Arte e scienza – Capitolo 7 – Per l’ordinanza di un Sindaco

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A Roma, dove d’inverno abbiamo il re, e il papa tutto l’anno, dove c’è anche il Parlamento nazionale e il Senato, ma dove tuttavia i forestieri non vengono se non per certe rovine, per certi musei, per certe gallerie, che per loro pare abbiano importanza un tantino più che noi e la nostra vita moderna

Indice Saggi e Discorsi

Arte e scienza - Capitolo 7
Roma, Piazza Navona (1930 circa)

Introduzione

Indice
I. Arte e scienza
II. Un critico fantastico
III. Illustratori, attori e traduttori
IV. Per uno studio sul verso di Dante
V. Poscritta
VI. Soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa
VII. Per l’ordinanza d’un sindaco
VIII. I sonetti di Cecco Angiolieri
IX. Appendice: Per le ragioni estetiche della parola.

VII. Per l’ordinanza di un Sindaco

L’eccellentissimo signor sindaco di Roma si destò un giorno con un soprassalto d’italianità; e, dal Campidoglio, ordinò che le denominazioni e le iscrizioni che si pongono su le mostre, tabelle e vetrine, su le facciate degli edifizi e all’esterno degli alberghi, su gli esercizi pubblici, uffici e negozi d’ogni genere, dovessero d’ora in poi essere scritte nella lingua nazionale.
Voi sbarrate gli occhi e spalancate la bocca, oppressi di stupore; domandate:
«Ma come! Dunque vuol dire che noi siamo italiani?»
Ebbene, sì! Esultate. D’ora in poi, italiani, a Roma almeno nelle insegne delle botteghe.

     A Roma, badate. A Roma, dove d’inverno abbiamo il re, e il papa tutto l’anno, dove c’è anche il Parlamento nazionale e il Senato, ma dove tuttavia i forestieri non vengono se non per certe rovine, per certi musei, per certe gallerie, che per loro pare abbiano importanza un tantino più che noi e la nostra vita moderna; a Roma, che in fondo non vive d’altro che di questa così detta industria dei forestieri, per cui è divenuta tutta quanta un albergo; a Roma il sindaco ha avuto il coraggio di fare una così solenne affermazione d’italianità.
E la tolleranza?
Io finora, per non farmi lapidare, m’ero contentato di ripetere soltanto a me stesso, in tacitu sinu, che è stata una delle nostre maggiori vigliaccherie l’avere innalzato a dignità di virtù civile la tolleranza, cioè la mancanza d’ogni fede operosa, d’ogni rispetto per noi stessi e per tutto ciò che doveva formare il nostro orgoglio d’uomini pensanti e volenti; la tolleranza, cioè l’inerzia scettica, la noncuranza più egoistica dell’altrui salute morale, e via dicendo.
«Rispettate la mia opinione, com’io rispetto la vostra.»
Sì! Come se poi si sapesse fin dove può arrivare l’opinione degli altri… Perché la tolleranza non potrebbe esistere se non ci fosse il suo contrario, come non esisterebbe il bianco se non ci fosse il nero.

E tolleranti, di fatti, non siamo stati fin qui, solamente noi, gente virtuosa e civile, gentuccia bianca, di fronte al nero dell’intolleranza altrui?
Ma lasciamo andare. Ora che il sindaco di Roma, almeno per un verso, ha appioppato un calcio così bene scolpito a questa virtù, sfondando le vetrine, gli sporti e le insegne delle botteghe con le iscrizioni francesi, tedesche o inglesi, io posso gridar forte il sentimento mio.
Certe tolleranze, a Roma – capitale, finora, non tanto d’Italia, quanto della tolleranza – cominciano a non esser più tollerate.
Voi, signori bottegai, potete sì seguitare a vendere, come e quanto vi piaccia, merce francese, inglese, tedesca, americana, turca se volete o che so io, e a consigliare ai vostri clienti di guardarsi bene da tutti i prodotti dell’industria e dell’ingegno nazionale, e di accettare invece a occhi chiusi le marche di fabbrica estere per ogni genere di mercanzia, dalla tintura dei capelli al cerotto per le scarpe; e tu, libraio, il libro francese che «vient de paraître» e l’odio per il libro italiano; e tu, sarto, che sogghigni sotto sotto e mi commiseri se vengo ad ordinarti una marsina e non un frack, un soprabito e non un pardessus, un vestiario completo e non un tout–de–même, tu seguita pure a vendere e a consigliare il panno inglese e la seta di Lione e l’ultimo figurino di Parigi; ma le insegne, vivaddio, no, le insegne delle vostre botteghe siano scritte d’ora in poi in lingua italiana!
Che trionfo! Siamo a Roma per nulla? per nulla ne la Capitale d’Italia? D’ora in poi, vogliamo vedere rispettata, tenuta in onore, là, bene in vista, la lingua nazionale.

     Traducete pure, se volete, signori bottegai, magari in ottentotto, le iscrizioni e le denominazioni (poiché l’ordinanza del sindaco ve ne dà licenza), ma giù, sotto all’italiana e in lettere più piccole e meno appariscenti. Non tollereremo più che non si trovi in tutta Roma, neanche a pagarlo un occhio della testa, un barbiere, per esempio, una modesta barbieria. Tutti Salons, tutti, finanche il più misero stambugio!
Fra tanta esultanza un solo pensiero mi affligge: che il buon Giuseppe Rigutini sia morto. Ahi Dio! Chi sa qual gioia avrebbe provato questo valentuomo per la nuova e memoranda ordinanza del sindaco di Roma!
Con quali lagrime nella voce egli narrava d’aver scoperto un giorno in una via remota di Firenze una botteguccia nella quale si fabbricavano e si vendevano quelle tali cornici che comunemente si sogliono chiamare passe–par–tout. Ebbene, quella botteguccia, tenuta da un buon vecchiotto d’antico stampo, il quale si ebbe la riconoscenza e l’ammirazione del Rigutini, finché visse, e accolse in quel giorno nell’amplesso fraterno le lagrime di lui, lagrime di commozione; quella botteguccia, dico, recava in italiano (pare impossibile!) il cartellino della merce.
Diceva così:

FABBRICA DI SOPRAFFONDI

     Ora come faranno, domando io, i bottegai di Roma a tradurre nella lingua nazionale le insegne e le mostre delle loro botteghe? Chi dirà loro che il passe–par–tout in italiano si chiama sopraffondo?
Il Municipio di Roma dovrebbe al più presto istituire una Commissione permanente, di puri linguisti. Non può farne a meno! Una Commissione che possa rispondere con autorità a tutte le domande dei bottegai, dei mercanti, dei professionisti d’ogni genere e qualità, che tengono un pubblico e privato ufficio, s’impone. Ma io non vorrei farne parte. Chi sa in quali imbarazzi si troverà, a contentare tanta gente già sdegnata e messa in allarme dalla famosa ordinanza sindacale!
Chi vorrà accettare la correzione, la traduzione, la proposta? Parrà a tutti, senza dubbio, che la parola italiana non corrisponda alla merce o alla derrata in vendita, alla professione esercitata; o che la avvilisca. Sicuro! Perché molti credono che il loro commercio o il loro ufficio sia nobilitato o acquisti maggior considerazione e maggiore importanza col denominarlo in francese o in inglese. Andate a chiamar «benzina», come l’ho sentito chiamare io una volta, con termine appropriatissimo, uno chauffeur.
Conosco intanto un negoziante, in via Nazionale, che s’è messo in regola con l’ordinanza del sindaco, senza bisogno della Commissione. Egli ha voltato da sé, senza stento, l’iscrizione della mostra nella lingua nazionale, così:

 BIGIOTTERIA

     Son sicuro che la maggior parte dei negozianti di Roma lo imiteranno. E, in questo caso, buon per noi che la lingua francese in Italia sia conosciuta molto meglio della nostra! Correremmo il rischio, altrimenti, di non capir più, domani, che cosa si venda nelle botteghe con l’insegna tradotta in lingua nazionale.
Consiglio infine a un certo camiciaio di mia conoscenza, che ha bottega sul corso Umberto I, poco più giù di piazza S. Carlo, di non ritoccare affatto, di lasciare tal quale la sua insegna francese, che è un vero monumento nazionale.
L’insegna dice così:

CHEMISERIE

      Si può leggere in francese, e si può leggere anche benissimo in italiano, staccando un pochettino la prima sillaba, senza alterar di molto il senso.
Dico, almeno, il senso della sua e della nostra italianità.

CHE MISERIE

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II. Un critico fantastico
III. Illustratori, attori e traduttori
IV. Per uno studio sul verso di Dante
V. Poscritta
VI. Soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa
VII. Per l’ordinanza d’un sindaco
VIII. I sonetti di Cecco Angiolieri
IX. Appendice: Per le ragioni estetiche della parola.

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