Arte e scienza – Capitolo 5 – Poscritta

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Pubblicata su La Vita Letteraria (anno IV, N. 42) in risposta a una nota di F. Garlanda su la rivista Minerva (anno XVII, N. 50), contro il mio studio precedente, apparso su la Nuova Antologia (1 Nov. 1907).

Indice Saggi e Discorsi

Arte e scienza - Capitolo 5
José Roldan Martinez. Ritratto dell’ammiraglio Cristoforo Colombo

Introduzione

Indice
I. Arte e scienza
II. Un critico fantastico
III. Illustratori, attori e traduttori
IV. Per uno studio sul verso di Dante
V. Poscritta
VI. Soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa
VII. Per l’ordinanza d’un sindaco
VIII. I sonetti di Cecco Angiolieri
IX. Appendice: Per le ragioni estetiche della parola.

V. Poscritta

     È noto ormai lippis et tonsoribus che il signor Federico Garlanda, per lo studio sul verso di Dante or ora preso in esame, fu paragonato a Cristoforo Colombo.
Il paragone sembrò a molti in prima alquanto esagerato. Se questi molti però avessero riflettuto che, in fondo, se Cristoforo Colombo scoprì l’America, Federico Garlanda ha senza dubbio molto dell’americano e specialmente del dantista americano, avrebbero potuto, almeno sotto questo aspetto, giustificare il paragone.
Ma il guaio è che egli non considera il paragone sotto questo aspetto. E su la povera caravella sconquassata di questo suo opuscoletto sul verso di Dante, alla quale ha alzato per vele tutti quei giornali che con amenissima ignoranza han parlato della sua scoperta, si crede ormai Cristoforo Colombo per davvero.
Naturalmente, fa ridere.

         Quand’egli lesse all’Università di Roma (di cui è professore ordinario, per effettivi meriti e non per ministeriali benevolenze) questo suo opuscoletto, mi invitò ad assistere alla lettura. Rimasi vivo, e non se ne parli più. Quando poi lo mandò a stampa per mezzo della sua benemerita Società Editrice Laziale, me lo inviò in omaggio con un bigliettino d’accompagnamento molto cortese. Ma ecco: non lo avevano ancora paragonato a Cristoforo Colombo, ed egli aveva per me, che pure non sono stato mai americano, e per i miei lavori, che non hanno mai scoperto alcuna America, riguardo e considerazione.
In grazia appunto di questo riguardo e di questa considerazione, e anche in memoria dell’assidua collaborazione da me prestata parecchi anni or sono a una sua Rassegna Settimanale, volli degnare d’un articolo su la Nuova Antologia il suo opuscoletto, cui nessuno, che non sia come lui un orecchiante di metrica, poteva in buona fede prender sul serio. Dico in buona fede, perché purtroppo alcuni, che non sono punto orecchianti, si lasciano andare – o per soverchia cortesia o per altro – a calorosi ringraziamenti, a iperboliche congratulazioni e finanche a lodi smaccate verso ogni scrittorucolo che mandi loro in omaggio qualche sua escrezioncella.

     Il paragone con Cristoforo Colombo è scappato di qui, di una di queste congratulazioni che naturalmente il signor Garlanda, da bravo dantista americano, si affrettò a strombazzare ai quattro venti.
Io dunque per buon cuore ebbi il torto di occuparmi di lui benevolmente su la Nuova Antologia, di lodarlo, e anche ampiamente, non foss’altro, per la fatica materiale d’aver messo insieme una così gran copia d’esempii a dimostrare qualche ragione dell’efficacia possente del verso dantesco.
Certo, non potevo accettare la stolida assurdità della sua tesi, e con garbo e con pazienza piena di compassione per la sua deplorevole ignoranza sia di storia, sia di metrica, sia d’ogni procedimento dell’attività creatrice dello spirito, cercai di spiegargliene le ragioni.
Non volli tener conto di tutti gli strafalcioni di cui sono infarcite le 79 paginette dell’opuscolo, come ad esempio che Dante avesse la mente tutta impregnata dell’antica coltura e avesse nell’orecchio l’eco insistente, non riducibile al silenzio, dei metri latini! A tener conto di siffatte corbellerie, avrei dovuto abbandonar senz’altro l’opuscolo alla discussione dei barbieri. Ma dal rilevarne certe altre non potei esimermi.
Apriti cielo! A un Cristoforo Colombo un tale affronto?

E su la Minerva, dopo circa un mese di profonda elucubrazione, il signor Federico Garlanda, professore ordinario di Filologia inglese all’Università di Roma per effettivi meriti e non per ministeriali benevolenze, mi rovesciò addosso quattro colonne di prosetta biliosetta e sconclusionata, composta – per non occuparsi a lungo di me – in piccolissimo carattere.
Non parlerò delle scipite e meschine malignità, con le quali credette di dare una certa vispezza d’orso che balla a quella sua prosuccia discretamente sgangherata. Gliele lascio per consolazione di tutte le bestialità che dice, che ha detto e che senza dubbio seguiterà a dire finché il naso gli fumica. E vengo alle accuse.
Il signor Garlanda dunque mi accusa innanzitutto di poca probità letteraria perché io non diedi ai lettori della Nuova Antologia un’idea dei fatti da lui messi in luce.
Oh santo cielo! E se io di proposito, per compassione di lui, dopo che tanti e tanti giornali avevano bandito all’orbe terraqueo la sua cristoforo–colombaggine, non ero voluto entrar nel merito di essa, perché altrimenti avrei dovuto dire che finanche nel dizionario del Tommaseo un pover’uomo, ignaro del significato della parola allitterazione, avrebbe trovato queste testuali parole: «Può l’allitterazione essere uno scontro casuale come in Dante Alighieri?»

     Non faccio citazioni! Dio me ne guardi! Parlo soltanto del dizionario del Tommaseo! Quando la nozione di questa famosa allitterazione dantesca si trova finanche in un dizionario, si può sostenere sul serio che l’abbia scoperta il signor Federico Garlanda?
Dunque, per buon cuore, non ne parlai. Per buon cuore parlai invece dell’allitterazione nel periodo classico della letteratura latina, di cui egli mostrava di non avere neanche il più lontano sentore, e in cui mi pareva che l’ingrato Cristoforo avrebbe potuto trovare qualche sostegno alla sua tesi, lui che credeva Dante tutto impregnato dell’antica coltura! Gli volli far notare insomma che questo elemento dell’allitterazione «che ha tanta importanza – com’egli dice – non solo nella poesia inglese, ma in tutta la poesia primitiva e popolare», la aveva anche nella non primitiva e nella non popolare. Ma andate a cercar la gratitudine nei dantisti americani!

Andiamo avanti. «Il nostro critico – (che sarei io) – riconosce, bontà sua – seguita il signor Garlanda – che sono innegabilmente numerose nella Divina Commedia le allitterazioni e suballitterazioni e sinfonie, pur guardandosi bene dall’osservare che fui io il primo a metterle in luce, (e due! vedi Dizionario del Tommaseo, Vol. 1, lett. A, pag. 332, colonna 3a. Ci vuole un bel coraggio, perdio!) – e che per due ordini di questi fatti perfino la denominazione è cosa mia». Ebbene, nel mio articolo sta scritto: «le numerose allitterazioni e suballitterazioni e quellech’egli chiama sinfonie». Come non l’ho detto? Ma figuriamoci se volevo prendermi la paternità di uno sproposito cosí madornale!
Io dissi che questi elementi non potevano essere deliberatamente voluti e cercati dal poeta e che tuttavia non dovevano esser considerati come casuali. Orbene, al signor Garlanda, che per la poesia dev’esser sordo come una talpa e non sa che certi suoni possono veramente non venire a caso, ma per una intima legge musicale di cui il poeta nell’atto del comporre non si rende conto, perché a questa legge obbedisce inconsciamente, sembra un indovinello, e crede di far dello spirito commentando: «Sarebbe come domandare: Volete sul serio che Dante si sia messo di proposito a cercar le tali e tali rime in ita o ura o ata ecc. per comporre un dato canto? E sí che la rima non è un elemento meno artificiale dell’allitterazione!» Ah sí? Elemento artificiale, la rima? Per chi? Per lui, per il signor Garlanda, che forse conta le sillabe sul naso e va a cercar le rime nei rimarii! «Chi pone la questione in questi termini fa vedere troppo chiaramente quanta sia la sua competenza in materia e la straordinaria finezza del suo raziocinio». Queste parole il signor Garlanda le rivolge a me.

Naturalmente, uno che crede in un vero poeta deliberatamente voluta e cercata l’allitterazione ed elemento artificiale la rima, deve credere altresí che un verso si possa comporre come un musaico. Ma che lo creda e lo affermi lui, padronissimo! che poi lo faccia dire anche a Dante, eh no, perbacco!
E non feci mica notare a lui, dantista e professore ordinario all’Università di Roma per effettivi meriti e non per ministeriali benevolenze, che scriveva Convito invece di Convivio e De vulgari eloquio invece di De Vulgari Eloquentia. Gli feci notare semplicemente e senza la pretesa di dir cosa nuova (le dice lui, le cose nuove!) che in Dante «cosa per legame musaico armonizzata» non vuol già dire, come il signor Garlanda crede, cosa composta a guisa di musaico, ma cosa musicalmente armonizzata: musaico da Musa. Il signor Garlanda dice che lo sapeva! E dice che non ostante l’opinione di tutte le migliori autorità, mantiene la sua opinione. Coraggioso, il signor Garlanda. Sapete perché mantiene la sua opinione? Perché «se fosse vera la interpretazione comune, tramandata dall’uno all’altro senza che mai fosse assoggettata a un severo esame, si metterebbe in bocca a Dante un ragionamento di questo genere: non si può tradurre d’una in altra lingua alcuna poesia, perché… non si può tradurre d’una in altra lingua alcuna cosa scritta in poesia!» Si può essere, diciamo… più sordo di così?
Dante vuole affermare l’impossibilità delle traduzioni, segnatamente dei componimenti poetici, e dice appunto che non si può tradurre d’una in altra lingua alcuna poesia, non perché – come gli vorrebbe far dire il Garlanda – non si può tradurre d’una in altra lingua alcuna cosa scritta in poesia, ma perché, essendo la poesia cosa musicalmente armonizzata, non si potrebbe trasmutare d’una in altra loquela sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia.

Così ragiona Dante, e questo modo di ragionare dantesco non può naturalmente entrare nelle vedute estetico–musaiche garlandesche! E purtroppo i Garlanda sono legione!
Confesso che, dopo questo, non mi sento più di rilevare tutti gli altri spropositi che egli mi vorrebbe far dire, citando con perfidia a metà i miei argomenti e le mie conclusioni.
Su la natura del ritmo e su le ragioni della quantità (a proposito del sentimento di questa quantità, ch’egli dagli antichi a noi credeva modificato) volli – per dare al mio studio una certa importanza, visto che dalla scoperta del signor Garlanda non ne poteva avere – volli agitare una delle più ardue questioni che tengano tuttora diviso il campo degli studii metrici. Il signor Garlanda, ignorante come un pollo d’India, non ci ha capito nulla. Volli spiegargli come l’ipertesi avvenga costantemente, per la legge dell’appoggiatura della voce, nelle dipodie giambiche, ogni qual volta si attenui la prima tesi, e lui crede che questa legge l’abbia scoperta io, e conclude: «Egregio Pirandello, condoglianze sincere!»
Condoglianze, sì: me le merito davvero; ma per aver discusso con voi, egregio Garlanda!
Giuro che non lo farò più.

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IV. Per uno studio sul verso di Dante
V. Poscritta
VI. Soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa
VII. Per l’ordinanza d’un sindaco
VIII. I sonetti di Cecco Angiolieri
IX. Appendice: Per le ragioni estetiche della parola.

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