Di Angela Diana Di Francesca.
Se il palcoscenico è il luogo del “gioco d’arte” dove finzione e realtà si completano e possono nella loro ambigua epifania svelare l’uomo, l’immagine che, mediata dalla macchina, si mette in scena, violenta la realtà svuotandola e alterandola.
L’“ibrido gioco”. La violenza dell’immagine nei
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Nell’affermare “Le temps de l’image est venu!” (Art cinématographique, 1927), Abel Gance pensava al “grande film”, all’arte del cinema come alchimia che mescola le varie forme espressive, arte dove “tutto accade” e che tutto unifica gettando “un ponte di sogno tra un’epoca e l’altra”.
Era la visione di un poeta, che non considerava il film come prodotto commerciale, né poteva supporre che, come l’Ombra nella cupa favola di Andersen, l’immagine avrebbe preso il posto della realtà.
Alla visione del poeta fa da contraltare quella del “filosofo” Luigi Pirandello, che, nel quasi contemporaneo romanzo “Quaderni di Serafino Gubbio operatore” (1925), indaga il cinematografo nelle sue ambiguità e contraddizioni, analizzando il rapporto uomo/macchina fuori dalle esaltazioni futuristiche, e anticipando con audace volo profetico la percezione del rischio nascosto nell’immagine, nella sua relazione col reale, e nella messa in scena della persona come “spettacolo”; lucida e disincantata analisi che aveva avuto inizio già dal 1915 con la prima versione del romanzo, apparso a puntate su “Nuova Antologia” col titolo “Si gira” (e non sarà stato casuale il cambio di titolo, con lo spostamento psicologico dallo spazio della macchina da presa e dell’immagine a quello dei quaderni e della scrittura).
I Quaderni di Serafino Gubbio operatore è un romanzo a molte facce, da riscoprire con inquietudine e stupore nella società odierna, società dell’immagine non solo nel senso che privilegia l’immagine per raccontare e per esprimersi, ma nel senso che sull’immagine si struttura – e l’immagine è ora non più quella del cinema ma quella della televisione e dei video-; società che appartiene all’immagine, dove la realtà è ciò che si rappresenta e/o esiste in quanto è possibile rappresentarla.
Come molte opere di Pirandello che per la singolarità delle situazioni potrebbero apparire artificiose e inverosimili (Il turno, Il fu Mattia Pascal, Come tu mi vuoi), anche i Quaderni presenta quel “rapporto tra vero e verosimile che Pirandello teneva ad osservare” (L. Sciascia, Alfabeto pirandelliano) e si ispira per uno dei suoi temi portanti a un fatto realmente accaduto.
Era ancora forte l’eco emotiva per l’incidente avvenuto due anni addietro, nel 1913, durante le riprese del film “Il mistero di Jack Hilton”, che aveva distrutto la bellezza e la carriera di una delle più promettenti attrici dell’epoca, Adriana Costamagna. L’attrice, avendo rifiutato la controfigura in una scena con un leopardo, era stata aggredita dalla belva che le aveva sfigurato il viso.
La crudeltà del destino si era intrecciata con la crudeltà della legge del profitto: la casa cinematografica aveva sfruttato l’incidente nel lancio pubblicitario, determinando una morbosa curiosità intorno al film e di conseguenza un grosso successo commerciale.
Nel finale dei Quaderni l’attore protagonista, Aldo Nuti, durante la lavorazione del film “La donna e la tigre” (“la solita storia della donna più tigre delle tigre”, ironizza Serafino Gubbio), spara, invece che alla tigre, a Varia Nestoroff, che gli ha sconvolto la vita, condannando se stesso a una fine orrenda tra le fauci della belva. Anche qui il dramma sarà sfruttato degradando la sacralità della morte a spettacolo e merce.
La trama del romanzo, complesso mosaico composto con linguaggio filmico di flash back, dissolvenze, stacchi, frammenti da ricostruire e rimontare, è centrata sui conflitti e le passioni individuali, tristezze, miserie, disillusioni, disincanti, nostalgie, e narra, sotto l’aspetto del mélo, le vicende che ruotano attorno alla misteriosa Varia Nestoroff e agli uomini che entrando nel suo cerchio di luce sono rimasti bruciati come falene, fino al tragico epilogo; ma l’ordito svela il nucleo esistenziale della società del l° Novecento, una società in corsa verso un progresso tecnologico che tutto travolge e sconvolge, società che ancora custodisce, sotto forma di vago desiderio, la traccia di un mondo edenico e semplice ma che è già segnata dalla corsa affannosa al denaro e al successo, società della macchina che riduce l’uomo a funzione disumanizzandolo e alienandolo a se stesso, società del profitto che dà un prezzo a tutto, anche al dolore, anche alla morte.
Il set della Casa cinematografica “Kosmograph” è il luogo-o meglio il “non-luogo”-, in cui queste tematiche si intrecciano: ai temi dell’uomo funzionale alla macchina, espropriato del suo “superfluo”, dell’ “oltre”, e quindi della sua interezza, si aggiungono quelli particolarmente attuali del narcisismo, della ricerca dell’apparire, della spettacolarizzazione della vita.
Pirandello coglie del cinema il perturbante, la dimensione voyeuristica, la zona oscura. Quello che per Abel Gance era felice mescolanza, magica alchimia, per Pirandello è “ibrido gioco”, a cui non è estranea la radice etimologica di ybris, violenza, eccesso, stupro.
Se il palcoscenico è il luogo del “gioco d’arte” dove finzione e realtà si completano e possono nella loro ambigua epifania svelare l’uomo, l’immagine che, mediata dalla macchina, si mette in scena, violenta la realtà svuotandola e alterandola. Nulla potrà dirci dell’uomo, delle sue domande, dei suoi desideri, dei suoi sogni, né a livello di creazione fantastica, -poiché, privata della luce dell’arte o almeno del coinvolgimento interiore, essa ignora quel sentimento che nel prestare all’attore la vita degli altri, rivela la vita nascosta in noi (v. “Perché finzione? No…E’ tutta vita in noi, vita che si rivela a noi stessi”, in “Trovarsi”)-; né a livello di documento, perché la presenza della macchina ineluttabilmente lo falsa (cfr.la considerazione di Serafino sulla sua professione: “Invidiabile, sì, forse; ma se fosse applicata a cogliere, senza alcuna invenzione, la vita, così come viene; gli atti della vita come si fanno impensatamente quando si vive e non si sa che una macchinetta di nascosto li sta a sorprendere [….). Gli attori di teatro infatti, costretti per motivi economici ad accettare scritture cinematografiche, si accorgono dello straniamento che aggiunge all’incomprensibile disordine della vita vera quello della sua rappresentazione, che non riscatta il caos ma lo riproduce.( “ne viene che spesso non sanno neppure che parte stieno a rappresentare, e che si senta qualche attore domandare: Ma scusi, Polacco, io sono il marito o l’amante?”)
Il ragno, a cui sempre è paragonata la macchina da presa, ordisce la sua trappola, esercita sulla vittima la seduzione fatale, vampirizzandola, nutrendosi della sua vita, fagocitando sentimenti e accadimenti per restituirli poi come fantasmi vuoti, alterati e contaminati.(“Io, con la manovella in mano, sono per loro una specie d’ esecutore[…] Qua si sentono come in esilio. Non soltanto dal palcoscenico ma da se stessi…La loro azione, l’azione viva del loro corpo vivo non c’è più: c’è la loro immagine soltanto, che guizza e scompare. Avvertono confusamente, con un senso indefinibile di vuoto, anzi di vuotamento, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà…Si sentono schiavi di questa macchinetta che pare un grosso ragno in agguato, che succhia e assorbe la loro realtà viva. E colui che li spoglia della loro realtà e la dà da mangiare alla macchinetta, chi è?…Sono io, Gubbio…”(cfr.J.Baudrillard in Il delitto perfetto (1996): “acting out di una società impigliata nel suo fantasma di dissipazione di se stessa senza altro obiettivo di questa liberazione nel vuoto, di questa mobilità ad ogni costo, di cui noi, le particelle viventi, i nostri corpi vivi, non siamo altro che gli scarti satellizzati…”)
Davanti alla macchina da presa, che “prende tutto” nella sua voracità onnivora, sfila un’umanità tormentata, piccoli uomini che simulano passioni “da cinematografo”, ma al tempo stesso soffrono, “per non degne ragioni” forse, ma pure fortemente e autenticamente soffrono (”Mi era accanto e soffriva…Pure lui soffriva, come tutti gli altri, della vita che è il vero male di tutti ..Anche così piccolo soffriva, e la sua sofferenza era grande per lui, comunque indegna…”).
Senza l’armonia dell’arte l’abbraccio tra vita e finzione non può che generare la Chimera, il Minotauro, qualcosa di mostruoso- e “mostruoso” viene infatti definito il film da Serafino prima ancora che vi accada la scena finale dove la tigre destinata ad essere uccisa avrà la sua rivincita trascinando nella morte l’attore protagonista. (v.“Ho dato una mano anch’io per lo sviluppo e la legatura dei pezzi di questo film mostruoso”).
Il cinema, l’ibrido gioco, diventa metafora di ciò che è contronatura, che contrappone l’ordine naturale proprio degli animali, di cui è simbolo la tigre, la “bella belva innocente”, all’artificio, alla sviata “razionalità” dell’uomo.
E’ contronatura che la vita di carne e sangue si trasformi in fantasma; è contronatura che l’uomo si pieghi alle esigenze del mercato, che diventi spettacolo e oggetto di consumo. E’ contronatura che l’uomo serva la macchina, che ne assuma le caratteristiche di meccanicità e indifferenza, che “metamorfosi” in lei.
I temi conduttori confluiscono e collidono nel finale, con la scena– simbolo del romanzo, l’immagine che solo noi lettori vediamo nella sua interezza e nella sua doppia violenza: il groviglio tra l’uomo e la belva che lo sbrana, ripreso dalla macchina attraverso Serafino che ne è l’ “esecutore”, perché possa diventare spettacolo. Per una strana nemesi è proprio Serafino, colui che ha sempre dato valore alla pietas come solidarietà per tutti gli esseri umani, “fratelli” di fronte alla sofferenza e all’insensato disordine dell’esistere, -a girare la scena crudele che “dà in pasto” la vita.-e la morte-, di un uomo, stavolta non solo metaforicamente, alla macchina e alla curiosità estranea e morbosa del pubblico, arricchendosi con le percentuali di noleggio del film “mostruoso”.
Serafino, l’esecutore, l’impotente demiurgo, dopo lo choc dovuto alla paura e al turbamento per il dramma che egli ha ripreso senza reazioni umane, perde la parola, trasformandosi così lui stesso paradossalmente in un personaggio da film muto, entrando da protagonista nella realtà che tante volte ha contribuito a creare. Aveva scelto il silenzio, per ribellione a quell’epoca che imponeva alla sua musica di adattarsi all’arbitrio di un piano meccanico, il folle artista senza nome, “l’uomo del violino”, personaggio-chiave a cui è affidato un ruolo tra i più concettuali e poetici del romanzo, che si evidenzia nel prezioso “cameo” della sonata alla tigre: un dialogo tra due “espulsi” dallo stato naturale delle cose, due esclusi, due stranieri. Il musicista e la tigre si incontrano in un ideale sopramondo, uno spazio comune di libertà e bellezza. Tutti avvertono il senso e il fascino profondo di questa scena, anche e forse più degli altri il prosaico direttore di scena Nicola Polacco, che però, uomo del suo tempo, “tempo di macchine”, invece di respirarne la purezza e la magia, si rammarica di non aver pensato a filmarla, magari in vista di un qualche futuro uso fuori contesto che la svilirebbe: “Polacco s’è morso un dito dalla rabbia, per non aver pensato di mandarmi a prendere la macchinetta per fissare quella scena ….” -notazione quasi en passant ma di straordinaria finezza psicologica e tanto più significativa nella società di oggi dove la riproduzione e rappresentazione dell’evento è più importante dell’evento stesso e lo sostituisce.
Il silenzio di Serafino non è una scelta; ma è subìto e accettato senza ribellione, come prigione in cui espiare e insieme come eremo in cui rifugiarsi; rifugio a sé e non più agli altri (v.”In una parte di queste note era scritto: soffro del mio silenzio in cui tutti entrano come in un luogo di sicura ospitalità. Vorrei ora che il mio silenzio si chiedesse del tutto intorno a me. Ecco, s’è chiuso.”…”)
Nel momento stesso in cui entra in scena come persona e non più come ruolo, come personaggio drammatico e non come “carattere”, Serafino ne esce, negandosi all’esperienza dell’avventura vitale con un “no grazie” che riecheggia il “grazie, no” di Cyrano, dilatandolo in una più vasta solitudine. Egli sembra rinunciare alla sua umanità e rivendicare la “perfezione” del suo tempo, il suo essere “solo, muto e impassibile” . Il cerchio sembra chiudersi, l’ “attenti, si gira” che conclude il libro ci riporta al titolo della prima edizione del 1915, mentre il nuovo titolo, alla luce del finale, si esplicita fissando il protagonista nel ruolo che ha scelto, nella sua identificazione sociale, nome, cognome, la professione in cui vuole riconoscersi per sempre: operatore. Ma è la parola Quaderni che contrasta questa “normalizzazione” e la rende bifronte. Serafino ha incontrato il dramma ed è, lui solo, “scampato a raccontarcelo”. Il suo silenzio, il silenzio in cui si salva, è quello che impone la riconquista di un linguaggio di segni e simboli che la macchina non riuscirà a raggiungere.
La crudeltà, la ybris dell’immagine è riscattata con l’unico possibile talismano, la consapevolezza del ruolo salvifico della scrittura.
Angela Diana Di Francesca
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