Di Pietro Seddio.
Ancora sono fermo a pensare che questa città è brutta, abbandonata e nel vedere tanti palazzoni così sparpagliati non credo possa ritenersi una città in linea con i tempi. Ma io ho il dovere di raccontare il mio passato che mi appartiene e quindi non mi è consentito parlare del presente e proprio del passato parlo.
Io sono figlio e uomo del Caos
Per gentile concessione dell’ Autore
««« Cap. 4: Riceve il battesimo
Cap. 6: Incontro con i fantasmi »»»
Io sono figlio e uomo del Caos
Capitolo 5
Pirandello e Agrigento
Caro Seddio, da tanto tempo è risaputo che la mia vita, una volta diventato famoso, non ha più avuto requie e per vari motivi sono stato costretto a girovagare per il mondo e se da una parte sono stato circondato da migliaia e migliaia di persone, mi sono sentito, per contro, infinitamente solo.
E’ vero che il mio corpo ha dormito in comodi letti, ho mangiato in ottimi ristoranti, ho assistito alle rappresentazioni delle mie opere in affollati teatri, ma alla fine della fiera, dopo questo sfavillio di luci, di sguardi, di riconoscimenti, mi sono venuto a trovare con la mia solitudine; meno male che a farmi compagnia ci sono stati sempre gli amici fantasmi, loro mi hanno salvato. E se qualcuno mi chiede perché quest’amore nei confronti dei miei fantasmi, credo di averlo esplicitamente chiarito.
Torno a parlare, continuando il racconto, di come vissi quelle esperienze giovanili, ma prima voglio sottolineare che nel mio cuore ho conservato vivo il ricordo di quella casa al Caos, rimasto punto indelebile di riferimento. Non posso essere smentito, in quanto alla stessa ho voluto dedicare una poesia intendendo testimoniare vero affetto nei confronti di quel manufatto che ora per fortuna è tornato ad essere funzionale dopo i danni subiti dal terremoto e non solo.
Casa romita in mezzo alla natia campagna, aerea qui, su l’altipiano d’azzurre argille, a cui sommesso invia fervor di spume il mare aspro africano, te sempre vedo, sempre, da lontano,
se penso al punto in cui la vita mia s’aprì piccola al mondo immenso e vano: da qui dico da qui presi la via.
Da questo sentieruolo fra gli olivi, di mentastro, di salvie profumato,
m’incamminai pe’l mondo ignaro e franco.
E tanto e tanto o a fiorellini schivi tra l’erma siepe, tanto ho camminato per ricondurmi a voi deluso e stanco.
Confesso che nonostante sia trascorso tanto tempo, quando la rileggo, mi sento soddisfatto. C’è tutto il mio sentimento che pochi hanno conosciuto per non dire confusamente interpretato.
E comunque, allorquando ritornammo ad Agrigento mi colpì lo stato di abbandono della stessa e confesso che in più occasioni ho evidenziato le brutture e le ferite che le hanno inferto pur sapendo che per le sue meraviglie artistiche e storiche è una gran bella città, definita tanto tempo addietro, “la più bella città dei mortali”, ma la realtà era alquanto diversa: tutti lo sapevano ma nessuno parlava, anzi si cercava di minimizzare.
Ancora sono fermo a pensare che questa città è brutta, abbandonata e nel vedere tanti palazzoni così sparpagliati non credo possa ritenersi una città in linea con i tempi. Ma io ho il dovere di raccontare il mio passato che mi appartiene e quindi non mi è consentito parlare del presente e proprio del passato parlo. E’ risaputo che Girgenti si trova a circa quattrocento metri sul livello del mare. Il colle che la sostiene degrada giù lentamente fino ai templi dove strapiomba per cinquanta metri sulla spiaggia che ospita Empedocle.
Per entrare in città dal viale della Passeggiata c’è la Porta di Ponte, ma vi è altresì una via solitaria sotto san Pietro la quale s’innalza fino al piano di Ravanusella. E codesta via, contornata a cerchio, come il colle, è detta via delle Falde: malfamata… per tanti delitti rimasti oscuri. E’ risaputo che attraversarla di notte c’è da avere timore e lo sgomento che prende il passante è grande, da far tremare le vene.
Ricordo che le case erano d’un solo piano e di misero aspetto, e qua di dietro avevano certi muri che parevano di cattedrale. La via mostrava ancora l’antica cinta della città con le torri mezze diroccate. Nella prima, chiusa appena da una portaccia stinta e sgangherata, si esponevano i morti sconosciuti e si portavano per le perizie giudiziarie gli uccisi.
Era soprannominata “a Turri”, codesto avanzo di battaglia, la torre per antonomasia. L’entrata sua era più bassa della strada, v’era un salto d’un paio di metri, che i ragazzi spiccavano in coro quando bramavano d’accostarsi al sangue. Rimaneva, la città, sempre oppressa, e si conduceva una vita meschina, nel vuoto desolato dei lunghi giorni tutti uguali, sempre con quel giro di visite delle tre o quattro famiglie conoscenti che mostravano affetto e confidenza verso di lei, ch’era come la reginetta del paese, fra le spiritosaggini solite dei soliti giovanotti eleganti, anneghittiti, immelensiti nella povera e ristretta via provinciale.
Ricordo anche, molto bene, che era stata aperta una banca di appartenenza della chiesa che prestava soldi usando tassi di esplicita usura, ma nessuno si lamentava perché era la santa chiesa ad esserne proprietaria. Anche i pubblici uffici, prefettura, intendenza delle finanze, scuole governative, tribunali riuscivano a dare un po’ di movimento, ma quasi meccanico, alla città. Altrove ormai urgeva la vita. L’industria, il commercio, la vera attività insomma, s’era da un pezzo trasferita a Porto Empedocle giallo di zolfo, bianco di marna, (roccia sedimentaria, di tipo terrigeno) polverulento e rumoroso, in poco tempo divenuto uno de’ più affollati e affaccendati empori dell’isola.
Ma anche là la sovrabbondanza dello zolfo per le condizioni mal proprie con cui si svolgeva l’industria, l’ignoranza degli usi a cui quel minerale era destinato e dei profitti che se ne potevano ricavare, il difetto di grossi capitali, il bisogno e l’avidità di un pronto guadagno erano ragione che quella ricchezza del suolo, che avrebbe dovuto essere ricchezza degli abitanti, se ne andasse giorno per giorno ingoiata dalle stive dei vapori mercantili inglesi, americani, tedeschi e francesi, lasciando tutti coloro che vivevano di quella industria e di quel commercio con le ossa rotte per la fatica, la tasca vuota e gli animi inveleniti dalla guerra insidiosa e feroce, con cui si erano conteso il misero prezzo o lo scotto o il nolo della merce da loro stessi rinvilita.
A Girgenti, solo i tribunali e i circoli d’Assise davano da fare veramente, aperti com’erano tutto l’anno. Su al Colmo delle Forche il carcere di San Vito rigurgitava sempre di detenuti, che talvolta dovevano aspettare tre o quattro anni per essere giudicati. E meno male che l’innocenza, nel maggior numero dei casi, di questo forzato indugio non aveva a patire.
La città era piuttosto tranquilla, ma nelle campagne e nei paesi della provincia i reati di sangue, aperti o per mandato, per risse improvvise o per vendette meditate, e le grassazioni e l’abigeato e i sequestri di persona e i ricatti erano continui e innumerevoli, frutto della miseria, della selvaggia ignoranza, dell’asprezza delle fatiche che abbrutivano, delle vaste solitudini arse, brulle e mal guardate. In piazza Sant’Anna, ov’erano i tribunali, nel centro della città, si affollavano i clienti di tutta la provincia, gente tozza e rude, cotta dal sole, gesticolante in mille guise vivacemente espressive: proprietari di campagne di zolfare in lite con gli affittuari o coi magazzinieri di Porto Empedocle, e sensali e affaristi, e avvocati e galoppini, si affollavano storditi i paesani zotici di Grotte o di Favara, di Racalmuto o di Raffadali o di Montaperto, solfarai e contadini, la maggior parte, dalle facce terrigne e arsicce, dagli occhi lupigni, vestiti dei gravi abiti di festa di panno turchino, con berrette di strana foggia: a cono, di velluto; a calza di cotone; o padovane; con cerchietti e catenaccetti d’oro agli orecchi; venuto per testimoniare o per assistere i parenti carcerati. Parlavano tutti con cupi suoni gutturali o con aperte protratte interiezioni.
Il lastricato della strada schizzava faville al cupo fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuoio grezzo, erti, massicci e scivolosi. E avevan seco le loro donne, madri e mogli e figlie e sorelle, dagli occhi spauriti o lampeggianti d’un’ansietà torbida e schiva, vestite di baracane, avvolte nelle brevi mantelline di panno, bianche o nere, col fazzoletto dai vivaci colori in capo, annodato sotto il mento, alcune coi lobi degli orecchi strappati dal peso degli orecchini a cerchio, a pendagli, a lagrimoni; altre vestite di nero e con gli occhi e le guance bruciati dal pianto, parenti di qualche assassinato. Fra queste, quand’erano sole, s’aggirava occhiuta e obliqua qualche vecchia mezzana a tentar le più giovani e appariscenti che avvampavano per l’onta e che pur non di meno talvolta cedevano ed eran condotte, oppresse di angoscia e tremanti, a fare abbandono del proprio corpo, senza alcun piacere, per non ritornare al paese a mani vuote, per comperare ai figlioli lontani, orfani, un paio di scarpette, una vesticciola.
Questa, mio caro, era la situazione che non ho avuto alcun timore poi di raccontare cercando di mettere in risalto l’insieme delle problematiche che a quel tempo affliggevano tutti quei morti che continuavano a vivere sotto il peso della miseria, della fatica, del vassallaggio senza aver mai la possibilità di alzare la testa e chiedere il giusto attraverso i sistemi di giustizia che erano sempre a favore dei ricchi, potenti, nobili e delinquenti.
I molti sfaccendati della città andavano su e già, sempre d’un passo, cascanti di noia, con l’automatismo dei dementi, su e giù per la strada maestra, l’unica piana del paese, dal bel nome greco, via Atenea, ma angusta come le altre e tortuosa, Via Atenea, Rupe Atenea, Empedocle… nomi: luce di nomi, che rendeva più triste la miseria e la bruttezza delle cose e dei luoghi.
L’Akragas dei Greci, l’Agrigentum dei Romani, eran finiti nella Kerkent dei Musulmani, e il marchio degli Arabi, era rimasto indelebile negli animi e nei costumi della gente. Accidia taciturna, diffidenza ombrosa e gelosia.
Dal bosco della Civita, cuore della scomparsa città vetusta, saliva un tempo al colle, su cui si vede una lunga fila di altissimi e austeri cipressi, quasi a segnar la via della morte.
Pochi ormai ne restavano; uno, il più alto e il più fosco, si levava ancora sotto l’unico viale della città, detto della Passeggiata, la sola cosa bella che la città avesse, aperto com’era alla vista magnifica di tutta la spiaggia, sotto, svariata di poggi, di valli, di piani, e del mare in fondo, nella sterminata curva dell’orizzonte.
Quel cipresso, stagliandosi nero e maestoso dopo il fiammeggiare dei meravigliosi tramonti sulla spiaggia che s’ombrava tutta di notturno azzurro, pareva riassumesse in se la tristezza infinita del silenzio che spirava dai luoghi, sonori un tempo di tanta vita. Era qua, ora, il regno della morte.
Dominata, in vetta al colle, dall’antica cattedrale normanna, dedicata a San Gerlando, dal Vescovado e dal Seminario, Girgenti era la città dei preti e delle campane a morto.
Dalla mattina alla sera, le trenta chiese si rimandavano con lunghi lenti rintocchi di pianto con l’invito alla preghiera, diffondendo per tutto un’angosciosa oppressione. Non passava giorno che non si vedessero per via in processione funebre le orfanelle grigie del “Boccone del Povero”: squallide, curve tutte occhi nei visini appassiti, col velo in capo, la medaglina sul petto, e un cero in mano.
Tutti per poca mancia, potevano averne l’accompagnamento; e nulla era più triste che la vista di quella fanciullezza oppressa dallo spettro della morte, seguito così ogni giorno, a passo a passo, con un cero in mano, dalla fiamma vana nella luce del sole.
Ecco, questa è la città che io ho visto, vissuto e poi trascritto non aggiungendo e non togliendo niente, ma nonostante questa mia verità descritta, non pochi mi hanno accusato di disfattismo definendomi quasi un nemico e per questo per lunghi anni sono stato quasi dimenticato. Ho l’impressione, e spero di non sbagliarmi, che molte delle realtà negative, ancora sono presenti in questa città che sembra maledetta nonostante ha dato natali a tanti grandi uomini di scienza, di cultura, di lettere, che si sono impegnati per renderle giustizia, meno i tanti politici che niente o poco hanno fatto per Girgenti, ripeto, considerata la più bella città dei mortali. Ma avrà visto giusto colui che così si è espresso? Ricordi, tanti ricordi che continuano ad essere presenti nella mia mente e che mi consentono di poter raccontare il mio vissuto. Così ricordo, perfettamente, quando per la prima volta mi sono trovato a contatto diretto con un morto vero. Se ci ripenso! E’ stata una brutta esperienza che ancora mi tormenta e mi dà brividi come quella volta.
Pietro Seddio
Io sono figlio e uomo del Caos
Indice Tematiche
Se vuoi contribuire, invia il tuo materiale, specificando se e come vuoi essere citato a
collabora@pirandelloweb.com