Biografia – Capitolo 1. La fanciullezza e le prime prove

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Io penso che la vita è una molto triste buffoneria, poiché abbiamo in noi, senza sapere né come né perché né da chi la necessità di ingannare di continuo noi stessi con la spontanea creazione di una realtà (una per ciascuno e non mai la stessa per tutti) la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria.
Chi ha capito il gioco non riesce più a ingannarsi; ma chi non riesce più a ingannarsi non può più prendere né gusto né piacere alla vita. Così è.
(Dalla lettera autobiografica inviata a Filippo Sùrico, direttore del periodico romano Le Lettere, e pubblicata sul nel numero del 15 ottobre 1924)

Indice biografia

Biografia - Capitolo 1.

Biografia di Luigi Pirandello

di Giuseppe Bonghi

da Biblioteca dei Classici Italiani

Capitolo 1

La fanciullezza e le prime prove

Luigi Pirandello, secondo di sei figli, nasce la sera del 28 giugno 1867 ad Agrigento (l’antica colonia greca di Akragas che si chiamerà Girgenti fino al 1927) da Stefano Pirandello e da Caterina Ricci-Gramitto, sposata nel 1863, in una casa colonica non ancora ben rifinita che si trovava nella tenuta paterna denominata “Caos”, qualche chilometro fuori dalla città, sulla strada che conduce verso Porto Empedocle, in una contrada suggestiva che dall’alto di un costone da un lato guarda verso il mare e dall’altro è delimitata da una ripido e piccolo valloncello che  porta direttamente alla spiaggia. Al “Caos” la madre si era trasferita per sfuggire all’imperversare di una terribile epidemia di colera che a fasi alterne affliggerà la Sicilia per alcuni anni fino al 1868, angosciata dalla malattia che il marito aveva contratto dovendo rimanere in città per lavoro.

… Io dunque son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco, denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti. Colà la mia famiglia si era rifugiata dal terribile colera del 1867, che infierì fortemente nella Sicilia. Quella campagna, però, porta scritto l’appellativo di Lina, messo da mio padre in ricordo della prima figlia appena nata e che è maggiore di me di un anno; ma nessuno si è adattato al nuovo nome, e quella campagna continua, per i più, a chiamarsi Càvusu, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Xàos.

        La famiglia di Stefano affondava le sue lontane origini nella Liguria e godeva di un tenore di vita elevato grazie al ricco commercio di zolfo e al possesso di alcune solfatare della zona. Nel 1860, sull’orma degli ideali antiborbonici, aveva seguito Garibaldi, e aveva partecipato alla battaglia di Aspromonte.
La famiglia di Caterina era tradizionalmente antiborbonica; era figlia di Anna Bartoli e di Giovanni Ricci-Gramitto, avvocato del foro di Agrigento, che all’indomani della rivoluzione antiborbonica del 1848 era stato condannato all’esilio e aveva trovato asilo politico a Malta, dove lo avevano raggiunto la moglie e i figli (Caterina aveva allora 13 anni). Ma dopo pochi mesi Giovanni muore e la moglie Anna riporta i figli ad Agrigento, dove vive praticamente in povertà, perché il governo aveva confiscato le rendite fondiarie sue e del marito, e vive col solo aiuto di un cognato canonico, “lealista”, che il giorno della restaurazione si era precipitato in Chiesa a cantare un solenne Te Deum di ringraziamento. La convivenza col cognato, fedele al re borbonico e pauroso di ogni più piccolo sussurro, è ovviamente difficile, ma

l’accesa partecipazione ai moti risorgimentali e lo slancio ideale di quegli anni si tramutano, soprattutto nell’animo della madre, in una cocente delusione di fronte alla nuova realtà unitaria. Attraverso la figura di lei, Pirandello assimila quell’amarezza per il Risorgimento tradito, che è alla base di alcune sue poesie e del romanzo I vecchi e i giovani, ed è probabile che proprio questo clima di disillusione abbia inculcato nel giovane Luigi il senso della sproporzione tra ideali e realtà riconoscibile nel saggio L’umorismo.(Borzi-Argenziano)

Stefano e Caterina si erano conosciuti nel 1862, durante la festa per l’accoglienza del reduce Rocco, fratello di Caterina, che, dopo aver combattuto sull’Aspromonte con Garibaldi ed essere stato fatto prigioniero, era stato liberato (aveva ricevuto in dono lo stivale che indossava Garibaldi quando venne ferito alla gamba in Aspromonte: Rocco lo lasciò poi a Luigi Pirandello e questi a sua volta lo donò al Comune di Roma): Caterina, aveva allora 28 anni e non era propriamente una bellezza, a parte gli occhi. È un colpo di fulmine e Stefano le chiede seduta stante di sposarlo.
Dal matrimonio nascono sei figli: Rosolina, Luigi, Anna, Innocenzo, Adriana (che morirà a quattro anni) e Giovanni, ultimo, nel 1879. Caterina imparerà presto a sopportare il carattere impetuoso e istintivo del marito e le sue infedeltà (ha perfino una figlia da un’altra donna); la scoperta di queste infedeltà rese fin da bambino Luigi consapevole del dolore che quelle offese arrecavano alla madre sentendola vicina e lo portarono a provare un certo distacco verso un uomo che si mostrava più padrone che padre e che dimostrava il possesso di una notevole forza fisica che agli occhi del bambino appariva mostruosa e perciò impressionante, come è testimoniato da quell’episodio narrato da un certo Picone nelle sue Memorie storiche agrigentine, e riportato da M. Luisa Aguirre D’Amico in Album Pirandello (Mondadori 1992, p. 22):

Sempre secondo il Picone, nel 1874 comincia «il brigantaggio nelle nostre campagne». Stefano Pirandello percorreva quelle campagne per sorvegliare il rendimento delle zolfare di cui continuava a occuparsi e spesso portava su di sé la paga per i minatori. In famiglia si raccontava che una volta i briganti, affrontandolo in aperta campagna, gli chiesero la borsa con i denari. Al diniego di consegnarla, un brigante aveva sparato. Stefano, con grande coraggio e presenza di spirito, aveva cominciato a saltare di qua e di là: «Diavolo sugnu! diavolo sugnu!». I briganti erano fuggiti spaventati non sapendosi spiegare come mai non fosse morto. Stefano aveva tutto il corpo coperto di pallini: lo sbaglio nelle munizioni adoperate dal brigante che gli aveva sparato, gli aveva salvato la vita. L’episodio dimostra la forza fisica di Stefano, forza fisica che destava il timore di Luigi, bambino fragile e sensibile, dai grandi occhi sgomenti. Era naturale che il piccolo Luigi si sentisse più attratto dalla madre che aveva avuto un’infanzia straordinaria e che certamente sapeva parlare ben altrimenti al suo cuore e alla sua fantasia.

         Luigi Pirandello riceve in casa l’istruzione elementare dall’ajo Francesco (o Giovanni) del Cinque, da tutti chiamato Pinzone (ne parla sia nel III capitolo de Il fu Mattia Pascal che nella novella La scelta, quasi una memoria biografica, pubblicata su Ariel il 10 aprile 1898); don Pinzone avvia il giovane Luigi, piuttosto ribelle e indipendente come tutti i ragazzi, allo studio e alla conoscenza delle nozioni fondamentali della cultura in maniera soddisfacente, tanto che potrà frequentare nel 1878 la Regia Scuola Tecnica di Girgenti, cui era stato iscritto dal padre, con discreti risultati. Ma, più che dalle nozioni scolastiche impartite da don Pinzone e dalla erudizione del maestro, è affascinato dalle favole e dalle storie un po’ popolari e un po’ magiche, che gli racconta la vecchia serva Maria Stella e che lo introducono a quel mondo fascinoso di leggende e superstizioni che larga parte avrà nella sua arte (vedi ad esempio La favola del figlio cambiato). A dodici anni, dimostrando il suo precoce interesse per il teatro, scrive una tragedia, andata perduta.

Nel 1879 la famiglia per motivi di lavoro si trasferisce a Porto Empedocle e Luigi,  l’anno successivo, per superare più facilmente le difficoltà finanziarie in cui versava il padre, va a vivere a Palermo, in una casa di via Porta di Castro. È qui che il ragazzo conosce i primi turbamenti amorosi: così ne parla Luciano Lucignani su la Repubblica del 18/11/1989:

        Al secondo piano c’era una famiglia della borghesia agiata, con una bambina di appena dieci anni, Giovanna, che frequentava l’aristocratico collegio Maria Adelaide. Nel periodo delle vacanze Giovanna, come Luigi, restava a casa. Da un balcone all’altro, i due ragazzi cominciarono a guardarsi con simpatia; e un giorno Luigi, seduto sulla ringhiera del balcone, intento a fissare la bambina, perse l’equilibrio e rischiò di cadere di sotto. Se la cavò, però, con un dente scheggiato. Più tardi, alla fine delle vacanze, Giovanna venne a salutarlo. E Luigi, emozionato, fece un gesto incauto, ferendosi a un dito. Giovanna, avvicinatasi, gli prese il dito e se lo portò alla bocca per succhiarne il sangue. Eccitato, Luigi prese quel gesto come un bacio e scoppiò a piangere. Quasi subito gli venne la febbre e restò per tre giorni tra la vita e la morte, come smemorato. Non si nutriva, non si tratteneva nulla, non riconosceva nessuno. Rimase a letto due mesi, quando si alzò era quasi Pasqua. Si aggirava per la casa avvolto in uno scialle enorme, pallido, i capelli dritti. Fu così che lo vide la bambina, rientrata per le vacanze; Giovanna gettò un grido e svenne tra le braccia del padre. E Luigi restò dov’era, tremando come avesse avuto quaranta di febbre. Fu la scoperta dell’amore.

A Palermo, attratto dagli studi umanistici, alla fine del secondo anno delle scuole Tecniche, ottiene dal padre di frequentare il Ginnasio, iscrivendosi al “Ginnasio Liceo Vittorio Emanuele II”, nel quale termina gli studi nel 1885, iscrivendosi all’Università l’anno seguente. Intanto nel 1884, quando era appena diciassettenne, gli viene pubblicata sul numero del 1° giugno della «Gazzetta del Popolo della domenica» di Torino, la sua prima, e resterà unica per parecchi anni, novella: Capannetta, secondo i moduli tipici della rappresentazione verista, con tanto di gente umile, di ambiente campagnolo e con un esplicito riferimento ad una delle più straordinarie novelle verghiane, Jeli il pastore, riprendendone il nome del protagonista.
Palermo rappresenta una prima tappa importante nella sua vita. Divideva il suo alloggio col coetaneo Carmelo Faraci (le due famiglie erano amiche di vecchia data) in via Capo Maestro d’Acqua. Luigi studiava, ma leggeva molto anche di suo (conosce soprattutto i poeti dell’Ottocento come Carducci e Arturo Graf) e frequenta spesso i teatri della città che talvolta mettevano in cartellone rappresentazioni con grandi attrici (vi aveva recitato anche Eleonora Duse), e sull’onda degli entusiasmi giovanili scrive i primi drammi che coraggiosamente presenta a vari capocomici, tutti regolarmente rifiutati, tanto che alla fine, in un momento di sconforto, brucia tutte le sue carte. Gli anni palermitani sono piuttosto intensi e sboccia anche il primo amore: la cugina Lina, più matura di qualche anno mentre lui va ormai verso i venti, figlia dello zio Andrea, fratello del padre.
Proprio in quegli anni scopre una relazione amorosa segreta del padre, scoperta che acuisce il contrasto tra i due.

Alla disarmonia con il padre, un uomo dalla corporatura robusta e dai modi sbrigativi e concreti, corrisponderà nel suo animo una profonda venerazione per la madre, che gli detterà, dopo la morte di lei, le commosse pagine della novella Colloquii con i personaggi (1915). L’amore per la cugina, dapprima non ben visto, è improvvisamente preso sul serio dalla famiglia di lei che pretende, però, che Luigi lasci gli studi e si dedichi al commercio dello zolfo per poter sposare subito Lina. Nel 1886, durante le vacanze, Luigi si reca nelle zolfare di Porto Empedocle e lavora con il padre alla pesa dello zolfo; questa esperienza sarà per lui importantissima e gli fornirà spunti per novelle come Il fumo, Ciàula scopre la Luna e per alcune pagine del romanzo I vecchi e i giovani. Il matrimonio che sembrava imminente viene rimandato e Pirandello si iscrive all’università di Palermo alle facoltà di legge e di lettere (iscriversi a due facoltà era allora possibile). L’ateneo palermitano, soprattutto la facoltà di legge, è il centro in questi anni del vasto movimento che più tardi sfocerà nei Fasci siciliani; Pirandello, pur se non partecipa attivamente a questo fervido clima, è in rapporti di amicizia con i maggiori ideologi del movimento, Enrico La Loggia, Giuseppe De Felice Giuffrida e Francesco De Luca. (Borzi-Argenziano)

Alla fine del 1887 parte per Roma per frequentare l’Università della Sapienza dove si iscrive al secondo anno della Facoltà di Lettere, ed ha per professori Nannarelli, Monaci, Occioni, Guidi, Beloch, Dalla Vedova, Labriola, Piccolomini, Cugnoni, Lignana, Bonghi e De Ruggiero. A Roma viene accolto dallo zio Rocco, di cui abbiamo parlato, che abitava al numero 456 di via del Corso; ma dopo qualche mese si trasferisce in una pensioncina di via delle Colonnette, non molto distante dall’abitazione dello zio. Roma lo affascina e ne scrive in modo entusiastico alla sorella Lina, che in quegli anni viveva in Sardegna dopo essersi sposata con l’ingegner Calogero De Carlo e alla madre in tono più pacato ma non meno deciso a stabilirvi per sempre la sua residenza. Vi frequenta i molti teatri, soprattutto il Nazionale, il Valli e il Manzoni, sentendo un eccitamento che penetra nel suo sangue per tutte le vene.
Ma prova anche un’amara disillusione, che si incarna proprio nella figura dello zio Rocco mitizzata nella sua fanciullezza: quegli ideali risorgimentali che aveva vissuto da bambino nei racconti della madre e dello zio, non esistono in quella Roma così diversa dai suoi sogni e dalle sue aspettative. Il risultato è la prima raccolta di poesie, intitolata Mal giocondo e pubblicata a Palermo nel 1889 dalla Libreria internazionale L. Pedone Lauriel, in cui sono raccolte poesie pubblicate già negli anni 1887/1888, come ad esempio quelle per le nozze della sorella Rosolina pubblicate dall’editore Andrea Amenta di Palermo. La raccolta ci mostra un Pirandello che entra nel mondo, che cerca di capire le cose che stanno intorno a lui cercando di non farsene travolgere, che ripensa alle cose sue e del mondo, come nella sezione Triste: bruciate le vecchie carte, vuole naufragare nel vorace / mare inquïeto de l’umano affetto, scoprendo la folla di

.  .  .  .  .  .  .  .  .       Chierici e beoni,
giovani e vecchi, femine e ostieri,
soldati, rivenduglioli, accattoni,
voi nati d’ozio e di lascivia, serî
uomini no, ma pance, liti amanti,
bottegaj, vetturini, gazzettieri,
voi vagheggini, anzi stoffe ambulanti…,

personaggi che faranno parte della sua opera maggiore. Lo sfondo delle poesie è Roma, al cui contatto vacillano molti suoi ideali: fuori dall’ambiente, tradizionalmente conservativo e tendenzialmente statico, sul piano morale, della sua infanzia siciliana, si sfaldano fondamentali valori, e nasce la ribellione e la volontà di dire il disgusto di quella società corrotta, vecchia nelle sue strutture e incerta anche nelle forze giovani. (Lucio Lugnani, Pirandello. Letteratura e teatro, La nuova Italia, Firenze 1970, pag.16). E fra le vecchie carte bruciate c’è tutto un mondo che viene descritto proprio nella prima sezione, Romanzi, di cui riproduciamo la –V– per intero, perché vi intravediamo, attraverso una certa presa di coscienza della realtà e di se stesso, lo sviluppo stesso della sua poetica e della sua visione della vita, fino a quella follia del personaggio che si preannuncia dolce e già diventa l’ultimo rifugio dell’individuo:

V
Il paese che un dí sognai, del mondo
inesperto e dei mali, su la terra
già lungo tempo lo cercai, fidente
nel vago imaginar che scorta m’era.
Molti paesi visitai deluso,
molti da lungi salutai fuggendo,
e su i lor tetti, declinante il giorno,
con la notte, la pace e il dolce inganno
sempre invocai dei sogni e il calmo oblio.
Ma per incerte vie, tra sassi e spine,
tacito andando nel desio pungente,
quanta parte di me viva lasciai!
Folle, e sperai; folle, ebbi fede. E solo
ai danni miei presiede ora crudele
la coscienza che mai, che mai dal suolo
in cui giaccio, menzogne pïetose,
amor di donna o carità d’amico,
a rïalzarmi non varran – piú mai.
Né a te, paese dei miei sogni novi,
ora piú credo; e tardi, ahimè, compresi
che vano era cercarti sotto il sole.
Se tristi grue pe ’l ciel fosco passare
vedea mesto, tra gli alberi battuti
da i primi venti d’autunno, in mente
io mi dicea: «Là giú, là giú, lontano,
nel bel paese dei miei sogni andranno,
ove eterna fiorisce primavera ».
E a lui credea n’andassero, portate
dal lungo vento, anche le foglie ai rami
strappate; a lui le nuvole, e le vaghe
da i petti umani illusïon fuggite…
Era follia, follia certo; ma dolce.

        Di questa raccolta scrisse nell’appunto autobiografico che abbiamo ricordato proprio ad apertura di questo lavoro:

        Il mio primo libro fu una raccolta di versi, Mal giocondo, pubblicato prima della mia partenza per la Germania.

Lo noto perché han voluto dire che il mio umorismo è provenuto dal mio soggiorno in Germania; e non è vero: in quella prima raccolta di versi più della metà sono del più schietto umorismo, e allora io non sapevo neppure che cosa fosse l’umorismo.

        Durante l’estate del 1889, mentre si trovava ad Agrigento, va a visitare, su consiglio del professor Ernesto Monaci, docente di Filologia romanza presso l’Università di Roma, che aveva preso a benvolerlo, la biblioteca Lucchesi-Palli, per verificare se in essa erano contenuti antichi manoscritti. Tornando a Roma, da Palermo, prima di imbarcarsi, scrive al suo maestro una lunga lettera con i risultati dell’indagine richiesta resa oltretutto difficile dallo stato di totale abbandono e incuria in cui si trovava la biblioteca Lucchesiana, che servirà poi da modello per la biblioteca descritta nel romanzo Il fu Mattia Pascal.
Il soggiorno romano viene bruscamente interrotto nel 1889; Pirandello ha un contrasto piuttosto acceso con il professor Occioni di Lingua e Letteratura latina, e allora, per evitare una probabile espulsione, su consiglio del professor di filologia romanza Ernesto Monaci, parte per la Germania diretto all’Università di Bonn, con una lettera di presentazione del professore stesso per Foerster. L’episodio così viene narrato da Virginia Brancaleoni nell’introduzione a una raccolta di novelle pubblicata nel 1935:  Durante una lezione di latino un illustre professore, traducendo Plauto, commise un errore. Pirandello e un sacerdote che gli era vicino si scambiarono una gomitata d’intesa. il sacerdote sorrise. Avvenne una reazione furiosa del professore contro il prete “disattento”. Pirandello difese il compagno dicendo, e pare con molta veemenza, la verità. Deferito al Consiglio di disciplina dovette cambiare università.
Il viaggio comincia dalla stessa Palermo il 25 settembre dopo aver salutato la fidanzata; si ferma a Roma ospite dello zio Rocco e infine a Cavallasca, vicino Como, presso amici, forse gli stessi coi quali si era trovato in un mai ben accertato viaggio del 1880 di cui narra lo stesso Pirandello nel Frammento d’autobiografia dettato a Pio Spezi e che questi pubblicherà sulla Nuova Antologia nel fascicolo del 16 giugno 1933, al quale l’autore non riconoscerà mai la propria paternità, fino a mettere in dubbio alcuni particolari biografici. Il 10 ottobre è già a Bonn e prende alloggio in un primo momento all’Hotel zum Münster, lo stesso che ospitava il mosaicista Giovanni Sambo venuto da Murano per rivestire la cupola del Duomo e qualche settimana dopo al numero 1 di via Neuthor.
Qualche mese dopo (gennaio 1890) conosce conosce a un ballo mascherato Jenny Schulz-Länder; così ne scrive alla sorella Lina:

        «Ho indossato anch’io un domino e – inorridite – ho anch’io ballato, o per dir meglio saltato, e meglio ancora, pestato i piedi al prossimo mascherato. Fui a dirittura forzato a farlo da una mascherina azzurra da un cappellaccio di paglia spropositato – che mi si attaccò al braccio e non mi lasciò più per tutta la sera. A mezzanotte, ora in cui è costume di tór via le maschere, fui meravigliatissimo di riconoscere nella mia diabolica incognita, una delle bellezze più luminose che io mi abbia mai visto».

        La conoscenza di Jenny lo porta a lasciare via Neuthor e va a stare a pensione in casa della signora Länder, vedova di un ufficiale morto nella guerra franco-prussiana del 1870, madre della ragazza al n. 37 di Breite Strasse. Il suo secondo volume di poesie, dal titolo Pasqua di Gea, è dedicato proprio a Jenny (Meine liebe, süsse Freundin), di cui si innamora e che rivestirà una parte importante nella sua vita anche sul piano spirituale, in quanto gli rimarrà per sempre dentro l’amarezza di un amore non realizzato, l’unico vero della sua giovinezza. Nella poesia Convegno, pubblicata nella Rivista d’Italia nell’ottobre 1901, e successivamente nella raccolta Fuori di chiave (pubblicata dall’editore Formìggini di Genova nel 1912), parla proprio dei tre suoi amori della fanciullezza, vissuti a Como, a Bonn e a Palermo.

CONVEGNO

I

Per le città, nostre o d’oltralpe, in ogni

luogo, ov’ho fatto alcun tempo dimora,

io vedo un altro me, com’ero allora,

il qual lieto s’aggira entro a quei sogni,

che suoi soltanto e non pur miei son ora.

Né verun d’essi sa, che piú ne sia

di me. Qua vive o là, chiuso ciascuno

nel proprio tempo. Oltre non vede. E uno

si ferma, or ecco, a sera, in una via

di Como, e guarda in sú, se un viso bruno…

Ahi, quella bruna – egli no ’l sa – maestra

ora è di vizii e di sé locandiera…

Ma come può saperlo, se ogni sera

davvero ancor s’affaccia alla finestra

ella, e d’amor gli parla ed è sincera?

L’altro, eccolo in Germania, a Bonn sul Reno,

sotto un cappello di castoro, enorme:

magro egro smunto: non mangia, non dorme;

studia sul serio (o cosí crede almeno)

del linguaggio le origini e le forme.

Studia, ma… è notte: brontola il camino;

fuori, la neve lenta eterna fiocca:

pian l’uscio s’apre e, un dito su la bocca,

entra scalza Jenny… Libro latino,

di ravvivare il fuoco ora ti tocca!

Oh, chi a Palermo incontrasse per caso

quell’altro me, che della vita mia

la stagione piú bella tuttavia

colà si gode, sgombro e ancor non raso

il mento, alato il cor di poesia,

deh, l’induca a venire a me per poco:

or son qui solo; e, nella fredda, oscura

notte, la solitudine paura

quasi mi fa. Seduto accanto al foco,

nella prigion di queste quattro mura,

io gli altri me chiamo a convegno. Solo,

fors’egli solo non verrà, ché troppo

son io diverso ora da lui: vo zoppo

pe ’l cammin che intraprese egli di volo,

e la trama ch’ei finse or io rattoppo.

II

Silenzio. Gli altri, con le amiche a braccio,

entrano. Come io resterei, se vecchio

mi vedessi d’un tratto in uno specchio,

essi, cosí, dinanzi a me. L’impaccio

vincon prima le donne, e in un orecchio

vien la bruna di Como a dirmi in fretta:

– «Tu sai che cosa io sono, ora; ma a lui

non dirne nulla: ei mi vede qual fui!»

Ti basta un sol mio sguardo, o poveretta,

e in un brivido tutta ti rabbuj.

Egli ha guardato me; qual sei ti vede.

Non nasconderti il viso, ché di te

non ha ragione di lagnarsi: in me

vani egli or vede l’amor tuo, la fede

che gli giuravi, e vana ombra pur sé.

E tu, Jenny? Ti sei nascosta dietro

la tenda? Piangi? Il magro tuo dottore

mi guarda, come oppresso di stupore.

Da quella neve, da quell’aer tetro

venía la sua magrezza, il suo squallore.

Eh, tu, dottor, lassú donde t’ho tratto,

ree promesse ripeti alla gentile

compagna. E vedi? Or ella piange. Vile

forse son io? Non tu, piuttosto, matto?

Le ho mandato da Roma un bel monile…

Mi chiedi conto de’ tuoi studii? E voi

dei vostri sogni mi chiedete conto?

Vedete, io non mi lagno, non m’adonto

dei lievi o gravi error vostri, che poi

m’han cagionato i danni ch’ora sconto.

Io vedo in voi ciò che ho man man perduto.

Delle perdite sue non s’era intanto

accorto alcun di voi, poi ch’ancor tanto

restava a me da perdere. Or che muto

e vuoto son rimasto, odio il rimpianto.

I capelli? Debbo anche dei capelli

rispondervi? Oh che bei ciuffi avevate

voi tutti: biondi, come il sol d’estate…

Con gli anni, via, via coi sogni anche quelli!

O lasciatemi in pace, andate, andate.

        La raccolta Pasqua di Gea, anche se scarso rimane il suo valore poetico, è la migliore delle sue raccolte di poesie, nelle quali comunque il contenuto prevale sulla forma e ci documenta, al fondo “di una apparente e letteraria allegrezza, lo stesso sentimento del vivere”. A leggerla bene, la poesia sembra proprio anticipare i temi del futuro Pirandello, tra disintegrazione del personaggio (la convocazione  degli altri /me/ che hanno popolato i momenti importanti amorosi della sua vita) e la visione umoristica degli avvenimenti. La permanenza in Germania segna un momento di vita più pura rispetto alla corruzione che a Roma cominciava a diventare dilagante. Il sentimento amoroso per Jenny è autentico e si scontra con quello “legale” contratto in Sicilia. Le sue condizioni di salute cominciano a peggiorare e una sua lettera mette in grave apprensione la sua fidanzata ufficiale, i cui genitori pretendono ora la sua presenza a Palermo. Nel mese di luglio parte dalla Germania per la Sicilia, dove comunque si ferma poche settimane: tranquillizza la fidanzata e si rimette in salute, ripartendo nel mese di agosto per Bonn, dove il 21 marzo 1891 si laurea discutendo una tesi su Suoni e sviluppi di suono della parlata di Girgenti (Laute und Lautentwicklelung der Mundart von Girgenti). Nella primavera dello stesso anno rientra in Italia. Citiamo da Sciascia:

        Appena dopo la discussione della sua tesi sui Suoni e sviluppi di suoni nella parlata del circondario di Girgenti, appena ottenuta la laurea, volta le spalle a Bonn e alla Germania con una impazienza e insofferenza che mai, a quanto pare aveva fino allora manifestato: “Non solo io non ho in animo di fermarmi per sempre a Bonn; ma io non vorrò, una volta partito, neanco rivederla più da lontano. Era di Roma che io ti parlavo; e là io conto di fermare la mia stanza per sempre… Io voglio il Sole, io voglio la luce, e qui non si vedono mai né l’uno né l’altra; qui i giorni s’estinguono come tramonti continui”: così scrive alla sorella (e la parola sole la mette con S maiuscola). Più tardi nel 1904, in una poesia intitolata Vecchio avviso, esprimerà meno banale insofferenza nei riguardi del mondo tedesco dirà di una sua inquietudine che è poi quella che per mezzo secolo ha assillato l’Europa intera. E la descrizione di una scena allora non inconsueta in Germania, il concerto domenicale di una banda militare: Questi versi, e più i tre che dicono di una natura spaventata e annientata dal vento di guerra e di morte delle trombe, sono i più veri e i più belli che Pirandello abbia scritto in quel periodo, e si levano come premonizione dolorosa all’alba di un secolo che conoscerà quella insania non improvvisa ma lunga, duratura, filosoficamente articolata. La filosofia detta della vita, i cui termini più facilmente di quanto si dovrebbe vengono impiegati a definire il mondo pirandelliano, si avviava a diventare la filosofia della morte. A noi qui, ora, basta sapere che Pirandello ne ha avuto il presentimento.

(L. Sciascia, da La corda pazza)

Giuseppe Bonghi

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    Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui. Indice…

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