazione di Questa sera si recita a soggetto:
Cara Marta,
Ora sei a Roma, Marta mia. Speriamo che non abbia a prenderti dispiaceri, né col pubblico né con la critica. Ma per quest’ultima ci ho i miei dubbi. Non so se vorrai vedere i miei figli, che ora sono tutti e due a Roma. Regolati come Ti senti e come Ti pare, Marta mia, senza nessun riguardo per me. Io non ho avuto altro da loro che amarezze senza fine, e ancora non mi lasciano in pace. È arrivato l’altro jeri da quell’altra sciagurata che sta in America un telegramma a Roma così concepito: “Pregovi mandarmi quindicimila posta aerea mio viaggio di ritorno, evitare conseguenze irreparabili, avvisare papà”. Naturalmente, mi hanno subito avvisato. Scusami se Ti ho parlato di questo. È per dirti qual è il mio animo verso i miei figli, perché Tu comprenda, che comunque Tu pensi di regolarTi, essi sono una cosa, io un’altra: nulla di comune con loro, altro che i dolori e i dispiaceri che mi dànno. |
Giuseppe Bonghi
Biografia di Luigi Pirandello |
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