Arte e scienza – Capitolo 8 – I sonetti di Cecco Angiolieri

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L’originalità di Cecco […]  va cercata sopra tutto nell’aver egli fatto materia di poesia i casi suoi specialissimi, i suoi più intimi sentimenti, con una sincerità che avventa e offende. È una originalità che costa cara alla buona reputazione. Ci vuol un tristo coraggio per guadagnarsela. E Cecco l’ha, e l’adopera con una tranquillità che incute ribrezzo.

Indice Saggi e Discorsi

Arte e scienza - Capitolo 8
Francesco Angiolieri, detto Cecco (1260 circa-1313)

Introduzione

Indice
I. Arte e scienza
II. Un critico fantastico
III. Illustratori, attori e traduttori
IV. Per uno studio sul verso di Dante
V. Poscritta
VI. Soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa
VII. Per l’ordinanza d’un sindaco
VIII. I sonetti di Cecco Angiolieri
IX. Appendice: Per le ragioni estetiche della parola.

VIII. I sonetti di Cecco Angiolieri

I

     Parecchi anni or sono, io presi in esame [14] i sonetti di Cecco Angiolieri sopra tutto per dimostrare che questo poeta non era, come ad Alessandro D’Ancona era sembrato, [15] un umorista.

 [14]  Un preteso poeta umorista del sec. XIII, nella «Vita italiana», anno II, v. VI (febbr.-apr. 1896).

 [15] C.A. da Siena poeta umorista del sec. decimoterzo, nel vol. Studi di critica e storia letteraria, Zanichelli, Bologna 1880.

Promettevo in quel mio studio di dar presto fuori un’edizione critica dei sonetti angioliereschi, che mi pareva facile (e m’ingannavo) dopo la stampa di Carlo e Ludovico Frati dell’Indice delle carte di Pietro Bilancioni.     La promessa, per tante ragioni, non potè essere mantenuta. Ma ora, dopo dieci anni da quel mio studio, l’edizione critica dei sonetti di Cecco Angiolieri è venuta fuori per cura del signor A. E Massèra. [16]

 [16]  I Sonetti di C. A. editi criticamente ed illustrati, Ditta Nicola Zanichelli, Bologna 1906

Rileggendoli, mi sono più che mai raffermato nel concetto già espresso in quel mio studio, che cioè con altri intendimenti, lontano dalla nostra mente il proposito di voler trovare ad ogni costo l’umorismo dove tutt’al più non ci può essere altro che lo scherzo, la burla e talvolta la satira popolare e il popolare epigramma, e ammettiamo anche non grossolani, perché fatti dal popolo che meritamente si vanta il più arguto d’Italia, avrebbe dovuto studiarsi l’Angiolieri, e non solo l’Angiolieri, ma in apposito libro e distesamente tutto il gruppo dugentista di quei poeti, non di scuola, ma di popolo, pieni di naturalezza nell’arte loro non ancora ben sicura, nel cui petto per prima si ridesta o di dolce voglia o per casi reali, per sentimenti veri, un’anima di canto umano, tra le insulse e sconsolanti scimierie dei poeti per distrazione o per sollazzo o per moda o per galanteria, tra i bisticci pur che siano della scuola provenzaleggiante; di quei poeti infine, né cui versi, per dirla col Bartoli, è l’annunzio del carattere realistico che assumeranno le nostre lettere.
Evidentissimo è il contrasto tra la subiettività, la naturalezza arguta e vivace, la semplicità di questo gruppo di poeti e le vuote astrazioni prive affatto d’ogni carattere proprio, la falsità, l’accozzo spesso ridicolo di parole senza senso dei poeti di scuola.

     E tal contrasto si avverte subito, qualche volta, anche nelle loro stesse poesie, in quelle cioè che non balzan loro vive e spontanee o da un caso reale o da un sentimento vero, ma che essi propriamente compongono, quasi per esercitazione di stile, secondo il ricettario di moda, come sarebbe appunto, per recare un esempio, il sonetto di Cecco (XXXIV dell’ediz. del Massèra)

Io son sì altamente innamorato

dove il poeta, vedendo inchinevole a cedere la sua donna (la quale noi sappiamo, com’egli stesso sapeva, di che risma fosse), si spassa a tesserne letterariamente, di maniera, le lodi, almeno fino all’undecimo verso, che negli ultimi tre, veramente, per quanto faccia, non riesce più a mantenersi composto e pettinato:

Io son sì altamente innamorato
alla mercé d’una donna e d’Amore,
ch’e’ non è al mondo re né imperadore
a cui volessi io già cambiar mio stato:

ch’io amo quella a cui dio à donato
tutto ciò che conviene a gentil core;
dunque chi di tal donna è servidore
ben si può dir che ’n buon pianeto è nato.

Et ella à ’l cor tanto cortese e piano
in ver di me, la mia gentile manza,
che sua mercé basciata li ò la mano.
E sì mi dié ancor ferma speranza
che di qui a poco, se dio mi fa sano,
io compierò di lei mia disianza.

     Dio ha donato a Becchina tutto ciò che conviene a gentil corei Becchina ha il cor cortese e pianoì gentile manza, Becchina? Dobbiamo proprio crederci? Ma, quando Cecco non poeteggia, o non si vuole dar l’aria di poeteggiare di scuola, anche vedendo Becchina inchinevole a cedergli, la fa parlare così:

Cecco, l’umiltà tua m’à sì rimossa
che giamma’ ben né gioia ’l mie’ cor sente,
se di te nove mesi non vo grossa.
Gentile manza, come ognun vede, Becchina!

    Prendono sempre, questi poeti, l’intonazione dal popolo, e da un popolo che, come nota il Navone, «dimentica in mezzo alle feste le gravi cure cittadine, e spesso si lascia cogliere nelle cantine dai rintocchi della campana che lo chiamano alle armi in difesa della minacciata libertà della patria». [17]

 [17]  G. Navone, Prefazione alle Rime di Folgore da S. Gemignano e di Cene da la Chitarra, presso Gaetano Romagnoli, Bologna 1880.

     E ciò che il D’Ancona scrive, in fondo a quel suo studio, su Siena ai tempi dell’Angiolieri e su l’indole di quel popolo, conforta a meraviglia l’opinione che la forma vivace dei sonetti angioliereschi, se da un canto proviene certamente dall’intenzione burlesca del poeta, dall’altro si deve anche in gran parte alla sua natura paesana.

     Quel popolo argutamente immaginoso, anche oggidì, volendo narrare le sue sventure e le sue afflizioni, esprimere gli odi suoi e i suoi amori, manifestar lo sdegno o il rimprovero o un suo desiderio, non parla diversamente da questi nostri primi poeti. Colorire comicamente la frase è virtù nel popolo spontanea, nativa. Il Belli, per esempio, non vuol tradurre in romanesco per Luigi Luciano Bonaparte il Vangelo di san Matteo, perché la lingua della plebe è buffona e «appena riuscirebbe ad altro che ad una irriverenza verso i sacri volumi». [18]

 [18]  Vedi Morandi, Prefazione ai sonetti romaneschi del Belli, Lapi, Città di Castello 1889, v. I.

Cosicché, parmi, anche il Bartoli, che a una sua domanda: «Ma perché questa intonazione è sempre burlesca?» ha saputo rispondere: «perché la burla e il riso sono il linguaggio favorito del popolo», anche il Bartoli, dico, parmi abbia esagerato nel considerare la natura di questo riso, che in verità non manifesta mai alcun contrasto. Quando l’animo piange veramente, non è vero che la bocca rida.

     Il contrasto, e segnatamente quello intimo, profondo e speciosissimo che caratterizza l’umorismo, non si trova mai in questi poeti; non è, né può essere la qualità fondamentale della maniera poetica dell’Angiolieri, come il D’Ancona volle dimostrare e come tuttora moltissimi, giurando in verba magistri, s’ostinano a ripetere.
È da sperare che, non essendo valse finora le mie argomentazioni in contrario, varrà la pubblicazione dei sonetti dell’Angiolieri (dopo il molto che già s’è scritto intorno all’umorismo) a sfatar la leggenda d’un Cecco Angiolieri poeta umorista del secolo XIII.
Il Massèra, intanto, nella lunga introduzione al volume, non ha voluto neppur sfiorare la questione. S’è ristretto in essa a dar conto soltanto, «non senza l’aridità voluta dall’argomento», del come sia stata messa insieme la sua stampa. Promette però che si darà presto la grata fatica d’uno studio «di carattere fondamentalmente estetico e storico» su la vita, su l’arte e la poesia del vagheggiator di Becchina. Ma, a giudicare almeno da quanto dice su lo studio del D’Ancona, su la luce non piccola da questo studio gettata su la poesia dell’Angiolieri, e dalla partizione, che anch’egli adotta, dei sonetti in amorosi, invettivi, burleschi e umoristici, si può prevedere facilmente che non si discosterà di molto dall’opinione del primo illustratore.
Ora, le ragioni che il D’Ancona adduceva in quel suo studio per dimostrare il carattere umoristico dell’arte angiolieresca, si possono citar qui per disteso, non essendo poi molte; e giacché pare che esse abbiano ancora molto peso e molto valore, non sarà forse inutile ch’io mi provi a riconfutarle, prima di venire a parlare dell’edizione critica del sig. Massèra.

II

     «Prima di tutto» scrive il D’Ancona, «ritrovo nel nostro Cecco quel che d’individuo, anzi di subbiettivo, che in massimo grado è proprio alla poesia umoristica. In ciò l’umorista non diverge molto, è vero, dal poeta lirico in generale e in special modo dall’erotico; ma l’umorista ha un’abbondanza di particolari, una cura delle minuzie, qualche volta una, a giudicarla astrattamente e a prima vista, trivialità e volgarità, a cui non discendono gli altri suoi maggiori confratelli. Non vi ha certamente nessun altro fra i poeti, che soglia, come l’umorista, parlar tanto in persona propria, e come lui dire tutto quello che gli passa per la mente o gli si agita nel cuore. Ciò che avviene al di fuori lo anima meno e meno lo eccita, che non facciano i minimi accidenti, le più fugaci vicissitudini e i fattarelli della sua vita. Che se il lettore, anziché sentirne fastidio o nausea, prova invece un sentimento di simpatia verso siffatte bizzarre nature di poeti, egli è che nell’apparente tenuità del soggetto trova la profondità del sentimento e la gagliarda novità della forma, ben a fondo impressa di nota individuale, e nei casi speciali del cantore riconosce i fatti suoi propri e di tutti gli uomini, la verità cioè e la realtà della vita comune. Così è del nostro Cecco: leggendo le sue rime capricciosamente malinconiche, la impressione che ne abbiamo di colpo non ci lascia riflettere se quel dolore poteva evitarsi colla prudenza e colla vita più regolata: se egli fu, come avrebbe dovuto, seguendo religione e morale, buon figlio e uomo castigato e dabbene, o il contrario precisamente; ma quand’anche si riconosca che l’amor suo fu fremito dei sensi e le sue consuetudini più da treccone che da gentiluomo, non possiamo però distruggere la prima benevola impressione, e il senso di pietà che involontario in noi si è manifestato. È inutile che tentiamo di scacciarlo: eppur concedendo quanto si deve alle leggi supreme della vita e del vero, gli accenti della musa di Cecco ci ripiomban sul cuore. È uno sventurato che piange, e se anch’egli stesso è principale autore dei suoi guai, noi ci sentiamo uomini, e come uomini commossi alle sue sventure. Né queste sono poche e lievi; perché ognuno capisce che non consistono soltanto nel non aver danari da scialacquare e nel non tener la Becchina a sua posta; ma anche nel sentirsi nobile e trovarsi nel fango, nell’esser nato ai più dolci affetti e invano cercarli nelle mura domestiche, e procacciarseli soppiatti e mal sicuri; nel confondere insieme, come in un ghigno ed una smorfia, il riso ed il pianto. Ed è appunto in quest’ultima mischianza degli elementi più opposti fra loro, che rinveniamo nella poesia del nostro una delle qualità speciali dell’umorista: che se per gli altri il dolore si manifesta col pianto, e col riso l’allegrezza, per l’umorista il cuore lieto ha spesso per segno esterno una lacrima lenta ed amara, e la profonda mestizia del cuore si scioglie per lui come dice il Giusti, in riso, e sia pure di quello che non passa alla midolla. Questa difformità, questo contrasto genera appunto la vaghezza della poesia umoristica lieta, leggera, spensierata al di fuori; ma in se stessa grave, trista, profonda e che, come pur dice il toscano poeta, par sorriso ed è dolore. L’impressione che veramente reca in altri la poesia umoristica è la tristezza, o a dir meglio la malinconia: quando invece, osserva il Richter, la poesia greca e la classica in generale induce nell’animo la serenità. E nella sua giocondità, nel suo lepore o nel suo riso, malinconico è veramente il nostro Angiolieri: anzi si può dire che egli sia il primo fra gli antichi poeti volgari che abbia fatto uso di questa parola malinconia tanto moderna, tanto modificata a morale significazione del senso materiale che ha nel latino di Cicerone e di Plinio. E chi non penetra l’intimo valore di essa, quando nel fondo delle sventure, ei sorge a gridare:

Malinconia perciò non mi daraggio
Anzi m’allegrerò del mio tormento?
[19]

[19] Nell’ediz. del Massèra questi due versi, che appartengono al son. LXXXII, suonano così:

Però malinconia non prenderaggio,
anzi m’allegrò del mi’ tormento.

o quando riconosce vano ogni sforzo a sottrarsene:

Caro mi costa la malinconia
Che, per fuggirla, son renduto a fare
L’arte sgraziata dell’usurare
La qual consuma la persona mia.
[20] 

Altrove si propone di non più lasciarsene possedere, deliberando:

Di lasciar la natura lavorare
E di guardarmi, s’io il potrò fare
Che non m’accolga più malinconia.
[21] 

Eppure egli ne è per modo sotto l’impero, che farebbe pietà ai nemici:

La mia malinconia è tanta e tale.
Ch’io non discredo che s’egli il sapesse
Un che mi fosse nemico mortale
Che di me di pietate non piangesse.
[22]

Ma ogni sforzo è inutile: ed egli deve concludere con questo verso singhiozzante:

Con gran malinconia io sempre sto.» [23]

[20] Son. LXVII, w. 1-4     [21] Son. XLIV, w. 4-6     [22] Son. XI, w. 1-4.     [23] Son. LXIX, v. 1. Il Massèra legge: Con gran malinconia sempre istò.

III

Confesso che leggendo la prima volta queste parole, mi parve di trovarmi in una corte di giustizia nell’ideal repubblica delle lettere, e d’assistere alla calorosa, eloquente, drammatica difesa d’un bravo e vecchio avvocato il quale, caso affatto nuovo, avesse lui stesso accusato il suo difeso, e ora, nel punto culminante della mozione degli affetti, se lo tirasse su, dal fondo dell’ignominia in cui egli stesso l’aveva gittato, con frasi d’effetto come queste: «Gli accenti della musa di Cecco ci ripiomban sul cuore… È uno sventurato che piange… Noi ci sentiamo uomini, e come uomini commossi alle sue sventure…».
Ora, codeste frasi – il D’Ancona lo sa meglio di me – non fanno critica. Evidentemente egli si innamorò troppo del nostro Cecco. E si può intendere fino a un certo segno che il D’Ancona abbia voluto conciliare a lui la benevolenza degli studiosi; ma non è poi lecito scusare un tristo, e sia pur poeta quanto l’Alighieri, col dire: «Compatitelo, è un umorista!».
Dato e non concesso che per la valutazione estetica debbano tirarsi in ballo i sentimenti organici o interessati, di pietà, di simpatia, di tolleranza, ecc., il D’Ancona avrebbe dovuto, non affermare semplicemente, ma dimostrare come e da che ognuno possa capire che le sventure di Cecco «non consistono soltanto nel non aver danari da scialacquare e nel non tener la Becchina a sua posta; ma anche nel sentirsi nobile e trovarsi nel fango, nell’esser nato ai più dolci affetti e invano cercarli nelle mura domestiche, e procacciarseli fuori di casa, soppiatti e mal sicuri; nel confondere insieme, come in un ghigno od una smorfia, il riso ed il pianto».
Nessun poeta più dell’Angiolieri mette a nudo se stesso; e se veramente egli avesse provato schifo del fango in cui gli piacque d’affogare, se veramente gli si fosse destato in petto un dolce e nobile affetto, lo avrebbe subito manifestato, così come manifesta con vispa o tranquilla spudoratezza i più laidi vizi, i più turpi sentimenti, i più sconci appetiti.

     Del resto, quali siano i suoi più dolci affetti dice egli stesso:

Tre cose solamente mi so’ in grado
le quali posso non ben ben fornire,
cioè la donna, la taverna, e ’l dado:
queste mi fanno ’l cuor lieto sentire;
[24]

 [24]  Son. LXXXVIII, w. 1-4. II ed. Chigiano L. VIII. 305, da cui il signor Massèra lo riporta, reca il primo verso così: Tre cose solamente mi son in grado, cioè con una sillaba di più. Il signor M. sa che è forma propria del dialetto senese so’ per sono, e intanto, dovendo emendare il verso, fa l’aferesi ’n in luogo dell’apocope so’. Il D’A. riporta il verso così:

Tre cose solamente sonmi in grado

     E la donna che più di tutte gli è in grado (egli ne ha amate parecchie parecchie, come canta nel son. LXVII) è Becchina, figliuola – come si sa – d’un «agevol coiaio», la quale, non ostante che abbia un marito

che le fa peggio c’a lui non fa ’l babbo,
si dà per danaro, e lo dice, a chi le offra di più.

     Si sente nobile Cecco? Sì, forse di nascita. Ma dove mai, in tutto il canzoniere, dà a vedere uno anche minimo indizio di nobiltà d’animo? Piange la povertà, a cui il padre lo condanna, ma non perché essa gl’impedisca o gli ostacoli qualche generosa aspirazione, sì perché gli toglie di scialacquare, di soddisfare i bassi o turpi desideri già così esplicitamente espressi. Se fosse ricco – come spera che sarà un giorno, alla sospirata, anzi imprecata morte del padre – egli vorrebbe di gavazze parer fiorentino (son. LXXVII); stare in Siena com’è ricchi al Bagno (son. XCIV); e non lascerebbe mai Becchina, senza la quale, pur avendo fiorini a sacchi e Arcidosso e Montegiovi in potere, non gli parrebbe

aver tre bagattini; [25] 

il che però non gl’impedirebbe di colmar di ricchezze anche un tal Lano, ch’egli spudoratamente dichiara d’amare più che nessun uom la vita (son. CVIII). Del resto, anche senza aver molti denari, confessa che

… s’avvien talor per avventura
c’alquanti me ne vegnon uncicati;
de’ quali fo si gran manicatura,
c’anzi ch’i’ gli abbia son quasi lograti.
[26]

 [25]  Son. XLI. [26]  Son. LXXV, w. 9-12.

Cecco soffre perché non trova in casa, fra le mura domestiche, i dolci affetti a cui il D’Ancona lo crede nato? Ma se egli non si dimostra mai, mai neppur d’un punto superiore al padre, alla madre, alla moglie, come neanche a Becchina e a Min Zeppa e a Ciampolino, se non per il fatto che sa mettere in versi arguti e vivacissimi le proprie turpitudini? Tutte le accuse nefande che scaglia contro i suoi e contro coloro coi quali più o meno ha da fare, riescon mai forse a diventare una scusa per lui? Gavazzatore, Ciampolino? Ma nel son. CXVI dice:

Io feci di me stesso un Ciampolino
credendomi da llui esser amato,
ed eravam di du’, un dal meo lato.

    Sodomita, Moco? Ma, e lui, Cecco? Basta leggere i sonetti per Lano (chiedo venia dello sconcio bisticcio involontario) e quelli per un tal ser Corso di Corzano. Avaro, il padre? E magari sarà stato! Ma non bisogna dimenticare che per tutti i figliuoli discoli, scioperati, scialacquatori, femminieri, beoni, giocatori, il padre è sempre avaro. A buon conto, dal son. XLI si rileva che frate Angiolieri fece di tutto per allontanarlo da Becchina, e possiamo anche pensare che, se egli stringeva la bocca alla punga (cioè, alla borsa), lo faceva per tenere a freno il figliuolo scapestrato.

     Il quale, come si sa, se ne vendica ingiuriandolo in tutti i modi: e del can giudeo gli dà, dopo aver litigato con lui per un fiasco di raspeo (son. XCVI); e lo chiama demonio e fra Gaudente e ladro di Salvagno [27] e incoiato, ecc. ecc.; e propone alla morte di prendere un partito comunale, cioè o d’uccidere lui o d’uccidere il padre (son. XCIV); ma poi, nel sonetto appresso, dispera che la morte voglia prender questo partito:

che la morte paur’ à di morire,
e s’ella intrasse in lui, i’ so’ sicuro
ch’ella morrebb’e lu’ faria guarire.

 [27]  Per spiegare quest’ingiuria il M. riporta in nota ciò che il Rajna scrisse in Zeitschr. für rom. Phil., II, pp. 251 sg., che cioè questo Salvagno è senza dubbio una persona stessa col Selvain, Servain, ed anche Servein, che si ritrova come ladro di grido in più d’un romanzo francese.

     Che uso farebbe del danaro alla morte del padre, già sappiamo. E quando il padre finalmente muore, e lui ne dà a un suo degno compare l’incredibile notizia in un sonetto atroce (Non si disperin quelli de lo ’nferno, XCVIII), sogna il per totum contabimur orbem:

che sempre vivarò glorificato
puo’ che messer Angiolieri è scoiato
che m’afrigea di state e di verno.

     Ma è inutile qui adesso rifare la disamina dei sonetti, che già il D’Ancona fece così bene in quel suo studio. Da che mai potè egli argomentare i dolci affetti a cui Cecco si sentiva nato? Non riconosce forse anch’egli che Cecco può scherzare a suo modo quando canta:

Chi dice che suo padre altro c’onore
la lingua gli dovrebbe esser tagliata?
[28]

 [28]  Son. CIV, w. 1-2

sonetto, a cui risponde nella mia memoria un canto, di tra il folle tripudio dell’antico carneval fiorentino, il canto di messer Battista dell’Ottonaio, araldo della Signoria, il Canto dei giovani che portavano bruno pel padre:

Chi brama aver di libertà il mantello
Come facemmo noi,
Porga l’udire e ’ntenda qual sien poi
Gli error, gli affanni e servitù di quello.

     Venivano talvolta in piazza (allora!) certe crude verità, così tragicamente mascherate, tra le maschere più sguaiate e più sconce.

Noi pregammo l’inferno e ’l cielo ognora
Che ’l padre ci togliesse
Perché più si potesse
Godere ed ire a nostra posta fuora.

     Che se i sonetti relativi alla famiglia paiono al D’Ancona stesso terreno che scotta, e dal quale non gli par vero di levare i piedi più presto che per lui si possa, sono forse gli altri sonetti un giardino ove spunti qualche fior di gentilezza? Lasciando la casa orrida, l’orrida famiglia, non caschiamo forse o nel lupanare o nella bettola? Argomenta forse il D’Ancona i dolci affettidi Cecco dal frequente uso che l’Angiolieri fa della parola malinconia e dal contrasto, che gli pare fondamentale della poesia angiolieresca, tra il riso e il pianto? Ma la parola malinconia in Cecco, se non ha più il senso materiale originario che aveva nel latino di Cicerone e di Plinio, è pur lontanissima da quella delicata affezione o passion d’animo che intendiamo noi. Malinconia per Cecco significa sempre non aver danari da scialacquare; non poter soddisfare con Becchina, che vuol esser pagata, le voglie carnali; aspettare invano che il padre vecchissimo e ricco si muoia,

ed e’ morrà quando ’l mar sarà sicco,
si ll’à dio fatto per mio strazio sano!

     Quel verso che il D’Ancona chiama singhiozzante e che cita per ultimo a concludere che ogni sforzo che il poeta faccia per liberarsi dalla malinconia gli riesce inutile:

con gran malinconia sempre istò,

non ha affatto il carattere compendioso, né il valore espressivo che il D’Ancona gli vuol dare. È il primo verso d’un sonetto tutto a rime tronche composto da Cecco durante una lontananza forzata da Siena, chi sa per qual sua nuova bricconata. Quel «sempre» vuol dire «da che sto qui» oltre i confini; tanto vero che se colui al quale si rivolge per aiuto lo farà ribandire in Siena, egli ritornerà lieto,

e parrà un colombo senza fele
tanto starà di bon core giecchito.

     Il contrasto, quello che par sorriso ed è dolore dov’è? Veramente è un voler fare ingiuria a questo verso, nato di squisita, delicata e profonda sentimentalità, il riferirlo ai sonetti di Cecco. A provare il contrasto, il D’Ancona cita anche qui due versi, staccandoli da tutto il resto e dando loro un valore espressivo che non hanno:

Però malinconia non prenderaggio,
anzi m’allegrerò del mi’ tormento.

     Come se a questi due versi non seguisse una terzina, che non solo spiega l’apparente contrasto, ma lo distrugge affatto. Cecco non prenderà malinconia, anzi s’allegrerà del suo tormento, perché ha udito dire a un uomo saggio

che ven un dì che vai per più di cento.

     E il dì sarà quello della morte del padre, che gli permetterà di far gavazze, come allude nel son. XCI:

Sed i’ credesse vivar un dì solo
più di colui che mmi fa vivar tristo
assa’ di volte ringrazere’ Cristo…

     Questo giorno ha pur da venire: bisognerà aspettarlo con pazienza, perché

l’uom non può sua ventura prolungare
né far più brieve c’ordinato sia;
ond’i’ mi credo tener questa via,
di lasciar la natura lavorare

e di guardarmi, s’io ’l potrò fare
che non m’accolga più malinconia,
ch’i’ posso dir che per la mia follia
i’ ò perduto assai buon sollazzare.

Anche che troppo tardi mi n’avveggio,
non lascerò ch’i’ non prenda conforto,
c’a far d’un danno due sarebbe peggio.
Ond’i’ mi allegro e aspetto buon porto,
ta’ cose nascier ciascun giorno veggio,
che ’n dì di vita (mia) non m’isconforto.
[29]

  [29] Il Massèra vorrebbe mettere in relazione questo sonetto e il precedente, che è il LXVIII, con l’avventura narrata dal Boccaccio nella nov. IV del Dec.

È chiaro? Sul valore della parola malinconia non è possibile farsi, come il D’Ancona ha voluto farsi, alcuna illusione. Il tormento di Cecco noi sappiamo bene quale sia, e del suo tormento egli non s’allegra mai, sì lo riveste d’una forma vivace che per me spesso, ripeto, più che per intenzione burlesca o satirica proviene dalla sua arguta natura paesana, ed è tutta popolare senese.
Ora, per ritornare a ciò che abbiamo detto più su dato e non concesso che per la valutazione estetica debbano tirarsi in ballo i sentimenti organici o interessati, la pietà, la simpatia, ecc., io nego assolutamente che a un’anima nobile e delicata, e sia pur quanto si voglia inchinevole alla tolleranza, i sonetti di Cecco possano recare la stessa impressione che reca la poesia umoristica, come dice il D’Ancona, cioè la tristezza, o meglio, la malinconia. Essi non possono recar altro, invece, che nausea, ribrezzo, orrore; il che – si badi bene – non toglie nulla al loro pregio artistico, perché altro è il sentimento della forma (il solo che conti nella valutazione estetica), altro il sentimento del contenuto.

«A punto perciò» nota acutamente il Cesareo [30] «il contenuto più gradevole (che impropriamente da molti è detto “bello fisico”), se male espresso, dà noia, e il contenuto più ripugnante, se detto bene, reca piacere.

 [30] Vedi op. cit. p. 10.

Nulla è più uggioso che la primavera nelle rime degli arcadi, e nulla è più attraente che la ghiaccia dei traditori nel poema di Dante.» Nulla, aggiungo io, è più stucchevole, più insipido delle rime dei poeti provenzaleggiami; e si spiega benissimo come uno studioso, il quale passi da queste ai sonetti di Cecco Angiolieri, debba subito compiacersi del loro sapore, ancor che troppo agro, e concepire per il poeta una viva simpatia. Ma non bisogna andare più in là. La simpatia è un sentimento interessato, che toglie la libertà del giudizio. E al D’Ancona gliel’ha tolta tanto, da indurlo a scusare o almeno a tentar di attenuare tutte le trivialità e volgarità reali del contenuto della poesia angiolieresca raccostandole a quelle apparenti, se così possono chiamarsi, della vera poesia umoristica, le quali vanno intese e spiegate in ben altro modo.
Espongo altrove, nel mio studio su l’Umorismo, il procedimento dell’arte umoristica rispetto a quello dell’arte in genere. Mentre questa compone, l’umorismo decompone. L’arte in genere astrae e concentra, coglie cioè e rappresenta così degli individui come delle cose, l’idealità essenziale e caratteristica. Ora pare all’umorista che tutto ciò semplifichi troppo la natura e tenda a render troppo ragionevole o almeno troppo coerente la vita. Gli pare che delle cause, delle cause vere che muovono spesso questa povera anima umana a gli atti più inconsulti, assolutamente imprevedibili, l’arte in genere non tenga quel conto che secondo lui dovrebbe. Per l’umorista le cause, nella vita, non sono mai così logiche, così ordinate come nelle nostre comuni opere d’arte. L’ordine? la coerenza? Ma se noi abbiamo dentro quattro, cinque anime in lotta fra loro: l’anima istintiva, l’anima morale, l’anima affettiva, l’anima sociale? E secondo che domina questa o quella, s’atteggia la nostra coscienza; e noi riteniamo valida e sincera quella interpretazione fittizia di noi medesimi, del nostro essere inferiore che ignoriamo, perché non si manifesta mai tutt’intero, ma ora in un modo, ora in un altro, come volgano i casi della vita. La natura senz’ordine almeno apparente, irta di contraddizioni, pare insomma all’umorista lontanissima dal congegno ideale delle comuni concezioni artistiche, in cui tutti gli elementi, visibilmente, si tengono a vicenda e a vicenda cooperano.

Nella realtà vera – come ho detto altrove [31] – le azioni che mettono in rilievo un carattere si stagliano su un fondo di vicende ordinarie, di particolari comuni. Ebbene, gli scrittori in genere non se n’avvalgono, o poco se ne curano, come se queste vicende, questi particolari non abbiano alcun valore e siano inutili e trascurabili. Ne fa tesoro invece l’umorista. L’oro in natura non si trova frammisto alla terra?

 [31] Vedi il saggio Illustratori, attori e traduttori.

Ebbene, gli scrittori ordinariamente buttano via la terra e presentano l’oro in zecchini nuovi, ben colato, ben fuso, ben pesato e con la loro marca e il loro stemma bene impressi. Ma l’umorista sa che le vicende ordinarie, i particolari comuni, la materialità della vita insomma, così varia e complessa, contraddicono poi aspramente tutte quelle semplificazioni ideali, costringono ad azioni, ispirano pensieri e sentimenti contrari a tutta quella logica armoniosa dei fatti e dei caratteri concepiti dagli scrittori ordinari. E l’impreveduto che è nella vita? E l’abisso che è nelle anime? Non ci sentiamo guizzar dentro, spesso, pensieri strani, quasi lampi di follia, pensieri inconseguenti, inconfessabili finanche a noi stessi, come sorti davvero da un’anima diversa da quella che normalmente ci riconosciamo? Di qui, nell’umorista, tutta quella ricerca dei particolari più intimi e minuti, che possono anche parer volgari e triviali se si raffrontano con le sintesi idealizzataci dell’arte in genere, e quella ricerca dei contrasti e delle contraddizioni, su cui spesso l’opera sua si fonda, in opposizione alla coerenza cercata dagli altri; di qui quel che di scomposto, di slegato, di capriccioso, tutte quelle digressioni che si notano nell’opera umoristica, in opposizione al congegno ordinato, alla composizione dell’opera d’arte in genere.
E quei particolari intimi e minuti, quei contrasti, quelle contraddizioni, quelle digressioni, son frutto della specialissima riflessione umoristica, riflessione che non si cela, che non diventa, come nell’artista ordinario, una forma del sentimento, ma il suo contrario, pur seguendo passo passo il sentimento, come l’ombra segue il corpo. L’artista ordinario bada al corpo solamente; l’umorista bada al corpo e all’ombra, e talvolta più all’ombra che al corpo; nota tutti gli scherzi di quest’ombra, com’essa ora s’allunghi ed ora s’intozzi, quasi a far le smorfie al corpo, che intanto non la calcola e non se ne cura. Ma quanto valga un’ombra l’umorista sa bene: il Peter Schlemihl di Chamisso informi.
Che cosa dà valore a tutti questi scherzi di ombra? Un profondo e sottile sentimento filosofico, pessimistico o scettico, sentimento che si sdoppia e talvolta anche si moltiplica, cosicché l’umorista, smarrito e perplesso, non sa più da qual parte tenere.
Ora si può dir questo veramente di Cecco Angiolieri?
Egli tiene sempre da una parte, e sappiamo purtroppo che parte sia; e mai né contrasti né contraddizioni in lui, come abbiamo dimostrato; e la sua malinconia, determinata da cause a noi ben note, non ha nulla che vedere col profondo e sottile sentimento filosofico dell’umorista. Restano le volgarità e le trivialità. Che la poesia umorista sia in massimo grado subiettiva e individuale è un fatto che nessuno può mettere in dubbio; ma, come ben nota il D’Ancona, questa è una subiettività che lascia appunto nel caso speciale, nel fatto proprio riconoscere la verità e la realtà della vita comune; è la particolarità insomma che abbraccia la generalità, un piccolo specchio che riflette grandi cose. Che cosa riflettono i piccoli specchi di Cecco? Casi speciali, volgari e triviali, con cui gli altri uomini, per fortuna, non han da vedere. Via, l’umorismo è ben altra cosa; l’impressione di malinconia che reca la poesia umoristica è determinata da ben altre cause. E io non avrei speso certamente su tale argomento tante parole ove non avessi dovuto levarmi contro l’autorità d’Alessandro D’Ancona.

IV

     L’originalità di Cecco va cercata altrove; va cercata sopra tutto nell’aver egli fatto materia di poesia i casi suoi specialissimi, i suoi più intimi sentimenti, con una sincerità che avventa e offende. È una originalità che costa cara alla buona reputazione. Ci vuol un tristo coraggio per guadagnarsela. E Cecco l’ha, e l’adopera con una tranquillità che incute ribrezzo. È infatti un coraggio che si può avere soltanto per incoscienza; una forma di degenerazione ben nota alla scienza psichiatrica.
Egli non fa mai, per dir così, letteratura (i sonetti che dimostrano una qualche intenzione letteraria si possono contar su le dita): della sua veramente non comune attitudine poetica egli non s’avvale se non per scherzare o per darsi uno sfogo. Naturalmente, efficacissimo riesce nello scherzo per la nativa arguzia e la straordinaria vivacità con cui sa rendere ogni guizzo dell’immagine comica; non meno efficace riesce nello sfogo, poiché il pudore non trattiene mai né mai tenta di attenuar minimamente la cruda schiettezza. Egli è tutto in preda all’anima istintiva, alla bestia originaria che s’acquatta in fondo a tutti noi, ma che noi spesso, se non sempre, e non tutti, riusciamo, bene o male, a tener in freno e a nascondere.
Cecco né sa tenerla in freno, né si cura di nasconderla. La bestia soffre in lui, e or digrigna i denti e mostra le unghie e urla contro il padre che l’incatena; or leva ruggiti come nel sonetto famoso S’i’ fossi foco; or azzanna e fa strazio dei suoi nemici; ora, spasimando per le brame insoddisfatte, trova espressioni come queste:

andava e ritornava com’un’orsa
che va arrabbiando e ’l luogo non si ficca

oppure:

la notte come serpe mi trovollo

oppure:

che mmi conven far di chelle dell’orsa
che per la fame si lecca le dita.

o espressioni di disperato abbandono, come:

Ond’io esser non nato ben vorria
od esser cosa che non si sentisse.

     Questo sente, questo canta, con la fissità d’un maniaco. E se n’accorge egli stesso:

Tant’abbo di Becchina novellato
e di mie’ madr’e di babbo e d’Amore,
c’una parte del mondo n’ò stancato:
però mi vo restare per migliore,
che non è sì bel giuoco tropp’usato
che non sia rincrescerne all’uditore.
[32]

 [32] Son. LXXXIII, vv. 1-6

Ma non si resta: nello stesso sonetto seguita il bel giuoco: dice che arrabbia di morire nel veder ricco chi dovrebbe esser bretto, cioè il padre, e vedendo bretto chi dovrebbe gioire, cioè lui. E seguita, seguita per tant’altri sonetti, togliendo pretesto spesso da minuzie miserevoli. E alla poca varietà degli argomenti, nell’angustia morale opprimente, in cui il poeta sta chiuso e quasi ingabbiato, risponde anche, per necessità, una scarsa varietà negli atteggiamenti del pensiero. Si confrontino, ad esempio, i sonetti VIII, XLII, XCII: hanno tutt’e tre lo stesso atteggiamento e la mossa medesima:

Io potrei così star senz’amore
come la soddomia tollar a Moco,
o come Ciampolin gavazzatore
potesse vivar tollendol’ il gioco,

o come Min di Pepo accorridore
s’ardisse di toccar Tan pur un poco,
o come Migo, ch’è tutto d’errore,
ch’e’ non morisse di caldo di fuoco

dice nel primo; e nell’altro:

Io potrei così disamorare
come veder Ficiecchio da Bologna
o l’India maggior di val di Pogna
o de la vai di Bocchenzan lo mare,

o a mie’ posta veder l’ovo sudare,
o far villan uom che tema vergogna,
o tutto ’nterpetrare ciò c’uom sogna,
o cosa fatta poter istornare;

e nel terzo:

I’ potre’ anzi ritornare in ieri
e venir nella grazia di Becchina,
o ‘l diamante tritar come farina,
o veder far misera vita a’ frieri,

o ffar la ppancia di messer Min Pieri,
o star content’ ad un pie di gallina,
o che morisse ma’ della contina
que’ ch’è domonio e chiamas’ Angiolieri.

     Ma non bisogna domandare a Cecco più di quello ch’egli ci vuole e ci può dare. Già, a domandarglielo, si corre il rischio ch’egli ci dia del bue, come a Dante Alighieri. Quando la bestia in lui è un po’ queta, del resto, o perché paga in certo qual modo o perché stracca, ed egli si trova in tempera di scherzare, sempre un po’ mordicchiando o sgraffiando, s’intende, ci lascia pur godere di qualche comica rappresentazione o di Neri piccolino tornato di Francia o di Buon Martini cascato male nella putente Magna o di Min Zeppa quand’entra in santo o di quel Meo che si strugge a notte dietro l’uscio di Ghituccia. Ma non gli diamo, per carità, le morbide malinconie filosofiche d’un poeta umorista!
Quanto alla metrica, è da notare che Cecco sente davvero la forma del sonetto. Esso risponde sempre con sicura franchezza e salda agilità alle intenzioni del poeta, seconda le vispe mosse del pensiero e a tempo le contiene. Costantemente osservata è la pausa tra le due quartine e le due mute del componimento; men rigorosamente le pause tra l’una e l’altra di queste e l’una e l’altra quartina. Insomma, il freno dell’arte non manca, benché nessuno stento lo tradisca mai; anzi si dimostri sempre precipuo il carattere di spontaneità. Il componimento viene giù quasi di getto, nativo nella sua forma e nella sua struttura. Cecco non cerca le rime; s’accontenta facilmente di quelle che gli occorrono in prima; e molte, in verità, son quelle, troppo agevoli, in –ore, in –are, in –ire, in –ato, in –mente; pure talvolta supera con disinvoltura la rima difficile; la compone con felice industria, come, ad esempio, per enclisi nel verso:

ma, veramente come Cristo ’n del è [33]

 [33]  Son. XVII, v. 7.

che rima con S. Michele, candele e cautele; e parimenti nel son. CXXI:

gridando li andrebber dietro – dà, dà

che rima con bada e Rada; e nel son. CXXX:

e dimandata sarai: – chi ’l fé’, di’? cchi?

che rima con micchi e impicchi. Anche altre rime in questo sonetto sono burlescamente composte: vuomi, suomi, puomi, tuomi nelle quartine, e tiemmi, diemmi, soviemmi nelle terzine; burlesco è anche il micchi che si trova pure in rima nel son. LXXI (da mihi lat.). Altrove, avremmo una rima derivata per tmesi, se si potesse accettare la lezione proposta dal Massèra:

oi me lassa, ben posso dir eh’ immi–
ti un turbo.
[34]

 [34] Son. CXDC

ma questa lezione non è accettabile. Il ed. R.2, da cui il M. ha tratto il sonetto, reca:

oi me lassa, ben posso dir chimmi
tien turbo…

     Il M. con tutta peritanza, com’egli dice, crede che il tien a principio del v. 6 renda inesplicabile tutto intero il verso; e una parte, la prima sillaba, l’appiccica al chimmi con cui finisce il verso precedente, chimmiti «ch’immiti» ed emenda l’en rimanente in un. Tutto l’emendamento è arbitrario. In questo sonetto, come in altri, Cecco sberteggia Min Zeppa, o meglio, lo fa sberteggiare da una donna, che gli rinfaccia qui la vigliaccheria. Nei primi due versi la donna domanda a Min Zeppa:

Per cotanto ferruzzo, Zeppa, dimmi:
se tti facesse fuggir ogne cria?

cioè ogni grido. E tutto il sonetto s’aggira sul fuggire più o men precipitoso di Min Zeppa per paura. Min Zeppa risponde che ad ogni modo la sua speranza fu ben adempiuta. E la donna nei versi 5 e 6 esclama:

oi me lassa, ben posso dir: chi mmi
tien? turbo, c’al fuggir par, die’, arpia!

cioè: «chi mi tiene in braccio? un turbine, che al fuggire pare, dico, arpia». A parte quell’immitiper imiti assolutamente inaccettabile, il Massèra avrebbe dovuto badare che le rime dei versi 1, 3, 5, 7 delle quartine e quelle del verso secondo della la e della 2a terzina sono composte tutte allo stesso modo: dimmi, sì mmi, chi mmi, lì mmi, fimmi, mi mmi, cioè per mezzo dell’encliticammi.

Il poeta si è intestato a vincere qua una difficoltà, componendo tutto il sonetto con due rime sole in –immi e in –ia tanto nelle quartine quanto nelle terzine, e ci riesce male; altrove, nel son. CXVI, [35] ci riesce invece felicemente, perché le rime in –ino e –ato non erano difficili.

 [35]  Nell’Indice degli schemi metrici in fondo al volume, il Massèra s’è lasciato sfuggire un errore di stampa. Il son. CXVI è saltato, e invece è attribuita al CXV la particolarità delle stesse rime per le terzine e le quartine. Ma non s’è poi accorto il M. o ha dimenticato di segnar nell’Indice che il son. CXIX ha la stessa particolarità.

     Tutto ciò dimostra a ogni modo in Cecco perizia d’arte e che la tecnica è divenuta in lui istinto mobile e sicuro. Egli, come abbiamo veduto, giuoca con essa. Un’altra dimostrazione la troviamo nei sonetti vivacissimi dialogati, nei quali tuttavia le parti son sempre disposte con arte e con misura. Così, ad esempio, nei sonetti XXIII e XLVI il dialogo si svolge a botta e risposta sempre entro lo stesso verso:

Becchina mia! – Cecco, noi ti confesso –
ed i’ son tu’– cotesto disdico –

e così di seguito per tutti gli altri versi; oppure, come nel son. XL, alle persone del dialogo sono assegnati due versi all’una e due all’altra, nelle quartine, e poi una terzina all’una e una terzina all’altra; nel son. LVIII è assegnata, invece, una strofa a ciascuna. Notiamo inoltre il son. XX a versi incatenati, e i due sonetti LXXV e CI, nelle cui quartine, oltre la rima, si ha l’assonanza interna ed esterna:

In una ch’e danar mi danno meno
anco che pochi me n’entrano ’n mano,
son come vin ch’è du part’acqualeno,
e son più vil che non fu pro’ Tristano;
e nfra le genti vo col capo ’n seno
più vergognoso c’un can foretano;
e per averne dì e notte peno,
ciò è in modo che non sia villano.

e nel CI:

Mia madre sì m’insegna medicina,
la quale m’è crudelmente non sana.

ecc.

Ho già citato il son. LXIX a rime tronche, che comincia:

Con gran malinconia sempre istò,
sì ch’io allegrar niente possomi;

dal quale ultimo verso abbiamo ancora una prova evidentissima, se pur n’avessimo bisogno, del fatto che sui proparossitoni in fine di verso la pronuncia poneva un accento, come in latino la musica faceva cadere un tempo forte. Rimano in questo sonetto con possomi: possoti epiacciati. E risulta evidentissimo altresì da tutti i versi di Cecco l’andamento binario, giambico, dell’endecasillabo, che stabilisce spesso nel verso tesi in contrasto con gli accenti tonici. Versi come:

se tti piace di volermi parlare
egli è agra cosa ’l disamorare
se momento avesse quella che ire
me’ mi so cattiveggiar su ’n un letto
se degnasse di volerm’ a servente

e tanti e tanti altri, non avrebbero suono di verso, se non si martellassero, per così dire, con le percussioni ritmiche del giambo. Noi adesso, leggendo gli endecasillabi antichi, sentiamo e cogliamo in essi un ritmo molto più ampio e ondeggiante che per gli antichi non avevano. Ce lo prova il fatto di quei versi, che secondo la lettura nostra non avrebbero ritmo, e per gli antichi l’avevano, appunto perché li scandivano altrimenti. Così il verso di Cecco, per citarne uno:

e poggiavi sì smisuratamente

non aveva di certo per il suo autore il respiro e lo slancio che gli diamo oggi noi.
E veniamo adesso all’edizione critica del signor Massèra.

V

     Del non avere io mantenuto la promessa di pubblicare undici anni fa i sonetti dell’Angiolieri il signor Massèra dice nell’Introduzione che in verità ciò non fu grave danno per le lettere nostre, dato quel tanto che sul metodo e sul contenuto del lavoro io avevo fatto pubblicamente conoscere.
Così credo anch’io, senza voler neppure ammettere in mia scusa che forse, accingendomi all’impresa, studiando più attentamente i testi, estendendo a mano a mano le indagini, non mi sarei più fondato in ogni punto su la bibliografia dell’Angiolieri contenuta nell’Indice stampato da Carlo e Ludovico Frati delle carte bilancioniane.
Ma, ad ogni modo, il mio metodo, almeno per ciò che si riferisce alla lingua, alla veste idiomatica dei sonetti di Cecco, non sarebbe stato mai quello seguito nella presente stampa dal signor Massèra. Questo sì, certamente.
Qual è, o quale dovrebbe essere, l’ideale d’una edizione critica? Ricostituire il testo su i mss. diligentemente esaminati in ordine all’età, all’autorità, al contenuto e vagliati e raffrontati ecc., per modo che esso s’accosti in tutto e per tutto, quanto più sia possibile, all’originale perduto.
Ora, per far questo, bisogna innanzi tutto intendere che un’opera di poesia non si può ricostituire meccanicamente, esteriormente, per addizione d’elementi di cui si siano anche con la massima diligenza studiati i rapporti, perché la combinazione di tante membra sparse non ha mai creato un corpo vivo; i particolari non han mai creato l’insieme. Tanto è vero questo che, se poniamo uno pratico alquanto dell’arte del disegno e un altro ignaro di fronte a una statua, questi, per copiarla, allungherà timidamente tante linee, le multiplicherà, si perderà nella loro diversità, calcolerà, addizionerà e non concluderà nulla; l’altro, invece, d’un solo sguardo, scoprirà il senso nascosto dell’opera, la linea che l’ha creata, e in pochi, sicuri e precisi tratti ne riassumerà lo spirito.
L’insieme, insomma, crea il particolare. E dunque, innanzi tutto, bisogna aver l’insieme; il che, nel caso nostro, vuol dire lo spirito del poeta, il sentimento delle sue forme, nel tempo in cui visse, nelle condizioni che gli furono proprie. E ciò non soltanto, si badi, per discernere, ove manchi la precisa attribuzione, quali cose siano propriamente sue, e per il riordinamento dei componimenti, ecc., bensì anche e principalmente per tutto ciò che si riferisce alla forma, alla lingua.
Che cosa fanno, invece, in genere, i compilatori di edizioni così dette critiche?

     Riconoscono tutti la abituale tendenza negli antichi amanuensi a rivestire delle particolarità fonetiche e morfologiche del loro dialetto i testi da essi copiati che fossero stati composti originariamente in altro dialetto; riconoscono che i mss. sono spessissimo irti di scorrezioni d’ogni sorta, per ignoranza o per negligenza dei menanti; sbagliati i versi; alterate le rime; storpiate le parole; tartassata l’espressione; e riconoscono qua una svista e là un’omissione o un’inversione; e insomma errori e mancamenti d’ogni genere; e poi? poi, tranne qualche correzioncina, timida anche nei casi più ovvi, non sanno discostarsene d’un punto; riproducono rigorosamente quei mss., seguono, e se ne vantano, fedelissimamente quegli amanuensi anche nelle loro incostanti abitudini ortografiche; e, quando il materiale si trovi diffuso in più codici, tolgono come niente ai loro testi «criticamente» ricostituiti ( ! ) l’unità fonetica e morfologica, [36] e non tentano di ripristinare il perduto color vernacolo dell’autore neppure nella misura consentita dalle tracce evidenti che di esso per avventura fossero rimaste nei codici.

 [36] «Se non che» nota il sig. Massèra nell’Intr. al vol. (p. LIII), «sventuratamente, 117 soltanto sono i sonetti portati dal cd. chig.: così che per i 21 rimanenti noi ci vediamo costretti a far capo a mss. che non si trovano nelle stesse privilegiate condizioni dell’altro testé considerato; ciò che viene a togliere, senza mia colpa, alla presente edizione quell’unità fonetica e morfologica che sarebbe stata sommamente desiderabile.»

     Il Navone, nella prefazione alle Rime di Folgore da S. G. e di Cene d. l. Chitarra, parlando del dialogo del Monti I poeti dei primi secoli della lingua italiana, a cui, com’è noto, diedero materia alcune postille lasciate dal Perticari, dopo aver fatto rilevare gli errori di esse: «In tal modo» dice, «l’emendamento viene assai sovente ad accrescere la confusione, e chi se la prende con la negligenza altrui non s’avvede che la negligenza maggiore è la sua, che senza prendersi il fastidio di rivedere nei mss. gli errori, se vi fossero stati, del barbaro menante, s’accingeva a correggerli a capriccio, da casa sua».
Ora, non si deve certamente né correggere, né modificare, né alterare, senza tener sott’occhio i mss.; ma non si deve, o meglio, non si dovrebbe neppure aver ritegno a far ciò che gli antichi amanuensi fecero già, a lor volta, senza il minino scrupolo, e spesso barbaramente; cioè tutte quelle modificazioni e alterazioni e ritraduzioni; non già a capriccio, ma con la temperanza e gli accorgimenti e la scorta della sana critica, con tutto il corredo delle nozioni necessarie, filologiche e storiche, e sopratutto – ripeto – secondo l’indole e lo spirito dell’autore e il sentimento delle sue forme. O se no, non si parli d’edizioni critiche! O che forse critica vuol dire non esercitare affatto la critica, o usarla solo esteriormente, a modo di un pazientissimo compilatore di cataloghi? O che forse la differenza tra una edizione critica e una diplomatica consiste soltanto in ciò, che questa riproduce tal quale, fotograficamente, un codice; e quella, allo stesso modo o press’a poco, di tanti codici scelti, ordinati e raffrontati, solo quella parte di essi che si riferisca a questo o a quell’autore e nulla più?
Se così è, se la critica in codeste edizioni non deve avere altro ufficio che questo, non so più proprio che mi dire.

Ma, guardando ai risultati che essa mi dà, così costretta a una fedeltà schiava e balorda alla riconosciuta ignoranza, al riconosciuto arbitrio degli antichi amanuensi, spero che nessuno potrà dirmi che ho torto se esclamo: «Povera critica!» da un canto, e dall’altro: «Poveri autori!».
Vediamo un po’, infatti, com’è riuscito a costituir criticamente il testo dei sonetti angioliereschi il signor Massèra.
In mancanza d’un unico e compiuto esemplare a cui attenersi, egli s’è servito di undici mss. che chiama fondamentali, sia per il quantitativo numerico, sia per la qualità della lezione delle poesie in esso contenute. Riconosce, oltre che per il quantitativo numerico, anche perciò che si riferisce alla lingua, la superiorità del ed. Chigiano L. VIII. 305 su tutti gli altri mss., non solo perché esso proviene dalla Toscana ma anche perché qua e là traspaiono ancora sotto la trascrizione del menante le forme idiomatiche proprie alle diverse parlate dei singoli rimatori, sicché nei 117 sonetti angioliereschi portati da questo ms. «sono parecchie ed evidenti le tracce della favella in cui furono certo dettati, che fu la senese». Ebbene, fa egli uno spoglio fonetico e morfologico del cd. per servirsi poi dei suoni e delle forme senesi, delle tracce idiomatiche, almeno nella misura di esse, non alterando a capriccio cioè, né continuamente, ma caso per caso, con la scorta e la testimonianza del materiale stesso rinvenuto nel codice?

Ci pensa; ma poi gli pare che tal fatica sia da trascurare come inutile, perché ad ogni modo questo spoglio, dice, «per noi che non sappiamo con quanta maggiore o minor fedeltà il Chig. stesso riproduca il suo prototipo, non avrebbe valso che a far conoscere meglio la lingua della trascrizione, la quale non si può certo credere in tutto e per tutto quella stessa in cui furono composti originariamente i sonetti di Cecco».
Bella ragione! Ma se noi sappiamo che i sonetti di Cecco furono composti nel dialetto senese, se noi sappiamo che quei dati suoni e quelle date forme sono senesi, tanto che in virtù di essi ha acquistato agli occhi nostri maggiore autorità il cd. che li contiene, non dobbiamo poi valercene per cercare almeno di accostare il nostro testo alla forma che dobbiamo presumere originaria, o se non tale effettivamente, certo più vicina ad essa?

E se, per uno scrupolo sciocco, per una fedeltà fuor di luogo, non vogliamo far questo, che non sarebbe in alcun modo alterazione arbitraria e capricciosa, ma consigliata anzi dalla critica e dalla logica, perché in fondo non sarebbe altro che un’operazione inversa a quella già fatta arbitrariamente dal menante; se non vogliamo far questo, dico, non dovremmo almeno, per serbare l’unità fonetica e morfologica al testo (che sarebbe – come lo stesso signor Massèra crede «sommamente desiderabile») toglier via, far sparire quelle poche tracce idiomatiche e render tutto secondo le abitudini fonetiche e morfologiche del cd.? Nossignore; né l’una cosa, né l’altra. Il Massèra, ad esempio, trova nel Chig. chi I, 2 per qui, chel XXXV, 12 e chello CVI, 10 per quel e quello; cheste CXXXII, 12 per queste; costione LXII, 14 per questione, e le riconosce per forme senesi; riconosce che accanto a queste le corrispondenti letterarie in prevalenza son dovute all’opera degli amanuensi; e lascia quelle e non modifica queste.

Lo stesso dicasi per le forme: lie’ (lei), puo’ puoi (poi), puo’ che e da puo’ (dittongamento proprio del senese); vènto (vinto) e vencesse LXII, 4 e 9, spento [37] in luogo di spinto CXI, 14;elli (egli); gl’infiniti in –are in luogo di –ere: tòllare, vìvare, èssare, malediciarmi, crèdarmi, diciar, condùciarmi, dispònare; e i condizionali rispondarei, tremarei, credarei, mettarei, andarei, accordarei, trovarei, mozarei, lassarei, tornare’; le forme del vb. essere, so’, sserò, sserebber, che egli lascia accanto alle corrispondenti letterarie e qualche volta anche nello stesso sonetto:

  [37] È da notare che tanto vento quanto spento si trovano in rima; come anche in rima troviamo vento in un sonetto di Folgore da S. Gemignano:

allora si conosca chi à vento

Vedi Navone, op. cit., p. xxv e 39.

Ma poi nello stesso sonetto troviamo vencesse.

Sed i’ credesse vivar un dì solo XCI (1)
più di colui che mi fa viver tristo (2)

I’ò un padre sì compressionato XCIII (1)
ch’e guf’ebber da llu’ la complessione (11)

faccia la forch’e ’npicchisi elli stesso LXXXIX (2)
s’egli è al mondo Amor cert’i’ son esso (6)

qual i’ mi so può’ che così de’ andare XXII (9)
da poi che rimaner far non ti posso (11)

e ’l diavol m’à di le’ fatto sì grosso XLVII (7)
perched i’ l’am’e da lie’ si’ odiato (11)

e de la sua mercé colsi quel fiore XXXV (7)
ma gir mi vo chel fior, ch’i’ò a gioire (12)

     Per diciar è da notare che lo troviamo non solo accanto a dire ma anche a dicer in due versi molto simili:

ch’i seppi tanto tra dicere effare XXXV (5)
ch’i’ò saputo sì diciare e fare LXXIX (10)

e troviamo poi nel son. CXVII, 14 dicier e nel XXX, 8 dicierebbe come accanto a conduciarmi LXIII, 5 troviamo conduciermi XXXVII, 5: ebbene, neanche in questi casi il Massèra si arrischia di ripristinare la tinta idiomatica.
Ma quel che egli ha saputo fare per la sommamente desiderabile unità fonetica o morfologica apparrà chiaro dal seguente schema che risulta dallo spoglio del suo testo «criticamente» costituito.

VOCALI  TONICHE

     deo XLVT, 3; Dio XXII, 2; XXV, 3; idio LXXXVII, 4; dde’ XCIII, 8; di’ V, 2; ideo CXVII, 6; die’ LXVI, 12; XLVII, 10; LIX, 12; LXVIII, 1 ecc.; anzi, nello stesso sonetto XLVI:

merzé, per deol – tu vien molto giecchito (3)

Die’ te’l perdoni – e cche, non te ne vai? (12)

e qui merzé per deol, altrove, XXV, 3, merle per dio!

     meo XXVIII, 3; CXVII, 3; CXXV, 9; mio XXXI, 4, 10; me’ XIII, 8; mi’ XIV, 5; mie’ XI, 7 e ibid. 11 mei, poi miei XIX, 8; accanto a mia IX, 5; XI, 1 mie’ XLIII, 9; LXII, 14; LV, 7; anzi in tre sonetti consecutivi, al principio, XCIX, C e CI: Mia madre nel primo, e poi negli altri due mie’ madre; nel sonetto CHI troviamo poi al v. 3 mia madre, nell’ 11 mie’ madre. Allo stesso modo troviamo ora lo mi’ cor XIV, 5; XXIV, 1; ora 7 mie’ cor X, 7; ora 7 me’ core XIII, 8; ora 7 meo core XXXV, 2; LUI, 4; ora // mio cor LXV, 6.

     reo VI, 1; rio LXV, 11; reto XXXVII, 12; rie’ LXXXII, 11.

     lei IV, 12; le’ XLVII, 7; lie’ XLVII, 11.

     de’ (deve) XXXII, 8; XXXV, 14 e die’ (devi) CXIV, 11.

     senza LXXXIV, 1 ecc. e sanza L, 10; LVII, 7, ecc.

     La dittongazione dell’e e dell’o è frequentissima. Non terrò conto di ven accanto a vien, tenaccanto a tien, cor accanto a cuor; voi, voi accanto a vuol, vuoi; mojo accanto a muojo, ecc. Noterò che si trova quasi sempre fuor, fuori o fuore, fuora e che il M. nel son. LXXIX al v. 11 lascia fore che pure è in rima con cuore e muore, mentre altrove (son. IV, 12) in rima con fuoree cuore lascia more; così similmente truova CXXXIV, 6 e sotto, al v. 11, in rima con nuova lascia trova. Noterò altresì i seguenti casi: uom IV, 14; XIX, 14, ecc.; om XXXI, 2; LXXXV, 5,9 ecc.; on XTV, 2; uon III, 9 e vuom XXVII, 7; e nello stesso sonetto:

come fa nel rie’ tempo l’on selvaggio LXXXII, 11

ch’i’aggio udito dire a om saggio (13)

     E infine penser XXXII, 13 o pensero LXIX, 13 e pensiere CXXXVH, 9; manera XLV, 8 emaniera CXVI, 3.

     Per altri casi di quella dittongazione propria del senese che abbiamo veduto in può (poi), il signor Massèra si regola allo stesso modo, cioè lascia senz’altro nel testo la forma idiomatica accanto alla corrispondente letteraria. Così nel noto son. CXXXII, che rappresenta una scena del mercato, dove il poeta motteggia i volgari di Toscana, troviamo nella «poscia muta» del sonetto dedicata alla parlata senese, fuoron (= furono); altrove troviamo fuor (= fur) XXII, 14; LI, 13; CXVIII, 14; ebbene, neanche questa dittongazione caratteristica è riprodotta sempre nel testo, e accanto a fuor troviamo fur, furono accanto a fuoron; come accanto a fuora XII, 6; XL, 4; XLIII, 12 ecc.; fora XX, 3; XXIX, 11 ecc.

    Noteremo in fine: rispos’ CXVIII, 8 e rispuosi LXI, 7; C, 5; scende CXXXV, 5 e scienderLXXXVII, 8; odiendomi LVII, 8 e udendol LVII, 14; abolendo CX, 4 e nello stesso son. al v. 14avendo; dugento CVII, 1 e dugiento XLIX, 14, come afrigiea XCVIII, 8; Ficiecchio XLII, 2;ciecierbita CXI, 2.

     Aere XIV, 2 e are XXIV, 3 in rima; XLV, 3 non in rima. [38]

 [38]  Non tengo conto di vinti (venti, num.) XLIX, 13; Gesò L, 8, che forse deve leggersi Gesò (segue Cristo); cervugia CXXIV, 4; agoro (augurio, in rima) XCVII, 7; Àlena (Elena) XXVIII, 13, perché non hanno altro riscontro nel testo.

   VOCALI  ATONE

  1. Protoniche:

     guarire XX, 6,7; XCV, 11 e guerire LI, 10. massarizia LXXXIV, 6,10 e masserizia LXXXV, 2.maladetto IV, 1; VI, 9; XCVII, 9 ecc.; maladetta LV, 1;

     maladisse LXV, 2; maladiciarmi XXXVI, 14; e poi maledetta LXXXIV, 10 e maledico IX, 7;mercennaro LXX, 12 e marcennaio CXXXI, 1; peggiore XIII, 7; XIX, 5; peggiorare VI, 2 e poipiggiore XXXVII, 11; megliorare XXXVII, 14; CU, 3 e migliorare XVII, 12; segnor VI, 3; segnore XIII, 6; segnori LXXIX, 5; segnoria XIV, 3 e signore II, 2; signori LXXIII, 12; signoria LVII, 2. Nel sonetto CXXV:

si raccomand’a tte com’a segnore (2)

il qual è stat’ un tu’ signor antico (4)

     denaro LXXVII, 2 e danaro LXXV, 1; dovesse IX, 9 e dovesse LXX, 13; desire LII, 7 e disire LXXXVIII, 8.

     volentier LII, 9 e volontier VII, 11; transvolontieri XXIV, 10.

     messere XCII, 5; XCVIII, 7 e misser CXXV, 17.

     lleal L, 7; lealmente XXV, 13; LXII, 13 e liallate CXXXVIII, 12.

     divizia XL, 6; LXXXIV, 7 e dovizia LXXXV, 7; »nimico XXIII, 7; nimici CXX, 2 e nemico IX, 9; XI, 3; enemico XVII, 1; opinione XCIII, 9 e upinione XLI, 10; oppinione IV, 11 e oppenione II, 13; CX, 1.

     bicchiere XXXVI, 13 e becchier XVIII, 8.

     offesa XIV, 12 e affende CXXXVII, 6.

     giocato CXVI, 14 e giucar CXV, 8; oblio IV, 4 e ubblio XLVII, 8 (ubria XIII, 8 senese, in rima).

     usura XXXIX, 4; usurare LXVII, 3 e osorrier XCV, 6.

     La lezione del ms. (Chig. L. VIII. 305) è losoccieri che il M. emenda in l’osorrier. Altri esempi di o in luogo di u abbiamo in vitoperato CXIV, 9; CXXII, 8; notrite LXXIII, 5; ma viceversa giucarCXV, 8; tributato LXIV, 6.

     Gaudente LIV, 13; XCV, 8 e Godente XCIII, 14; taupino XCIX, 5 e tapino LXXXIX, 5.

     Frequente come il condizionale in –arei troviamo il futuro in –arò: lassare XXVI, 11; provarò IX, 14; fregiarò

     CXXIV, 14; ma anche qui accanto a lassare, lascerò XLIV, 10; averò, metterò, ecc. ecc.

     Da notare la dittongazione dell’e protonica in ritorniere CXXIII, 4; contiene XCIX, 4 e poi indicierebbe XXX, 8; conciedetti XXXIII, 3; ciecierbita CXI, 2; incenerato LXV, 4, ma poi engenerato LXXX, 3.

     Parimenti qui non tengo conto di giogante XXIX, 5; accetto (eccetto) XXII, 14; domonio XCII, 8; ndivino (indovino) CXIII, 5; ccentura XCIX, 2; cinquicento XLI, 4; curata LVI, 5, che non trovano altro riscontro nel testo. Come vitoperato citato più su, due volte però si trova nel testo mistiere XXXVI, 9; CXXX, 13, e più volte pregione LI, 14; CXIII, 11; LXXVII, 3.

      2. Postoniche:

     Abbiamo notato gl’infiniti in ’are in luogo di ’ere: tòllare, vìvare, èssare, maladiciarmi, crèdarmi, diciar, condùciarmi, dispònare, accanto a tollere, vivere, essere, maladicere, credere, dicer ecc.

     Noteremo anche qui nascier XLIV, 13, ma poi nasce XXXVIII, 2; escie CXVII, 8, ma poiesce CVT, 1; crescier LXXIV, 5; Pescie (Nicola Pescie) CXXIII, 14; angoscie X, 3, ma poi fasce LXXX, 5. Accanto a strugge VI, 5 strugie X, 12.

     come XLVII, 1 ecc. e como XXVIII, 2; anzi nello stesso sonetto:

como di lei servir molto mi cale X, 11

come ne l’acqua bollita fa ’l sale X, 13

     ogni XLV, 8 ecc. e ogne XXXVI, 1 ecc.

     due XLIII, 3; XLIV, 11 e duo XXI, 2.

     giugiale CVIII, 1; pianeto XXIV, 8; zucar CXXTV, 4; letta (letti) LXXVII, 11 si trovano una volta sola nel testo. Troviamo invece sempre diece per dieci, a dimostrare con altri esempi la tendenza all’e finale. V. anche gliele (per glielo) nel son. XXIII:

ell’ avrà ’l capo fesso –

chi gliele fenderà?

CONSONANTI

     ll ora rimane, ora si ammollisce in gì: travallato CXXXVI, 3; etti XVIII, 3 ecc. ecc., ed egli XI, 2, ecc. ecc.; tollar VIII, 2 accanto a toliar XCIX, 7; tollendol VIII, 4; tolle CXXXV, 6; dàll (dagli) XCVII, 6; digli XCVIII, 11; diverralli CXXXIV, 12; degli XXI, 3; quegli XCV,7.

     Esempi frequentissimi di degradazione di dentale sorda in sonora: servidore XXVIII, 3; accorridore VIII, 5; armadura LXXIII, 3; nodrìte ibid. 5; inperadore VII, 11 ecc.; ma poi mperator LXXXVI, 7; pietade XI, 4; naturallade CVIII, 9; bellade, bontade, ibid. 11 e 13; ma poi umilitate II, 10; liallate CXXXVIII, 12.

     Labiale sorda e sonora in V: savere XVII, 5; savesse XXVII, 6; ma poi sapesse XI, 2; fevraio CVIII, 2; all’incontro boce XLVIII, 14.

     c palatale in z: merzé XXVI, 2, 10 ecc.; accanto a mercè XXXIV, 2, 11, ecc.; perzar LXXIX, 1; dolzi CVII, 4 accanto a dolce VIII, 14; dolci CXI, 3; poi Greza CXXX, 7 in rima con Veneza, screza, e speza. [39] s per z: caresse CXXXVIII, 1; richesse ibid. 7 (lucchese).

 [39]  Neanche qui il M. s’è fatta abilità di mutare Veneza in Venezia, screza in screzia e speza in spezia. E sì che nel son. CXXVII troviamo in rima, con mescianza e sanza, Trancia ciancia.

     sc in ss: lassar CXXIV, 1; lassare XXVI, 11; lassarei LXXX, 6; lassim’ CHI, 14; e poi lasciareXLIV, 6; lasciamo XCIII, 13; lascerò XLIV, 10; lasciato 1,3, ecc.

     ci in sci: basciar V, 11; basciasse XXVIII, 11; basciata XXXIV, 11; ma poi baci XLIX, 11; mentre cascio (cacio) CI, 9.

     Da notare accanto a sagrato XXX, 6, saramento LE, 12.

     5 per z: ans’ XVII, 13 mentre poi sempre anzi VII, 3, 6; XII, 5, ecc. ecc.

     r per l: compressionato XCII, 1, ma poi complessione ibid. 11; afrigiea XCVIII, 8, ma poi afflizione IX, 6; parore CVII, 11 accanto a parole XXVIII, 5, ecc.; grolificato XCVIII, 6; viceversa ingiuliato C, 6.

     n per l e viceversa: maninconia XCVIII, 12, mentre altrove sempre malinconia; venen CXXIII, 7 (lat.).

     n davanti a l:, in l: nol le (non le) I, 5; IV, 7; XIII, 9; il le’ (in le’) V, 3; nol lo (non lo) XVI, 14; col le (con le) XXX, 9; nol la (non la) XLVII, 1; il lui (in lui) XCV, 10, 14; CVII, 12; CXVI, 9; 7 ’l luogo (in luogo) LXI, 4; 7 loco CXXIII, 11; bel lo (ben lo) XLVII, 1; LXXVII, 10; ma poi: ben li XII, 14; ’n l’amor LIV, 6; non la XXXVI, 5; vien la LXV, 9; non lesse LXII, 10.

     Notare che nel son. XCV il M. appositamente emenda la lezione del ms. (Chig. L. VIII. 305)in llui fondare in il lui fondare. E allora?

     qui que–: abbiamo veduto che il M. registra come forme proprie del senese chi (qui), chel, chelle, cheste, costione, e che vi lascia accanto le corrispondenti letterarie qui, quel, quella, queste, ecc. Noteremo ora qui, accanto a quela LXI 14; quelo CHI, 14; unque XLVIII, 4;qualunque XIX, 8 ecc.; dunque XXXIV, 7, ecc. le forme dunqua XLII, 9; XLIII, 12 e chiunca LXXXI, 14. In Folgore da S. Gemignano troviamo qualunche XXII, 7, ed. Navone.

     –ario–: ora in –aro ora in –aio: mercennaro LXXH, 2 e marcennaio CXXX3, 1; denaro, danaro e danaio, denaio; gennaio, fevraio e necessaro LXXII, 2; contraro LXXXH, 4, ecc.

     de–: destrutto XXXVIII, 8 accanto a distrutto IV, 1; delicata LXVI, 11 accanto a dilicato XXXIII, 12.

     re–: retornar XXTV, 13 accanto a ritornare XCII, 1; recisa LXXXI, 8 accanto a ridde LXXVII, 1; rescossa LXXXI, 3.

     in–: engenerato LXXX, 3 accanto a ingienerato LXV, 4; entervien LXV, 12, poi sempre in. Da notare intrasse XCV, 10; intrantee XLIX, 13, accanto a entrare CXVIII, 7.

ARTICOLI

     il I,13 ecc. ecc.; ir (segue re) V, 6; el IX, 7 ecc. ecc.; lo I,11 ecc.; CXX, 2; e XCIII, 11, ecc.; li V, 11; gli LXVI, 12 (e al v. 14 anzi gli volli, stonatura tanto più notevole, in quanto che in tutto il testo troviamo in prevalenza li per gli).

PRONOMI

     i’ I, 2 ecc. ecc.; io II, 2 ecc. ecc.; eo VI, 2, 10, 11 ecc.; e’ LUI, 10; egli VE, 1 ecc.; e///XVIII, 3 ecc.; e’ VII, 14 ecc.; gli (= a lui) II, 11 ecc. e li VII, 14 ecc.; li (= a lei, le) X, 4 ecc.; e poi le IV, 7 ecc.; li (= glie) XII, 14; XCVI, 9; ma gliele XXIII, 6; i (= glie) XI, 5; i (= gli) XXXVII, 8 ecc.; quegli XCV, 7 e quelli CVII, 10; chel XXXV, 12; chella CVI, 10; cheste CXXXII, 12; lei IV, 12 ecc.; le’XLVII, 7 ecc.; lie’ XLVII, 11 ecc.; mi VII, 14 ecc. ecc., e me (= mi) VII, 14 ecc.; nello stesso son. LXXXIV mi tene e me franga, me dice, me spiace; mi ne XLIV, 9 ecc. ecc., accanto a me ne XIII, 3 ecc. ecc.; ve CXVII, 14 poi sempre vi; si XVIII, 2,3 ecc. e se CXXXVI, 7 ecc.; dilettare IV, 3; ogni XLV, 8, ecc. e ogne XXXVI, 1, ecc.; qualunque XIX, 8 ecc., e chiunca LXXXI, 14.

     meo XXVIII, 3 ecc.; mio XXXI, 4 ecc.; me’ XIII, 8 ecc.; mi’ XIV, 5 ecc.; mie X, 7; XI, 7; miei XIX, 8 e mei XI, 11; mia IX, 5 ecc. e mie’ XLIII, 9; ta’ II, 1, ecc. e tuo II, 3, 7,14; tao’ (= tua, ’n tuo’ presenza) CXXX, 12; tuo’ (= tue; tuo’ parole) XXVII, 5, ma poi tue CXXII, 1 ecc.; seo CXVII, per suo, ma in rima.

 NOMI

     Poiché preda C, 12 per pietra si trova in rima (altrove, XXXIII, 9, pietra) e per pianeto, come ho detto più su, non si trova altro riscontro nel testo, noterò qui soltanto la sangue XII, 7 accanto a ’l sangue XXI, 12; dia III, 5 e la dia LX, 13 in rima; poi ora die, el dì XX, 2, XXI, 11;la fiore XXXIII, 3 accanto a quel fiore XXXV, 8; chel fiore ibid. 12; del fior XXXVIII, 2.

VERBI

     Nota il Massèra tra le forme più caratteristiche del senese anche quelle del vb. essere so’, sserò, sserebber. Di queste ultime due abbiamo detto altrove. Inutile ripetere che anche la forma so’ si trova continuamente accanto a son. Del resto lo confessa lo stesso M.

     Diciamo di altre forme del vb. essere. Accanto a sia XX, 10 ecc.; sie XXX, 9, ecc., anzi nello stesso son. XXIII, al v. 5 sie, al v. 12 sia. Parimenti nello stesso son. CXXLX troviamo al v. 10sien (= siamo), all’11 siem, al 14 siam:

che spesse volte sien [40] senza tovaglia

sette siem che mangiarli per iscodella

quando non siam ben unti di sevaglia.

 [40] Altri esempi d’uscita in -n in luogo di -m: asciughianci nello stesso son. al v. 13; andian I, 11; eravan CXVI, 3.

     Accanto a sii XXXVI, 6, sie’ (2a pers.) XXVII, 13; XC, 14. Accanto a fosse XIII, 2 ecc., fusse XLIX, 6 ecc.; accanto a fosser LXVII, 11 ecc., fosson XCII, 10. Vox fora accanto a fuora; fur accanto a fuor; furono accanto a fuoron, v. altrove. Accanto a sarebbe XXIV, 9, saria XXXLX, 13, ecc. e seria LXXXVIII, 12; accanto a sarei XLV, 3, seria (la pers.) CXVIII, 4. Una sol volta fo (= fu) XXVIII, 12, poi sempre fu. La la pers. sing. dell’imperf. cong. esce ora in -e ora in –i, e così abbiamo ora i’ fosse LXXXVI, 1,2,3,4,5,7,10,12 ecc., ora i’ fusse LXXXI, 13, ora i’ fossi II, 2; V, 12 ecc., ora i’ fussi CIV, 5; nello stesso son. V:

Ed i’ fossi sicur d’un fiordaliso (12)

e no, ch’i’ fosse dal mondo diviso (14)

     Parimenti abbiamo: s’io avesse IX, 2, ecc. e i’ avessi XCVI, 9; CI, 12; s’io potesse XXVIII, 1,ecc., e poi i’ potessi CIX, 9; s’io devesse IX, 9; i’ toccasse XXIX, 7; i’ ’l’ vedesse XXXI, 2; i’ facesse ibid. 5; i’ pugnasse XLVITI, 3; eo fesse LXXXI, 7; s’io volesse LXXXII, 8; i’ credesse XCI, 1, accanto a s’io prendessi XLVIII, 9; stessi CI, 13 ecc.

     In tre soli sonetti troviamo l’uscita in –i della terza pers. sing. dell’imp. cong.:

che non è cuor che potessi pensare LVII, 5

che quel cotal ci venissi alle mani CIV, 10

noi non crediam che li potessi avere CIX, 9

altrove l’uscita regolarmente in -e.

     Così pure troviamo, per la la pers. del pres. cong.:

Vedete ben s’i’ debbi avere empiezza XCI, 12

accanto a  faccia LX, 6; CVIII, 11; veggia XXIV, 2; oda ibid.:

ch’i’ veggia o cch’i’ oda ricordare

     per la 2a pers.:

non me ne poss’ atar – abiet’ il danno XXIII, 14

sì disse: – Cecco, va, che ssie’ fenduto! XC, 14

ma poi: «che sii ucciso» XXXVI, 6, e ahi XXVI, 6; facci XClV,4; veggi XXXVI,5

     per la terza pers.:

però mi facci Amor ciò che li piace VIII, 9

che così piacci a la mia donna amarmi CXXXIII, 13

ch’e facci altro c’usato si sia CXX, 11

c’aspetto ched e’ muoi a mano a mano LXXXIX, 12

non piatti a dio ch’i’ viva niente XXII, 2

mal grado riabbi Amor c’a lle’ mi diene XI, 14.

     È da notare che troviamo sempre un’a dopo tutti e sei i casi sopra citati; manca forse l’apostrofo: «facci’a», «piacci’a» ecc.? Perché altrove abbiamo: faccia XXV, 10; possa XXXI, 9;agia XXVII, 7; abbia VII, 9; XXXIII, 9.

     Notiamo inoltre queste forme nell’imp. ind.: sole’ LXX, 10; solea CXXI, 4; solia LXXXVII, 2;soleva XVIII, 1; XL, 1; avia CII, 2 e avea LVI, 12; i’ venie XVI, 10; vediemi, dicie’, facien ibid. 2, 3; dicea CXVIII, 7; parea’ XVIII, 4; facea CXXVII, 4; credev’ XXXI, 12; vedea, credea XCIII, 6, 7.

     Nel cond.: avre’ XLV, 3; avari’ LXI, 13; averia LXXXV, 3; avria CXXIII, 6. Parimenti: dare’ I, 6; vorei LXXXIV, 8 e vorrie V, 8; vorrei CVII, 9 e voria LII, 11; ringrazere’ XCI, 3; guardare XXVIII, 7; dire’ XXIX, 12; tornere’ XXXI, 3 e torneri’ LII, 9 e tornare’ LII, 9; potre’ VI, 2, ecc. e poria XV, 5 ecc. piaceria XXXII, 10; serveria LXVI, 6; dovria LXX, 7 e dovrie LXXXVI, 14; farei XXIV, 14 e faria XCV, 11; C, 11 ecc.

     Nel son. LIV al v. 1 debbo (come altrove, XL, 10; XCVI, 12 ecc.) e poi al v. 4  deo.

     Nel son. CXXIX, 3 sacci e poi nel seguente CXXX al v. 3 sappi. Nel son. I al v. 14 sacc’io.

     Nel son. CXVII, 2 vi dea, altrove sempre dia.

     Da notare poteo (potei) XXXV, 11; perio (perii) XVI, 9; ma i’sali’ XXXV, 6.

PREPOSIZIONI E CONGIUNZIONI

     Ora in ora en: da notare nella stessa frase: ritornare in ieri XCII, 1 e retornar enn ieri XXIV,13. Sempre di;  tre sole volte de LXXXVII, 2 e 8; XCI, 6. Che, dipendente da comparativo, in ca X, 4; XXV, 5 ecc.

più ne son fuor che gennai’ del fiorito

più son fornito ca ottobre del mosto.

     Dato il carattere della poesia angiolieresca, il sapore troppo intimo e autobiografico, quasi sempre senza intento veramente e propriamente letterario, il Massèra suppone che Cecco non procurò mai di riunire i suoi sonetti per salvarli da un oblio che non temeva, e per dar loro una maggiore diffusione alla quale non aspirava, e che i sonetti poterono in buon numero sopravvivere e giunger fino a noi per opera di un ristretto circolo di compagni e d’amici ai quali il poeta dovette esser solito partecipare le proprie composizioni. Il Massèra insomma ritiene che un vero e proprio originale dei sonetti angioliereschi forse non si ebbe mai, ma che si ebbero invece alcune raccoltine di essi per opera di quegli amici, desiderosi di conservarli per proprio diletto, raccoltine compilate in varia maniera «o sopra copie di sonetti fornite dal poeta stesso o pure dietro la sua recitazione immediata (ed essere per conseguenza più fedeli al testo originale) o anche scrivendo a memoria – e quindi non senza inevitabili inesattezze e alterazioni – poesie che da breve tempo erano state ascoltate od apprese, ma delle quali, non ostante la grande loro facilità ad essere ritenute, la redazione scritta non rispecchiava più da per tutto la dettatura primitiva e genuina». Ora, si pensi che queste raccolte furono più volte ricopiate e servirono non solo a trascrizioni, ma pure a imitazioni, e che viaggiarono per l’Italia e che si trasformarono in ciascuno dei nuovi passaggi perdendo ogni volta qualche poco delle native sembianze, e che si alterarono linguisticamente giungendo in nuovi domini dialettali: non farà più nessuna meraviglia – conclude il Massèra – la grandissima varietà di forma, di attribuzione, di letture nella quale son giunte a noi le cose dell’ Angiolieri.

     Ebbene? Codeste ipotesi, che il signor Massèra crede che gli possano di servir di scusa, non gli davano invece un obbligo maggiore di esercitar la critica e di non accettar ciecamente tutte queste varietà di forme e di letture? Se Cecco non procurò mai di riunire da sé i suoi sonetti, questo non vuol dire che non li compose lui, in una forma sua, e che debbano valer le forme altrui, che gli fanno dire in tanti modi diversi quel che egli disse certamente in un modo solo, nel suo, ch’era il dialettale senese. E l’aver egli scritto indubbiamente in dialetto, facilitava di molto il compito del Massèra, poiché in tutti i dialetti in genere son di gran lunga minori le allotropie che per tante ragioni si stabiliscono in una lingua.

     Capirei fino a un certo punto, se egli non avesse fatto mai alcuna modificazione; ma, nossignore, egli ritraduce, modifica, adatta dove più dove meno; ne sente insomma egli stesso l’obbligo e la necessità; ma con quale esito già s’è veduto.

     Quando trae qualche sonetto da altri ms. che non siano il Chig. L. VIII. 305, egli s’arrischia a raddoppiare alcune consonanti che il cd. ha scempie: ma non le raddoppia tutte: alcune sì, e alcune no! Così, p. es. nel son. LXVI tratto da R4 raddoppia le scempie dona, bela, pasi, tropo; ma poi muta vezo multi in vegio molti e lascia «inamorato». Nel son. seguente, tratto dal Chig. troviamo «innamorare» e «aggio».

     Ma il cd. Chig. stesso non osserva poi sempre le stesse abitudini ortografiche, ed ecco il Massèra seguirne tranquillamente tutti gli ondeggiamenti. È vero bensì, che non si regola a questo modo lui solo! Nel son. LXVIII, tratto dal Chig., in due versi consecutivi, 8 e 9, troviamo «avrebb’» e «parreb’». Nel son. VI tratto da R4, intanto, da struze fa strugge, e poi, nel son. X, tratto da M2, al v. 12 lascia strugie. Nel son. LXV, tratto da R6, raddoppia le scempie maledise, ela, tuto, ma poi lascia agio, e inamorato; corregge qua «tenpo» in «tempo» e poi altrove lascia «inmollo» LIII, 7, «inpoverito» LVII, 13, «inprometto» XXVII, 14, e accanto a «imperadore», «nperadore»; accanto a «inpicco», «impicchi»; accanto a «enpiezza» XCI, 12, «empiezza» LV, 6; nel son. XCVIII, tratto dal ed. F9, corregge lui «senpiterno» da «sepiterno», e perché con unn invece di un m, quando nei suoi stessi testi innanzi alla p si muta in m la stessa n: «nomperdoni» XCVIII, 4; «im parore» CVIII, 11?

     E che dire di Ciampolino che finanche in uno stesso sonetto, nel CXIV, al v. 1 è scritto Ciampolino e al v. 6 Cianpolin? Ma più comico ancora è il modo com’è trattato il cognome di Dante! Cecco conobbe Dante, anzi il Massèra opina che lo vide e gli parlò a Siena: ebbene, è presumibile ch’egli non sapesse come sonava veramente il cognome di lui? Nei son. CXXIV e CXXVI Dante Alighieri e nel son. CXXV Dante Allaghier! Proprio così.

     Ma per il trattamento delle consonanti, ora doppie ora scempie, si veda lo spoglio seguente:

     1. B: abbia VII, 9; XXXIII, 2, 9 ecc.; abbi XI, 4 ecc.; abbiendo CX, 4; abbiate CXXX, 12, e poiab’  LXXXV, 14; abi XXVI, 6; abiet’ XXIII, 14; ebbi VII, 6; ebb’ LXIII, 3; ebbe LVI, 2 ecc.; ebberXCIII, 11 ed eb’ XXXIII, 5; ebe LXV, 11 ecc.; eber CXIII, 7; potrebbe XI, 6 ecc.; sarebbe XXIV, 9 ecc.; farebbe LII, 7 ecc.; dovrebbe CIV, 2 ecc.; dicierebbe XXX, 8; direbbe XCVI, 14;saprebbe XCII, 10; caprebbe XLIX, 5; avrebbe XIII, 11 ecc.; parrebbe XIII, 12; fornirebbe XC, 6;ismallirebbe XCII, 14; converrebbe XCV, 14; morrebbe XCV, 11; rimarrebbe CXX, 7; e poi: potreb’ VII, 3 ecc.; sareb’ XVIII, 6; direb’ XXLX, 14; avreb’ XCIII, 3; vorebe CX, 5; sentirebe XXXVIII, 12; pareb’ LXVIII, 9; andrebe CXXI, 14; poi: conobbi XXIII, 12; Bibbia XLIX, 6; debbo LIV, 1 ecc.; debb’ XC, 10 ecc.; debbi XCI, 12; nibbio CXXIV, 7; arrabbiando LXI, 4, contro aabarbagliat’ IV, 13; ubidite XIII, 13; abattervi CXII, 2; abandonate CXV, 9; abondanza LXXIII, 9;aboccato LXXVIII, 6; poi: febbre XCV, 8; CI, 6 ecc.; ebbro CXII, 5 e libra XXVII, 1; libreLXXXIV, 2.

     2. C: accorri I, 1 e acorridore VIII, 5; accordare XXIV, 6; accordanza LXVIII, 14 e acordareiXLVIII, 10; uccidere LXXXI, 14; e nello stesso son. XCIV:

se ttu uccidi me, i’ ne guadagno (10)

e se tt’ucid’ il ladro di Salvagno (12)

     Poi: toccar VIII, 6 ecc.; tocc’ XXIII, 8; tocca LIX, 9; toccasse XXIX, 7; soccorso XVI, 9; seccaLVI, 5; secco LXXXIX, 10; disaccar XC, 13; accorto XCVI, 4; racconciare CV, 8; raccomandaCXXV, 2; acciajo XXIX, 2 ecc.; giecchito L, 13 ecc.; piacciati LXIX, 8; accetto XXII, 14;agghiacciato LXX, 5; uccel LXXVI, 2; saccente LXXII, 13; inpicco, ’npiccare, impicchi, npicca, apiccat’, npicchis’, e poi apicarmi LX, 11; acolga XLIV, 6; aconciare LXXXV, 1; acoglienza XC, 13; richesse CXXXVIII, 8 (ma ricco LXXXIX, 11); zucar CXXIV, 4.

     Da notare nel son. CVII, faccendo (= facendo).

     3. D: addolorato XLVIII, 6; reddir LXIX, 11; e adita LX, 8; idio LXXXVII, 4. Da notare fiddiCXXXVIII, 10; ma poi fidare XL, 3; fidere’ CXVI, 9 affida CXVI, 14; fidato CXVI, 10; e soddomiaVIII, 2.

     4. F: sofferrò VIII, 11; soffrire LVIII, 9; sofferire CXXXI, 3; sofferisco ibid. 11 e poi soferto XLVIII, 7; ssofrire LXVIII, 4; affizia LXXXV, 6 e afizia XXVII, 5; afflizione IX, 6 e afrigiea XCVIII, 8; affog’ LXXVI, 10; affogar CXX, 14; affogare CHI, 12 e poi afogone XLV, 9; affare II, 8;affanno LV, 6 ecc.; niffa XXIII, 7; beffe CXXIX, 9; caffettin CXXIV, 4; doffesa e offesa XIV, 10 e 12; affende CXXXVII, 6. Da notare che per il son. CXXVI il Massèra si vale del cd. barb. passato alla Vaticana col n. 3953 e, fra gli emendamenti (per fare scomparire da esso la patina veneta) pone al v. 6 raffreni da refreni.

     5. G: leggiadre XC, 5 e legiadre LXXXVI, 13; strugge VI, 5 e strugie X, 12; maggiore II, 8, ecc. e magior LXXXVII, 10; peggiore, peggiorare, peggiori e piggiore e poi pigiore LII, 4; aggioCII, 12, ecc. e agio LXV, 5; agia XX, 14 ecc.; reggio XL, 9 ecc. e vegio XX, 14 ecc., poi vegg, veggh, veggi, veggia, veggi, veggiono, veggion, veggendo, veggendol; fuggire LI, 14, ecc.;fuggi CXIV, 9, ecc.; fuggire’ CXXXVIII, 4 e fugirei LXXXVI, 10; cheggio XXI, 5 ecc.; aveggioXLIV, 9 ecc.; aleggia LIII, 8; leggeramente LXV, 12; poggiavi CXXXI, 2; foggia CXXXIV, 13 esogiorno LV, 4; aggrada LIII, 14; struggo LXXI, 13 e trag’ (un) LXXXIV, 10.

     6. H: È soppressa d’arbitrio – pare impossibile! – per rammodernar la scrittura, nelle forme del vb. avere e altrove. Curioso questo scrupolo di rammodernamento per la sola lettera h!

     7. L: allora XLII, 13; allor CI, 11; e alora CXXXVI, 9; alor IX, 2; XLVII, 14; CXXXVI, 8;sollazzo IV, 4; sollazzare XLIV, 8; allume CVI, 6; allegrezza XXII, 4; XXXV, 2; candellier CXIII, 2; bellico XXVIII, 8 e aleggia LIII, 8 (alleggia):

c’alcuna cosa m’aleggia ’l dolore.

     8. M: ammendi XVIII, 14 e amenda XXVI, 8; amendato CVI, 14; femminile L, 9; cammino CXXI, 6; asommato LXXI, 11; LXXIV, 4 e poi amazza CXVII, 11; amantinente XXXVIII, 5;amalato LXXII, 10; pajommi LVIII, 2; èmmi LXXI, 5; viemmi, tiemmi, diemmi, soviemmi CXXX, 6,10, 12, 14; dammi III, 5 e poi parrami LXXVIII, 13; arrecom’ CII, 4 (arrecommi); fumo (fummo) CXV, 2.

     9. N: innamorato XXXIII, 10; LXXXIX, 1; ’nnamorato XXI, 14; XXVII, 11 ecc.; ’nnamorai IV, 2; innamorare LXVII, 6 e poi: inamorato XXXIV, 1; XXXVIII, 13, ecc.; rinamorarmi XLVIII, 9;innoiare XV, 4 e inoiarmi XCI, 10; innanzi LIV, 14; innanti CVII, 8 e inanzi LXV, 1; ’nanzi LV, 8; LVII, 1 ecc.; gennaio XXIX, 3; innaturato XCII, 13 e anegherei LXXXVI, 3; vane (vanne) XCVIII, 9; onipotente XXII, 8.

     10. P: aviluppato L, 5; sappia LXII, 1; appello LXXX, 2; approvare XCVI, 10; appariresti CXXII, 11; appogno CXXVIII, 7 e poi apuoia [41] XXII, 3; apicarmi LX, 11; apiccat’ XCVII, 5;apressare L, 3; apoggiarsi CXXXVIII, 11; apo XXVIII, 12; XXXI, 8 ecc. Notare accanto aopinione XCIII, 9 e upinione XLI, 10; oppenione II, 13 ecc.; oppinione IV, 11 ecc.

 [41] Lo stesso M. avverte nel Lessico che il Voc. Mgl. registra appoiare nel senso attivo di «infastidire, recar noia o fastidio», il part. appoiato, il sost. appoio «fastidio, noia» e l’agg.appoioso.

     11. R: cherre’ VI, 10 e cherei XLVIII, 14; rama XIX, 9; XXIII, 11 e w>rà LII, 11; LXXXVII, 4; w>me V, 8; vorresti XXIII, 10; vorria’ XXVI, 8; e voria’ XXIV, 10 ecc. ecc. e vorei LXXXIV, 8;torei XLIX, 10; LXXXVI, 13; corre VI, 14; trarriparmi XIII, 12; trarripare XXXII, 6; arreco LIV, 6;arrotato LVI, 8; verrucolato ibid. 14; arrado LIX, 4; borrato XCI, 7; corredato CVI, 12; arrivar CXXXVII, 6; arreco CXI, 11; corrente XXI, 13; rimarrai CXIII, 3; averria CXXIII, 2; diverralli CXXXIV, 12; parrà LXVIII, 2; parrò ibid. 5; LXXVII, 12; trarrà ibid. 11; morrò XLVI, 11; morrà LXXXIX, 13; morrai CXIII, 14 e moria (= morria) IX, 12; terrò XXXVII, 3 e berò CII, 13; beraiibid. 9; corucciata IX, 1; coruccio ibid. 11; arrestato XXXI, 14; ferro CVIII, ferruzzo CXIX, 1 einferigno XCV, 12; arabbio LXXXIII, 12 e arrabbiando LXI, 4. Da notare sofferrò Vili, 11;comparrai XXVII, 4:

di quel che caramente comparrai

osorrierXCV, 6. (ved. Voc. atone).

     12. S: assicurare II, 4 e asicurarmi XLVIII, 11; asicura XCIX, 7; asommato LXXI, 11; LXXIV, 4; asiso XXXVI, 3; asetto XXI, 4 e attossicato CU, 5; nessuno XLIX, 12; assa’ III, 9 ecc.;’ssessino XCIX, 4; messer XCVIII, 7; massarizia LXXXIV, 6.

     13. T: metterà X, 2; attenni XVI, 8; cottardita LX, 1; attorsa LXI, 7; mattina LXXXVII, 4 ecc.;attossicato CII, 5; burattello CVI, 6; promettile XXV, 11 e vatene (vattene) CXXIV, 9.

     14. V: costantemente scempio: avene, aven, avegna, aveduto, aventura, aveggio, aviluppato, aviso, aviato, sovien, averria, aveder, avenente, aventurato, provedere. Una volta sola troviamo avvia LVII, 8. Nel son. CII, al v. 13 bevi per bevvi.

     15. Z: sollazzo IV, 4; Ramazzando XV, 14; npazzato I, 6; allegrezza XXII, 4; bizzarria XXXII, 7; bozzagro LXXXVIII, 14; sozzo LXX, 9; gavazze LXXVII, 9 e gavazatore VIII, 3; mozarei LXXXVI, 8; vezeggia CXXX, 12; adizza CXXVIII, 7 e poi viza e riza in rima con adizza.

Non tengo conto in questa nota del raddoppiamento delle consonanti a principio delle parole dove più calca la voce: lli, ssi, mmi ecc.; osservo però che il testo del M. non è coerente neppure in questo raddoppiamento. In due sonetti consecutivi, ad esempio (CXX e CXXI), troviamo:

E Pier Faste’ che venne d’oltre mare (3)

Se tutta l’otriaca d’oltre mmare (1)

     Un altro esempio evidentissimo:

che ss’ i’ potesse retornar enn ieri XXTV, 13

F potre’ anzi ritornare in ieri XCII, 1

e un altro, in quei due versi già citati:

ch’ i’ seppi tanto tra dicere affare XXXV, 5

ch’ i’ ò saputo sì diciar e. fare LXXIX, 10.

     Altre osservazioni, più gravi ancora, sarebbero da fare, in fine, a questa edizione critica del signor Massèra. Mi limiterò, per brevità, a notare le seguenti scorrezioni: ditto per detto nel v. 12 del son. CXXXIII: la rima è in –etto; secco per sicco nel v. 13 del son. LXXXIX: la rima è in –icco; fattezza per fattizza nel v. 6 del son. CXXVIII: la rima è in –izza. Il verso 7 del son. XIX:

le pene e tormenti e li sconforti

va emendato senza dubbio in

le pene e li tormenti e li sconforti.

     Nel v. 7 del son. LXXI:

ben m’è ancor rimas’ un podere

manca una sillaba: in luogo dell’elisione rimas’ un va posta una dieresi rimaso un, o bisogna leggere ancora e non ancor. Una sillaba di più ha invece il v. 1 del son. L:

Da Giuda in fuori neuno sciagurato.

     Cecco non fa mai bisillabo neuno:

Neun’ altra speranz’ ò che di morte LI, 9

che neun om che vada ’n su’ duo piei XXI, 2

in neun modo veder i’ non posso XLVII, 2

che sia neun dolor addolorato XLVIII, 6

a nneun modo di farlo morire LVIII, 11

che non à neun sì picciol vicino CXXVII, 10.

     È chiaro dunque che il verso deve leggersi:

Da Giuda in fuor neuno sciagurato

oppure:

Da Giuda in fuori neun sciagurato.

     Finalmente nel son. CXII al v. 8: vi face evidentemente deve esser corretto in vi faccia.Basterà citare le due quartine, per intenderlo:

In tale che d’amor vi pass’ il core

abattervi possiate voi, ser Corso,

e sì vi pregi vie men e’ un vil torso,

e come tosco li siate inn amore,

e facciavi mugghiare a tutte l’ore

del giorno come mugghia bue od orso,

e, come l’ebbro bee a sorso a sorso

il vin, vi face ber foco e martore.

     Povero Cecco! Neanche dagli errori di grammatica ti ha saputo difendere il signor Aldo Frane. Massèra nella supina sua schiavitù a tutti gli spropositi dei menanti.

Introduzione

Indice
I. Arte e scienza
II. Un critico fantastico
III. Illustratori, attori e traduttori
IV. Per uno studio sul verso di Dante
V. Poscritta
VI. Soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa
VII. Per l’ordinanza d’un sindaco
VIII. I sonetti di Cecco Angiolieri
IX. Appendice: Per le ragioni estetiche della parola.

Indice Saggi e Discorsi

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