Di Pietro Seddio.
Ricorderò sempre quello sputo che cominciava a colarle dalla guancia colpita. Rivedo, anche, quelle labbra rosse e quella pena che fuoriusciva dai suoi occhi impiastricciati. Da quel giorno tra me e mio padre scese un avvilente silenzio e per molto, tanto tempo, evitammo ogni dialogo.
Io sono figlio e uomo del Caos
Per gentile concessione dell’ Autore
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Io sono figlio e uomo del Caos
Capitolo 8
La presenza del padre
Riuscii, dopo molte resistenze da parte di mio padre, ad iscrivermi al ginnasio e fui compagno di De Gubernatis che certo non brillava in letteratura italiana. Cercai di studiare soprattutto per dimostrare a don Stefano che quella era la scuola giusta, ma in me si sviluppò, intanto, un’altra passione, quella del teatro. Ed infatti, coadiuvato dai mai fratelli, dai vicini di casa, sul pianerottolo della ripida scalinata del giardino antistante, rappresentai un’opera che però, per il boicottaggio da parte di un attore indisciplinato, fu un vero fiasco.
Io leggevo tanti romanzi che si vendevano a dispense ed ero attratto dagli spettacoli dei pupi siciliani che spesso si trovavano nelle piazze circondati da un sempre numeroso pubblico. Fu un buon periodo che durò fino a quando la miniera non venne chiusa per fallimento e la mia famiglia si trovò a convivere con la ristrettezza e la miseria.
Mia madre, poveretta, soffriva terribilmente seppur cercava di riuscire a sfamarci che certo non mancavamo di fame. Mio padre, intanto decise di spedirci tutti a Palermo dove rimasi per un certo periodo. E proprio in questa città ho vissuto la mia vita di giovanotto.
Vi trascorsi, un periodo di maturazione e di crisi sentimentale e si rivelò il luogo delle avventure di una sensualità frustrata e di una concomitante occasione romantica che cercavo di sfogare tentando di scrivere poesie. I sei anni trascorsi a Palermo, confesso, mi hanno consentito di acquisire importanti esperienze di vita e questo mi ha permesso di formarmi una vitalità che mi ha agevolato per superare, in un secondo tempo, prove ardue e difficili.
Qui, proprio in questo periodo, cominciai a formalizzare l’idea dello specchio di fronte al quale confrontarmi. Aggiungo, per amore di verità, che non fu tutto negativo perché fui preso da sentimenti e sensazioni positive quali l’aver assaporato le prime modalità sensuali e alimentato i primi amori.
Testimonio che alla fine di questo periodo sono riuscito a scoprire e comprendere le mie inibizioni che mi diedero la possibilità di abbandonare la vita sentimentale al caso e alla sorte, comunemente inteso come destino. Ho continuato ad amare ma volutamente sotto il segno della disgrazia e questo, alla fine, è stato il risultato del mio limite. Ero arrivato in quella città pieno di spirito di avventura provando un certo sollievo avvertendo piacevolmente la lontananza di mio padre.
Tutto ciò mi ha consentito di sentirmi libero, padrone di me stesso, ed ho potuto constatare le bellezze della città che contrastavano con lo squallore di Girgenti e la ferocia della vicina Porto Empedocle.
Questa è stata una convinzione che non è mai scomparsa tanto che in qualche opera da me scritta ho avuto modo di ricordarla; ecco un piccolo resoconto:
“Lo spettacolo (parlo di Palermo) si spalancava vasto e lucente. Tutta la città, distesa immensa di tetti, di cupole, di campanili, tra cui gigantesco la male del Teatro Massimo”.
A Palermo mio padre aveva preso in affitto una casa situata in via Porta di Castro, nel centro ora popolare della città, allora quartiere borghese e semi-nobiliare dietro le mura di Palazzo Reale. Vi si trovavano due piani, noi occupavamo il primo mentre ne l secondo abitava una famiglia di ceto agiato; vi si trovava pure una bambina che frequentava l’istituto “Maria Adelaide”, collegio frequentato dalle fanciulle della borghesia e dell’aristocrazia isolana.
Accadde un fatto che segnò parte di quel periodo che è rimasto vivo nei miei ricordi tanto che ancora ne parlo, come se fosse accaduto poco tempo addietro. L’episodio, voglio ricordarlo, è stato riportato dalla biografia scritta da Nardelli che io controllavo, pur mai intervenendo direttamente. Mi trovavo d’accordo su tutto quello che riportava scrivendo. Orbene, ancora ricordo che era una simpatica ragazzina che si chiamava Giovanna ed io, seppur la vedevo per le vacanze, iniziavo a provare dei sentimenti di simpatia, un trasporto non classificabile che non riuscivo a identificare. Ma ero sempre estasiato e pieno d’ardore. Non smettevo di guardarla. In più occasioni, lei al balcone più alto e io a quello più in basso, ci guardavamo fissi, forse già parlavano i nostri sguardi. Una volta per essermi sporto più del solito rischiai di precipitare, cercai di tenermi alla ringhiera ma non potei evitare di scheggiarmi un dente.
Le vacanze finirono e la ragazzina venne a salutarci e preso da un insolito tremore per averla vicina, feci un gesto maldestro e mi ferii ad un dito dal quale comparve subito qualche goccia di sangue. Fu un momento imbarazzante, Giovanna senza turbarsi mi si avvicinò, prese il mio dito e con le labbra succhiò quelle gocce di sangue. Non fu un intento peccaminoso da parte della ragazza, ma io fui preso da una stranissima sensazione che avvertii come un congiungersi di anime e corpi, come una amorosa eucarestia.
Scoppiai in lacrime e quasi subito fui assalito dalla febbre e per alcuni giorni si temette per la mia vita. Non mangiavo e quel poco che riuscivo ad ingoiare veniva rimesso fuori. Fu mia madre, alla fine, a curarmi così da salvarmi da morte certa. Rimasi a letto parecchio tempo e, coperto con uno scialle, col volto esangue, quella volta mi aggirai per le stanze e fui visto dalla ragazza la quale si mise a gridare (aveva visto certamente un fantasma) per poi cadere svenuta tra le braccia del padre che le era vicino.
Lo stesso la portò di sopra spaventato mentre io tremavo, tremavo. Compresi solo allora che mi ero innamorato. Successivamente siamo andati ad abitare in via Borgo, di fronte alla chiesa di Santa Lucia. Fu in questo periodo che maturò l’idea di cimentarmi nella scrittura e mi impegnai con caparbietà, forse emulando quel grande autore che per scrivere si faceva legare alla sedia. Iniziai a scrivere le prime poesie che solo pochi hanno letto e delle quali si parla raramente. Comunque poesie autobiografiche.
Intanto, dimenticata Giovanna, la mia attenzione si rivolse nei confronti di mia cugina, Linuccia, più grande di quattro anni, della quale mi innamorai perdutamente e per la quale scrissi alcune poesie. Intanto, io, la mamma, i fratelli e sorelle vivevamo ancora a Palermo mentre mio padre spesso e sovente si allontanava per recarsi a Porto Empedocle. Non sapevo fino a quel momento, che mi sarei trovato di fronte ad una tragica realtà. Avevo quattordici anni e dentro fremevo di ribellione. Ed ecco la tragedia scoperta.
Da tempo si conosceva il carattere violento di mio padre così come si sospettava che spesso e sovente era solito fare scappatelle amorose, soprattutto quando non gli mancavano i soldi in tasca, così come si sapeva che da giovane era stato innamorato di sua nipote ma che si erano poi lasciati.
La stessa che era figlia di una sorella di mio padre, si era a sua volta sposata ma poco dopo era rimasta vedova con figli e si era trovata in pessime condizioni finanziarie. Chiese aiuto a mio padre inviandogli alcune lettere per sollecitarlo ad aiutarla. E fu proprio mia madre a consegnargli le lettere non prevedendo quello che sarebbe successo. Quelle richieste non solo suscitarono interesse da parte di mio padre ma risvegliarono l’antico amore che non mancò di accendersi anche nella donna.
In principio i loro incontri avvenivano nel parlatorio dell’Origlione, presso madre Francesca, sorella di Stefano, badessa del convento, complice di quella tresca amorosa che rasentava l’adulterio.
Io iniziai a sospettare di quella tresca e decisi di prendere le difese di mia madre che, pur sapendo, soffriva in silenzio senza mai profferire una parola. E come poteva? Avrebbe suscitato una violenta reazione da parte di don Stefano.
Il silenzio accumulato, la mortificazione subita, il dolore che lacerava all’interno la povera Caterina, resero questa quasi miserevole nell’aspetto. Gli occhi sempre lucidi, le labbra smorte, le mani tremanti e quasi piegata nella persona. Invecchiata anzitempo e io, nel vedere quel repentino cambiamento, decisi di porre fine a quella vergognosa storia.
Sapevo per certo che le domeniche mattina i due si davano convegno nel parlatorietto riservato della madre badessa del monastero di San Vincenzo, ch’era della zia. Loro fingevano di andarle a fare visita e la vecchia badessa che forse scusava con la parentela tra i due la tenera intimità di quei convegni, in cuor suo godeva di vederli, posti uno di fronte all’altra, ai due lati del tavolino, sotto la doppia grata. Don Stefano indossava un abito turchino, lei assai piacente carnalmente, alquanto soddisfatta, vestiva di raso nero e luccicante d’oro.
Solevano imboccarsi: un boccone tu, un boccone io, e le innocenti confezioni della badia (vere leccornie) erano accompagnati da bicchierini di rosolio con l’essenza di cannella. Un sorso io, un sorso tu. E risate. Risate a non finire. Non era di meno la badessa che osservava quel siparietto da dietro la grata.
Decisi di sorprendere i due amanti proprio una domenica, e quando arrivai di sorpresa, mio padre fu lesto a nascondersi dietro una tenda verde, ma stolto, non comprese che quella non era lunga abbastanza per cui io vedevo i suoi piedi con le scarpe lucide, di coppale lisce. Lei, come paralizzata, era rimasta seduta tenendo ancora il bicchierino di rosolio in mano.
Mi avvicinai minaccioso verso di lei, forse riuscii con lo sguardo a fulminarla, ma non mi fermai a guardarla, perché le mandai, sul viso, un grosso sputo che la colpì violentemente. Mio padre immobile dietro la tenda non fece nessuno gesto.
Quando in casa ebbi occasione d’incontrarlo non disse niente e dell’episodio non si parlò mai.
Ricorderò sempre quello sputo che cominciava a colarle dalla guancia colpita. Rivedo, anche, quelle labbra rosse e quella pena che fuoriusciva dai suoi occhi impiastricciati. Da quel giorno tra me e mio padre scese un avvilente silenzio e per molto, tanto tempo, evitammo ogni dialogo. Ma dopo la morte di mia madre, nel 1913, acconsentii a prendere in casa mia, a Roma, il vecchio don Stefano, ormai inabile e mezzo cieco non facendogli mancare niente.
Che dire? Da quel momento fui invaso da contrastanti sensi di rimorso, di vendetta, di acredine, di tenera commiserazione. Ormai ero convinto che fin da quando ero stato piccolo ad oggi il confronto rude, contagioso, con mio padre, sarebbe stato un macigno sulla testa che non avrei mai più potuto togliere. Ricordo che dopo quell’episodio la vita in famiglia non fu più la stessa. E sembrò che quell’evento si ritorcesse contro mio padre perché una mia sorella si ammalò gravemente sconvolgendo il suo cervello e per la prima volta mi sono trovato a fare i conti con la pazzia.
Non sono certo ma molto probabilmente mio padre, per quella tragica evenienza, abbia sentito il peso della sua colpa e che quella fosse la punizione che gli fu inferta. Sulla famiglia sembrò cadere il cielo e tutto diventò complicato, tragico ed allora don Stefano decise di riportare la famiglia a Porto Empedocle, in campagna, alle “Due Riviere”, nei pressi di Monte Rossello.
Ancora una annotazione per completare questa mia parte di racconto. L’amante di mio padre, sempre grazie al suo interessamento, si risposò con altra persona, disposta a rendere legittima la nascita di una bambina che certamente a quest’ultimo non apparteneva.
Di chi era quella bambina? Lo lascio immaginare a voi che avete seguito questa storia. Io rimasi solo a Palermo ed andai ad abitare in via Maestro d’Acqua, una stanzetta d’affitto, con un altro compagno proveniente da Sant’Agata Militello, un certo Carmelo Fracci. Ero ormai al mio ultimo anno di liceo.
Confesso, anche se sembrerà strano, che non ero un alunno modello, frequentavo poco la scuola in quanto ero convinto di non voler perdere tempo. Per me andare a scuola era semplicemente un impegno poco redditizio e partendo da queste realtà misi pure in difficoltà il Consiglio dei Professori che doveva decidere sulla mia ammissione agli esami.
Confesso, altresì, con tanta gratitudine, che il mio compagno di stanza, che mi vedeva con occhio particolare, mi fu di grande aiuto tanto da sobbarcarsi tutte le materiali incombenze provvedendo a rassettare la stanza, a fare la spesa, a cucinare, mentre io scrivevo dedicandomi alle mie appassionate vicende d’amore rivolte a mia cugina Linuccia.
Avevo già diciotto anni. Sottolineo che la ragazza era circondata da giovanotti e mi sembrava che il suo atteggiamento, per me, non fosse tanto serio, proprio da civetta, pensavo. Ma ero innamorato oltre che geloso. Pensai di combattere la concorrenza con i versi poetici seppur il mio cuore rimaneva costantemente triste e sempre in tumulto.
Apparteneva, Linuccia, ad una famiglia numerosa ed io avevo stretto amicizia con uno dei suoi fratelli così avevo la possibilità di frequentare la loro casa, ma non osavo dichiararmi. Maledetta la mia timidezza che mi bloccava. Un amore lacerante quanto timidissimo il mio. Ma per un miracolo, un giorno, fu lei a dichiararsi dopo aver rifiutato la corte di altri pretendenti. Io rimasi sconvolto ma piacevolmente appassionato, acceso nello spirito seppur ancora non riuscivo bene a focalizzare ciò che stava per accadere.
Il mio compagno di stanza lasciò Palermo per la morte di un fratello mentre io mi ero trasferito in via Bontà, da una prozia, vedova, povera, che acconsentì che io abitassi nella sua casa.
Non lo avevo previsto, ma il rapporto con Linuccia si complicò perché questa rifiutò un buon partito e nonostante il di lei rifiuto, i genitori continuavano a spingerla tra le braccia di quel vedovo ricco palermitano che possedeva un assortito negozio di stoffe. Sarebbe stato un grosso affare per tutta la famiglia.
Fui esentato, senza tanto complimenti, a non frequentare più la loro casa e credetti di morire, per fortuna che non aveva perso l’interesse di Linuccia e considerando la sua risolutezza, fui allora invitato esplicitamente a chiedere la sua mano. Cosa sentivo? Ma a quale condizioni? Fu la madre di lei che mise sul tavolo (come si dice) le proposte.
Innanzitutto dovevo abbandonare la scuola e andare a lavorare con il padre. Certo la sua figliola non poteva essere data in sposa ad uno spiantato. Prendere o lasciare. Io lavorare con mio padre? Mi sentivo tra l’incudine e il martello, ma ero tanto innamorato per cui decise di recarmi a Porto Empedocle per chiedere l’assenso di mio padre, seppur a malincuore. Potevo rinunciare al mio amore? Ma nel frattempo potevo tornare con mio padre?
Mio padre!, fu informato e mi disse subito che quella richiesta altro non era che una circuizione di minorenne e quindi inaccettabile. Quella donna, la madre di Linuccia, certamente sapeva che la famiglia Pirandello se la passava bene, e quindi mirava soltanto al loro patrimonio, nient’altro e sapeva, don Stefano, che proprio quel patrimonio faceva gola a molti.
Cercò di convincermi a non essere precipitoso, interessato fino allo spasimo ed allora era giudizioso prendere tempo, il tempo avrebbe consentito la migliore soluzione. Ne parlammo, in famiglia, per quasi un mese e ricordo che mia madre cercò sempre di trovare la soluzione migliore.
Finalmente si decise (e la decisione fu presa da mio padre) che io tornassi a Palermo e completare l’anno scolastico. Dare tempo al tempo, questa la sua massima, e chi poteva contraddirlo? Ecco, ero già alle prese con le tante problematiche che mi si presentavano quando io credevo che tutto doveva svolgersi senza intoppi.
Ero giovane e come tale nella mia mente, a parte la propensione alla letteratura, non albergavano pensieri che non mi potessero soddisfare anche se già avvertivo un senso di fastidio, di tristezza, di insoddisfazione e questo già mi procurava inquietudine, alternarsi di diversi sentimenti che non riuscivo a decifrare, ma mi ostinavo ad andare avanti perché volevo realizzare i miei sogni e in quel momento volevo solo continuare ad amare Linuccia a costo di affrontare lotte e battaglie, ricordando i tanti personaggi letterari ideati da grandi autori aggiungendo che ero disposto a morire, come Paola e Francesco, Orlando, Giulietta e Romeo.
Io sarei stato ricordato come Luigi e Linuccia. Certo non era una bella prospettiva, ma ad altro non sapevo pensare. Comunque sia, riuscii alla fine a terminare il liceo e quindi feci ritorno a Porto Empedocle dove pensavo di vivere una nuova vita e tutta diversa da quella fino ad allora vissuta. Mancavo da circa sette anni, anche da Girgenti, ma ritrovai la stessa bolgia di sole e di zolfo. Era un inferno terribile, nel contempo suggestivo, prepotente e quanto mai nemico. Così improvvisamente mi ritrovai a vivere una realtà surreale accanto a quel persistente vociare di uomini scamiciati e scalzi aggirarsi tra le cataste di zolfo e le stadere.
Ricordandomi di questa impressionante esperienza, quando scrissi il romanzo “I vecchi e i giovani” in alcune parti ne parlai dettagliatamente. Ed ecco un breve passo che riporto dettandolo all’amico perché lo trascriva:
“Da mane a sera, è uno stridor continuo di carri che vengono carichi di zolfo dalla stazione ferroviaria o anche, direttamente, dalle zolfare vicine; e un rimescolio senza fine di uomini scalzi e di bestie, ciattìo di piedi nudi sul bagnato, sbaccaneggiar di liti, bestemmie e richiami, tra lo strepito e i fischi d’un treno che attraversa la spiaggia, diretto ora all’una ora all’altra delle due scogliere sempre in riparazione… Schiacciati sotto il carico con l’acqua fino alla reni. Uomini? Bestie!…, le fogne sono ancora scoperte sulla spiaggia e la gente muore appestata; con tanto mare lì davanti, manca l’acqua potabile e la gente muore assetata! Nessuno ci pensa; nessuno se ne lagna. Paiono tutti pazzi, là, imbestiati nella guerra del guadagno, bassa e feroce!”.
In quella bolgia dantesca ci sono rimasto circa tre mesi, anche io sudato, impolverato di giallo, sono stato a pesare zolfo, sempre attento perché non mi frodassero. Comunque compresi, anche in termini economici, i problemi dell’industria e del commercio dello zolfo.
Fu quella l’unica competenza in verità, al di fuori di quella letteraria e sottolineo che riuscii ad avere contatto con i termini immediati di una realtà economicosociale. Riconosco a mio padre una vera padronanza in questo settore specifico non per niente facile e pieno di insidie. Ho avuto, in quella occasione, di studiare con curiosità la vicenda del minerale prima e dopo che arrivasse sulle stadere in quelle forme poetiche gialle trapezoidali. Ma ebbi anche l’occasione di avvicinarmi al problema della campagna “bruciata” come per una condanna dai fumi delle fornaci di fusione dello zolfo, riuscendo a descrivere quei contadini smarriti di fronte al fenomeno nuovo dell’abbandono dei campo verdi e sereni alla dolorosa e impoetica produzione.
Era la morte del campi e la loro, delle loro famiglie, inevitabilmente. Non lo fu di meno per gli zolfatari che uscendo da quegli antri neri, malsani, speravano di rivedere terre ubertose, respirare aria pura, mentre invece vedevano un deserto arido e respiravano un’aria malsana per cui, anche al di fuori da quelle viscere, continuavano ad essere tanti morti affaccendati.
E a proposito della vita dei minatori, mai dimenticherò quella condotta dai “carusi” che mi sono stati sempre a cuore tanto che in più occasioni, diventato scrittore, li ho menzionati e dato a loro, letterariamente parlando, una vita più dignitosa, visto che in miniera hanno vissuto come peggio non avrebbero potuto. Non ragazzi, non quasi bambini, ma schiavi a tutti gli effetti per cui erano maltrattati, vilipesi, soggetti a qualsiasi forma di violenza e spesso, tra quelle caverne nere e affumicate, si compivano atti deprecabili. Tanto nessuno avrebbe mai parlato e nessuno sarebbe stato colpito dalla giustizia.
Un modo nascosto, perverso, dove la fatica e non solo, regnava senza alcuna regola, nemmeno la più elementare ed io ho sempre continuato ad avere pietà, tanta pietà, sapendo che molti di quei ragazzi, poi uomini, sarebbero stati condannati a portare il peso di quelle amare esperienze.
La si poteva considerare vita? Ci poteva essere una giustificazione? Chi era l’autore di tale simile sfacelo, di simili vessazioni? E poi perché quei ragazzi che lavoravano come bestie dovevano anche patire sofferenze inaudite? Iniziavo a pormi domande che non sarebbero state né le uniche né le sole e non mi sarei mai più fermato. Ho vissuto quella esperienza terribile causa lo zolfo che, comunque, per quelle zone era la ricchezza e la sopravvivenza per molte famiglie disperate.
E consideravo ancora che nonostante quello zolfo provocasse disastri, morte, malattie, invecchiamenti precoci, contemporaneamente (ironia della sorte) provvedeva a sostentare tutte quelle famiglie, fantasmi che continuavano ad aggirarsi, e per loro era la vita. Ecco allora che, ma per quale sorta di destino?, la morte portava vita e questa a sua volta camminava a braccetto alla morte, quasi in una macabra danza? Più tardi avrei capito parte di quel mistero e avrei cercato di chiarirlo attraverso alcune mie scritte considerazioni.
Voglio precisare, ritornando indietro con i pensieri, che tutto Porto Empedocle mi sembrava sbagliato, assurdo. Ho potuto constatare che tutti quelli che lavoravano lo zolfo non sapevano cosa poi si facesse dello stesso, qualcuno diceva che lo si utilizzava per fare fiammiferi, ma nessuno aveva la percezione di dove questo minerale andasse a finire.
A portarlo in regioni e Stati lontani erano vapori inglesi, americani, tedeschi, francesi ed anche greci. Lo ingoiavano nelle loro stive e addio! E quelli che lo lavoravano continuavano ad ignorare dove finisse e come sarebbe stato utilizzato.
A godere dei pochi benefici, dopo l’estrazione e la vendita non erano quei poveri fantasmi che si aggiravano disperati sulle banchine e dentro le miniere, ma i pochi proprietari che continuavano ad arricchirsi, mentre gli altri a morire, a diventare sempre più bestie, a sperare inutilmente in qualche evento. Ma quale evento sarebbe stato valido e miracoloso?
Pietro Seddio
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