Di Pietro Seddio.
Mio padre e mia madre si erano già visti una prima volta e siccome lei aveva quasi vent’otto anni credeva di essere una zitella avendo consumato quella gioventù nei confronti della Patria. Ma Stefano, non si tirò indietro e seduta stante le chiese di sposarlo mentre lei credette che quel buontempone scherzasse.
Io sono figlio e uomo del Caos
Per gentile concessione dell’ Autore
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Cap. 2: Agrigento e il colera »»»
Io sono figlio e uomo del Caos
Capitolo 1
Nasce Luigi Pirandello
Stefano Pirandello (mio padre) e Caterina Ricci Gramitto (mia madre) si sposarono il 13 novembre 1863.
Si era a quel tempo nella metà dell’Ottocento e ancora si trovava ad operare la Carboneria con tutte le conseguenze politiche e sociali dove molte famiglie benestanti o patriottiche diventavano protagoniste. Le due famiglie: Pirandello e Ricci Gramitto avevano alle spalle delle storie complesse seppur li dividevano, soprattutto, motivi politici.
Stefano Pirandello fu un vero personaggio, nato a Palermo, diciottesimo di una famiglia stragrande. I figli furono in tutto ventitre tra morti e vivi; per questo Stefano ben presto si convinse che doveva agire da solo, per conto suo. Il padre morì giovane a causa del colera e fu Stefano a dirigere l’azienda di famiglia.
Ebbe un temperamento avventuroso e questo gli provocò un sacco di problemi. Ma era duro, caparbio e poco propenso a soccombere.
Allorquando Garibaldi giunse a Palermo egli fu uno dei picciotti e simpatizzando per il Generale lo seguì combattendo a Milazzo, a Reggio e al Volturno e poi fu anche in Aspromonte. Tornato a casa fu inviato a sorvegliare delle zolfare prese in affitto in località Petrusa.
Le tante biografie portano in evidenza la disputa, alquanto pericolosa, tra mio padre e un capo mafia, certo Cola Camizzi, che terrorizzava Girgenti. I due, senza tanti complimenti arrivarono alle mani e siccome erano “uomini d’onore” (secondo un’atavica credenza) finirono con lo scontrarsi direttamente armi in pugno.
Stefano, mio padre, fu ferito gravemente ma riuscì a colpire il Camizzi alla testa con il fucile tanto da farlo allontanare precipitosamente.
Come in una scena selvaggia del West, si spararono tanti colpi fino a quando Stefano cadde a terra per essere successivamente soccorso da alcuni presenti al conflitto che lo portarono a casa. La già moglie, Caterina, per lo spavento perdette il latte e non fu più capace di allattare. Da qui la scelta che il figlio nato, da poco, io, fui allattato da una balia.
La giustizia provvide a condannare il Camizzi a sette anni, trascorsi i quali andò a rifugiarsi in alcune zolfare, lontane, dove visse, dimenticato da tutti, fino alla sua fine.
Di ben altra estrazione sociale era la famiglia di mia madre. Molti laureati, alcuni votati al sacerdozio, donne pronte a reggere gli obblighi della comunità.
Giovanni Ricci Gramitto, mio nonno, era avvocato di grido e fervido assertore dell’Unità d’Italia. Prese parte, nel ‘48, alla rivoluzione facendo anche parte del governo provvisorio.
Quando fu instaurato il governo borbonico, fu perseguitato e non rientrò nel provvedimento d’amnistia per cui perse ogni bene e si trovò in pessime condizioni finanziarie. Non gli rimase che riparare a Malta. Furono aiutati da un buon canonico di Agrigento fino a quando lo stesso fu in vita.
A tutta la famiglia il Giovanni Ricci Gramitto, riuscì ad inculcare l’idea dell’Unità d’Italia per la quale poi molti combatterono.
E’ vero che mia madre, la minuta Caterina Ricci Gramitto, fu artefice del cucire, al buio, la bandiera e con questi molti della famiglia scesero in piazza contro una guarnigione cospicua di gendarmi di sede a Girgenti. Ma la loro rivolta non ebbe successo, furono costretti a riparare nelle campagne riuscendo a raggiungere Garibaldi a Palermo.
Furono oggetto di numerose perquisizioni e non fu esente lo zio canonico che poi cessò di vivere e sepolto nella Cattedrale.
Mia madre crebbe in codesta atmosfera romantica. La ricordo ancora bene: bianca di pelle, nera di trecce, piccola di statura tanto che si diceva vergognosa di mostrarsi allato del suo stragrande marito, e fu lei a trasmettermi i germi delle vita interiore tanto da condurmi spesso in un’atmosfera di spiritualità e forse da questo germogliò il segreto della mia arte.
Mio padre e mia madre si erano già visti una prima volta e siccome lei aveva quasi vent’otto anni credeva di essere una zitella avendo consumato quella gioventù nei confronti della Patria.
Ma Stefano, non si tirò indietro e seduta stante le chiese di sposarlo mentre lei credette che quel buontempone scherzasse.
No, non fu uno scherzo e posso dire che quello fu un matrimonio patriottico e spesso vidi mia madre, ripensando a quell’evento, ridere scuotendo il capo.
Ma lei rimase ferma nel sostenere, anche spiritualmente, il fervore perché si realizzasse un’Italia forte e grande.
Ho già riferito della Miniera Taccia che da mio padre fu acquistata dal Principe Antonio Burgio Brancaccio che si trovava in località Aragona che poi è stata la causa del fallimento di tutta la famiglia Pirandello e di Portulano essendo Calogero Portulano, padre di quella che è stata mia moglie, socio. Per incrementare la produzione su vasta scala, venne costituita la “Società des Mines”, così da includere quella miniera nel ristretto elenco delle grandi miniere zolfifere. Verso la metà dell’Ottocento in tale gruppo di miniere operò mio padre, io come già detto per alcuni mesi mi trovai in quel posto a dare una mano, sia come commerciante che come produttore di zolfare mediante il contratto stipulato con il già citato Principe Burgio.
Per circa dieci anni da quel consorzio di miniere si sviluppò un ottimo reddito che arricchì le due famiglie beneficiarie del lavoro prodotto e svolto. Le miniere che facevano parte di questo consorzio erano: Taccia-Caci, Taccia, Mezzogiorno, Levante, Salomone, Salomone piccolo, Mandra Principe, San Pietro, San Giuseppe e San Vincenzo.
Poi l’alluvione del 1903, il disastro economico, la malattia di Antonietta Portulano, già mia moglie, la quale, tramite il padre, aveva investito tutta la dote matrimoniale. Fu un vero colpo le cui gravi e terribili conseguenze mi sono portato sempre addosso, pagando di persona, come giù è dato sapere.
Debbo confessare, che quel disastro così travolgente, mi costrinse, dopo aver pensato al suicidio, a riconsiderare su una base diversa il mio approccio con la letteratura, prima tanto disinteressato, ora in qualunque modo doveva diventare fonte di guadagno e di introiti economici per sostentare la famiglia, visto che il magro stipendio di insegnante non poteva certo bastare al fabbisogno dei familiari e al mantenimento del suo decoro, offrendomi tra l’altro per la mia competenza nella lingua tedesca anche di dare lezioni private.
In una lettera all’amico Angiolo Orvieto, che era stato direttore del “Marzocco”, cercai di riassumere bene la mia nuova situazione:
“Avevo la novellina, intitolata ‘La buon’anima’, e invece che al “Marzocco”, l’ho mandata alla “Riviera ligure”. E sai perché? E’ triste, molto triste, questo perché; ma, anche a costo d’affliggerti, sarà meglio che te lo dica, per togliere ogni ombra fra noi. Io purtroppo, caro Angiolo, non solo non voglio riposarmi, ma non posso, non posso più. Sappi che da circa un anno le condizioni finanziarie della mia famiglia, per una improvvisa sciagura, non sono più quelle di prima.
Una grande zolfara, che dava a mio padre e a tutti noi l’agiatezza, s’è allagata, e l’allagamento ha prodotto danni per più di quattrocento mila lire. La sciagura non è del tutto irrimediabile.
Mio padre ha già speso in un anno circa duecento mila lire per la costruzione d’un acquedotto e d’un piano inclinato. Ora la zolfara comincia a votarsi ma ci vorrà per lo meno un altr’anno, prima che si riprenda l’estrazione del minerale. Intanto io son rimasto… con tre figliuoli e la moglie… immagina tu in quale stato! Il misero stipendio di professore straordinario all’Istituto Superiore mi basta appena per pagar la pigione di casa. Bisogna che m’ajuti con le mani e coi piedi, per guadagnare, scrivendo.
E’ una terribile prova, amico mio! inattesa! Tu sai che da parecchi anni presto al “Marzocco” gratuitamente la mia collaborazione. Figurati con che cuore vorrei seguitare a mandar di tanto in tanto qualche novella. Ma… te l’ho detto, ne avevo una e per venticinque lire l’ho mandata a un altro giornale!”.
Leggendo quanto da me scritto si può subito comprendere il mio stato psicologico che mi opprimeva quotidianamente anche perché intuivo che le condizioni di Antonietta non miglioravano per niente.
Quella esperienza prima e dopo il matrimonio ha lasciato un segno tangibile tanto che poi, in seguito, scrivendo soprattutto novelle, mi ha dato la possibilità di riportare questo mondo a molti sconosciuto e che ora presentavo in tutta la sua durezza, la sua estenuante forza lavoro, caratterizzando tutto quello che io avevo assorbito non dimenticando i “carusi”, piccoli ragazzi che entravano in quelle viscere la mattina quando ancora c’era buio per tornare a sera, ancora con il buio. Il loro lavoro era durissimo, a contatto con tanti altri minatori, e si può dire, che si viveva, in quelle viscere, in un mondo infernale dove accadeva di tutto e dove spesso, a causa di incendi o cadute di volte, molti erano quelli che non risalivano più per respirare l’aria che certo non era pura, ma sempre aria era.
Ecco quello è un ricordo che mi sarà presente per sempre e che è diventato un macigno che pesa sulla mia testa seppur io non ho avuto responsabilità dirette sia per tutti gli incidenti sia per l’allagamento. Ma ne ho subito egualmente le conseguenze e Dio sa cosa è passato per la mia mente. Già, ma tutto questo, è accaduto dopo che io era nato ed allora occorre ritornare indietro per riprendere il discorso. E, come spesso mi è accaduto, la mia esistenza prima e dopo è stata sempre segnata da infauste coincidenze ed è così vero che io, senza colpa alcuna, a causa del colera, non sono nato ad Agrigento dove la mia famiglia viveva, ma in una campagna che si trovava presso la Marina di Porto Empedocle, e che veniva nominata “Cavusu”, dove i miei genitori possedevano una casetta, modesta e dove io, vi racconterò le peripezie di quella nascita, emisi i primi vagiti, quando ancora la sera si viveva con i lumi a petrolio perché non esisteva ancora la luce elettrica.
Pietro Seddio
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