Arte e scienza – Capitolo 4 – Per uno studio sul verso di Dante

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In Dante, inversioni e trasposizioni sono rarissime; il verso balza dall’energia spontanea della lingua e della pronunzia popolare, dritto e schietto sempre, come una spada.

Indice Saggi e Discorsi

Arte e scienza - Capitolo 4
Dante Alighieri (1265-1321)

Introduzione

Indice
I. Arte e scienza
II. Un critico fantastico
III. Illustratori, attori e traduttori
IV. Per uno studio sul verso di Dante
V. Poscritta
VI. Soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa
VII. Per l’ordinanza d’un sindaco
VIII. I sonetti di Cecco Angiolieri
IX. Appendice: Per le ragioni estetiche della parola.

IV. Per uno studio sul verso di Dante

     Federico Garlanda, studiando alcuni elementi della metrica shakespeariana, fu condotto, com’egli dice, «non per alcuna connessione storica, ma per naturale affinità di argomento, a volgere l’occhio alla metrica dantesca». Allo studio del verso shakespeariano egli era già venuto, per natural trapasso, dallo studio dell’antica metrica inglese, che ha per base fondamentale l’allitterazione.

     Il Garlanda mostra di credere che questa allitterazione sia elemento esclusivamente primitivo, che s’incontri cioè soltanto nelle più antiche poesie, così presso i Semiti come presso gli Ariani, presso i Latini come presso i Celti, e nei canti popolari. Ora sta di fatto che essa si trova largamente usata anche nell’antichità classica e greca e latina. Si obbiettò, è vero, che nei versi greci e latini, letti non secondo gli accenti della parola ma secondo gl’ictus ritmici, cioè come appunto li dovevano recitare gli antichi, questa allitterazione, assonanza o consonanza, spariva spesso. Ma a questa obbiezione, in parte vera, si rispose che Greci e Latini, pur declamando i versi secondo gli accenti ritmici, non dovevano rinunciare in pari tempo agli accenti delle parole, sì che esse conservavano il loro speciale accento più vivo che non sia per noi quando ci facciamo a recitar quei versi secondo i tempi forti; e che, d’altra parte, se questa obbiezione mirava a distruggere moltissime allitterazioni e assonanze e anche rime pure, in moltissimi casi, al contrario, tendeva a renderle più sensibili, perché l’accentuazione ritmica le faceva anzi spiccar meglio. Né ormai può più sussistere il dubbio, che tanto i Greci quanto i Romani non le adoperassero ad arte, cioè con piena coscienza, così nei versi come nella prosa. Retori e grammatici ne formularono teoreticamente le norme più precise. Quinto Cornificio nella sua retorica, le chiamò – com’è noto – lumina, e anzi raccomandò agli scrittori d’usarle con parsimonia [8].

 [8]  As C. Herennium, IV, 22, 32. Perché, osserva: «Eiusmodi studia ad delectationem quam ad veritatem videntur accomodatiora».

     Piuttosto, da quel che ne dicono anche Cicerone e Quintiliano, appare evidente che questi lumina nel periodo classico debbano essere considerati come elemento affatto retorico e non ritmico, destinato insomma a carezzar l’orecchio e a mettere in miglior luce un pensiero, si per somiglianza sí per antitesi, o anche a rendere una qualche armonia imitativa. I grammatici posteriori, invece, prendono di mano in mano a considerarli sempre più come elementi ritmici e a sentirne solo il valore musicale.
Ho voluto notar questo, perché mi sembra che il Garlanda – il quale pensa che Dante avesse «la mente tutta impregnata dell’antica coltura» e avesse «nell’orecchio, sia pure inconsciamente, l’eco insistente, non riducibile al silenzio, dei metri latini» – avrebbe potuto cavarne un forte sostegno alla sua tesi, che cioè le numerose allitterazioni e suballitterazioni e quelle ch’egli chiama sinfonie (ripetizione della stessa vocale negli accenti metrici), che si trovano in Dante, siano deliberatamente volute e cercate dal poeta e non combinazioni inconsce e casuali.

     L’ho però notato contro di me. M’affretto a dire, infatti, ch’io son contrario alla tesi del Garlanda, quantunque creda con lui che tutte quelle innegabili numerose allitterazioni e suballitterazioni e sinfonie non siano casuali.
Casuali, no; ma deliberatamente volute e cercate, neppure.
Credo così per tante ragioni. E principalissima questa: che un poeta, per quanto rigido, volontario e presente sempre a se stesso, sistematico, geometrico, ponderato, misurato, come Dante, non potrebbe assolutamente metter su un verso, se con animo deliberato, e non per ischerzo, volesse allitterarlo.
Dico non per ischerzo, perché abbiamo pur troppo nella nostra letteratura, chi nol sa?, tutt’un armento di poeti scioperati (il Leporeo informi) i quali si piacquero di comporre ogni sorta di sciocchi e insulsi bisticci, giocando in tutti i modi coi suoni delle parole e cercando allitterazioni e annominazioni:

Donna da Dio discesa, don divino…. ecc.
Marta, che merta mirto, a morte m’urta…, ecc. [9]

 [9]  Si ricordi il verso latino:

        O Tite, tute, Tati, tibi, tanta, tyranne, tulisti.

     Ora, i poeti latini potevan sì cercare ad arte l’allitterazione, perché i loro versi erano veramente per la maggior parte un congegno industrioso, una studiata combinazione musicale, che scaturiva dall’ordinata serie di lunghe e di brevi in cui le diverse misure di tempo erano distintamente segnate e fatte cogliere all’orecchio dall’ictus ritmico, con sacrificio non solo dell’armonia spontanea e naturale delle parole, ma anche del nesso logico di esse; tant’è vero, che, per intendere il senso di quei versi, abbiamo spesso bisogno di ricostruire sintatticamente le parole, andando a cercarle qua e là nelle inversioni e trasposizioni regolate a seconda del valore prosodico e dell’esigenza del ritmo musicale, soverchiatore.
Ma in Dante, no; in Dante, inversioni e trasposizioni sono rarissime; il verso balza dall’energia spontanea della lingua e della pronunzia popolare, dritto e schietto sempre, come una spada.
Si persuada il Garlanda che un poeta capace di formulare o di applicare una regola qualsiasi nell’atto stesso della creazione, a freddo; che possa attendere, nel fervor dell’estro, a scegliere le parole, con predominio di questa o quella consonante, non è un vero artista; è anzi addirittura inconcepibile. Vuole sul serio che Dante sia andato a cercar di proposito quattro parole con cinque m per metter su il verso:

Similmente il mal seme d’Adamo?

     Gli è venuto fatto così, e, diciamo la verità, gli è venuto fatto male! Se si fosse accorto della troppa allitterazione (pare un verso di Luigi Groto, il Cieco d’Adria), lo avrebbe sicuramente corretto. Tutte quelle m impicciano, invischiano il verso tra le labbra. E chi sa quanti altri ne avrebbe corretti di quelli che il Garlanda cita in prova del deliberato proposito del Poeta!
Con ciò, si badi, non voglio negare l’efficacia dell’allitterazione, che d’altra parte risulta evidentissima dagli esempii recati in sì gran copia dal Garlanda. Nego che il Poeta le abbia coscientemente volute.
Nel De Vulgari Eloquentia Dante parla così minutamente del valore delle parole e le classifica e divide e suddivide secondo il suono, la forma, ecc., con cosí sottile discernimento, e dimostra di voler rendersi conto di tutto con tale industria minuziosa e tanto acume, che certamente, se avesse pensato di far uso cosciente dell’allitterazione, ne avrebbe parlato in modo esplicito. Questo al Garlanda, che pur si vale del De Vulgari Eloquentia, dovrebbe dar da pensare. Egli però, non trovando nulla qui e volendo a ogni costo trovare in Dante stesso qualche accenno in sostegno della sua tesi, ricorre (e non s’accorge del grave abbaglio!) ricorre a quel passo del Convivio, dove Dante, per negar la possibilità di ben tradurre alcuna poesia da una in altra lingua, dice: «E però sappia ciascuno che nulla cosa, per legame musaico armonizzata, si può dalla sua loquela in altra trasmutare, sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia».

Per Dante dunque – argomenta da questo passo il Garlanda – il verso è un musaico armonico; e come nel musaico, cosí nel verso: ogni scheggia di colore in quello, ogni vibrazione di suono in questo, ha la sua propria ragion d’essere, è parte coordinata al tutto; nulla potete togliere o variare o spostare senza rompere tutta la dolcezza e l’armonia dell’insieme.
Ma no, ma no, caro Garlanda! Qui musaico non vale già quel che noi oggi intendiamo comunemente; qui musaico vale semplicemente musicale; e alcuni infatti leggono, non musaico, ma musico. «Cosa per legame musaico armonizzata» vuol dire verso, poesia, «cosa armonizzata per legame musicale»: musaico, da Musa. E lavoro musaico o arte musaica si chiamò difatti la poesia; e in Guido Giudice dalle Colonne si legge: «Furo attratti li suoni musaici et altri suoni di stromenti molto dilettosi». L’opera musiva, i tasselli e le tessere non ci hanno che vedere, qui.

È vero che, a un certo punto (pag. 48), s’affaccia al Garlanda il dubbio: «Che se mai fosse inconscio e casuale l’uso di siffatti elementi, questo è appunto l’ufficio più alto della critica, di scoprire i principii e le leggi cui l’esplicazione dell’opera d’arte va soggetta, e cui obbediscono, sia pure inconsciamente, il poeta e l’artista».
E oggi, infatti, non basta più dare dell’arte un giudizio fondato solamente, o quasi del tutto, su gli effetti che essa produce su la sensibilità relativa, per spiegarci tutte le ragioni della sua efficacia possente. Noi vogliamo che essa non sia giudicata soltanto dal piacere che ci procura ma che assuma anche espressione per l’intelligenza, studiandola col sussidio della critica, che scopre appunto le leggi incluse, la scienza contenuta in essa istintivamente.

      Oh, benone! Ora siamo d’accordo. Si sa che in ogni arte è inclusa una scienza, non riflessa però, ma per cosí dire istintiva, già che l’artista creando, osserva per forza tutte le leggi della vita.

Per quanto libera, per quanto capricciosa, per quanto in apparenza indipendente da ogni regola, l’arte, abbiamo detto altrove [10], ha pur sempre una sua logica, non già immessa e aggiustata da fuori, come un congegno apparecchiato innanzi, ma ingenita, mobile, complessa.

 [10]  Vedi il saggio Arte e scienza.

L’arte, nelle sue opere, riassume insomma tutti i rapporti razionali, tutte le leggi che vivono nell’istinto dell’artista, leggi a cui essa obbedisce senza neppure averne il sospetto.
La logica poetica è il libero movimento della passione co’ suoi impeti e gli abbandoni e i subiti cangiamenti. E di qui la flessibilità d’una frase che si solleva e ricade, si slancia e s’arresta o si spezza o supera l’ostacolo e riprende il suo movimento aggirante. Nella passione, le idee tutte s’avventano, la più forte zampilla, le altre la seguono, secondo le alternative della spinta interiore. E di qui certe scintille che si sprigionano, quasi al cozzo delle parole. Ai movimenti dell’anima rispondono certi movimenti del corpo: il suono della voce si altera, la respirazione diventa affannosa e le parole ora s’arrestano d’un tratto, ora precipitano. E di qui la misura del verso che ritma il sentimento e le modulazioni che rompono la continuità monotona del linguaggio comune.
Opera di critica pregevole, per acume e per diligenza, resta dunque senza dubbio questa del Garlanda, quantunque egli si sia ostinato fino all’ultimo, nonostante il baleno di quel dubbio, a sostenere una tesi per me inammissibile; opera di critica perché mette in chiaro un elemento reale e non casuale, per quanto inconscio, del verso dantesco, elemento che contribuisce a crescergli carattere e a spiegare a noi un’altra ragione della sua efficacia possente.

Né qui s’arresta il Garlanda. Altri elementi caratteristici egli mette in chiaro per spiegare quell’armonia particolare che distingue in modo così sensibile, così spiccato, il verso di Dante da quello di tutti gli altri nostri poeti, elementi finora non emersi per la materialità meccanica della nostra metrica elementare.
Veramente da un pezzo ormai gli studii metrici sono coltivati anche da noi con amore. Il guaio è che il frutto di questi studii non penetra ancora, almeno come dovrebbe, nelle scuole; e i nuovi e sani criterii su la natura del ritmo, per esempio, e su le ragioni della quantità non hanno quella diffusione che dovrebbero avere.
Avremmo voluto che il Garlanda, per legittimar meglio quanto dice intorno alla necessità di ricorrere alla metrica classica, fosse entrato a parlare appunto su questa natura del ritmo e su queste ragioni della quantità con criterii più nuovi e più logico accorgimento.

Sarebbe tempo che si finisse una buona volta di ripetere che gli antichi avevano il senso dei valori prosodici della loro lingua, che cioè distinguevano nella pronunzia delle sillabe, e quindi delle parole, la quantità di voce proferita, o, che vale lo stesso, il tempo speso nel proferirla; che questa quantità lunga o breve delle sillabe era proprietà essenziale delle lingue classiche, era cioè ingenita, o meglio, radicata nella natura di esse lingue e poteva sussistere (come di fatto si faceva sussistere) indipendentemente dall’accento, il quale – si affermava – era una specie di canto, quasi anima vocis, e si limitava a segnar nella pronunzia l’intonazione della voce, il grado di elevazione e di abbassamento di essa, ed era perciò essenzialmente musicale.
Veramente il Garlanda osserva che «pochi sensi presentano, nell’evoluzione della natura umana, cambiamenti così poco radicali come il senso dell’udito». Ma poi anch’egli crede che il senso della quantità si sia man mano modificato. Orbene, non si è modificato niente affatto. Il popolo latino non seppe mai di queste artificiose divisioni di lunghe e di brevi, che furon leggi scolastiche, convenzionali, create unicamente per la conservazione degli antichi schemi musicali greci.

Ormai non bisogna cercare più le forme euritmiche del tempo in queste artificiose divisioni. Il tempo è formato naturalmente dall’alzarsi e dall’abbassarsi del movimento vocale; il che vuol dire che esso si trova già per se stesso nella materia armonica, e che, anche senza un principio formale, per propria virtù, crea la musica nel verso.
Il principio, il senso, che dà anima e vita a questa materia, non è esteriore alla materia stessa, ma interiore, insito in essa; la materia del verso insomma non è assoggettata da un principio esterno, ma questo principio nasce, emana dalla materia stessa.
Quell’idea astratta, che tutti i metrologi antichi e nuovi han voluto farsi del ritmo, bisogna che cada una buona volta dinanzi al fatto.

Che vuol dire, in fondo, la famosa definizione che il tarentino Aristosseno ci diede del ritmo, che esso sia cioè l’ordine dei tempi? Noi sappiamo che all’uomo è preclusa ogni conoscenza che non provenga dai sensi. Noi non possiamo avere un’idea del ritmo, se non ne abbiamo una sensazione. Il ritmo ha perciò bisogno d’una materia per rendersi sensibile, per diventar reale. Senza questa materia esso non può rivelarsi, non esiste. Infatti, se il ritmo è ordine di tempi, bisogna che questi tempi esistano e che della loro disposizione esso possa nascere.
Per spiegarci l’assurdo, in cui i metrologi han voluto cecamente persistere, dobbiamo pensare che nel tempo in cui le antiche teorie del ritmo furono fondate, la musica era ancora legata alla poesia. Il ritmo di cui esse ci parlano era allora effettivamente esterno alla materia parlata: era musicale e dominava in realtà la parola: ordinava le sillabe e imponeva loro le misure di tempo, secondo le sue necessità armoniche. Era dunque vero che il ritmo scaturiva da un ordine di tempi da lui imposto, poiché le diverse misure di tempo erano distintamente segnate e fatte cogliere all’orecchio dal così detto ictus, o percussione musicale. Così finché le tre arti musiche si mantennero unite, la ritmica, cioè l’elemento essenzialmente musicale, prevalse su la metrica pura.

Bisogna pensare che negli antichissimi tempi il discorso «era infinitamente plastico e duttile. Le singole parole, composte dell’aggiomeramento ancor fresco di radici monosillabiche, non erano, come non sono ancora in Omero, rigidamente dominate da un accento ritmico, tonico. Tuttavia nel loro fluire avevano maggior risalto certe sillabe; le tematiche, quelle contenenti un dittongo, o una vocale di suono cupo, tendente per propria natura a collocarsi nelle basi del ritmo, quelle infine in cui una vocale era seguita dall’inciampo di due o più consonanti. Nell’accoppiamento del discorso con le primitive canzoni senza parole, queste sillabe più intense andarono per ovvia simpatia a collocarsi sotto le note più lunghe e più percosse dal ritmo; le altre, che presentavano minor resistenza nel fluire del discorso, sotto le più brevi e meno salienti. Ma nelle più antiche cantilene greche non v’erano che note d’un tempo o di due.

Onde avvenne che si tribuí convenzionalmente una durata musicalmente precisa a quelle due famiglie di sillabe, che precisa per propria natura non ne avevano: e si distinsero le sillabe di un tempo, brevi, e le sillabe di due, lunghe» [11].

 [11] Ettore Romagnoli, La musica greca. – Vedi Nuova Antologia, fasc. del 16 aprile 1905.

     Questo, per la prima poesia greca. Ma se noi consideriamo davvicino l’indole e la naturale inclinazione della lingua latina e studiamo passo passo il processo storico di essa, non siamo forse costretti ad ammettere che, fin da principio, l’accento latino ha non solo qualcosa della natura del tempo forte, ma si potente energia nella parola che ad esso è forza addebitare tanti e tanti afflevolimenti fonici e alterazioni prosodiche e sincopi? Non siamo costretti ad ammettere la scarsissima forza del vocalismo latino, di cui l’accento, secondo la sua inclinazione fa scempio; e che dunque è assurdo l’affermare che un tale accento, al quale non è possibile attribuire soltanto, nella pronunzia, un ufficio musicale, potesse in qualche modo essere vincolato dalla quantità, cioè da questa pretesa proprietà delle vocali, che pur si dimostrano così deboli di fronte ad esso?
Se lasciamo per poco da parte i trattati di prosodia e studiamo le relazioni dell’accento con la pretesa quantità delle sillabe, secondo le leggi prescritte, non dai grammatici, ma dalla natura, non questa dipendenza soltanto dell’accento dalla quantità ci apparrà assurda, del resto, ma tutte le altre regole prosodiche, le quali, se si possono ammettere nel campo della poesia metrica (e vedremo bene il perché), non sono affatto applicabili al linguaggio comune, tranne che non si voglia asserire che il popolo latino cantava e non parlava.

     Si volle obbiettare che, non perché noi ignoriamo come gli antichi potessero sentire e far sentire parlando i valori prosodici della loro lingua indipendentemente dalla posizione dell’accento, perciò solo (cioè per la nostra ignoranza) dobbiamo dire che essi non ne avessero la possibilità: ciò che oggi è impossibile a noi, poteva bene esser loro possibile.
Che valore logico ha codesto modo di ragionare? La possibilità è forse senza limiti? La natura ha per noi una logica intangibile, determinata dalla potenzialità essenziale delle sue forze, la quale rivela a noi i limiti della possibilità. Bisogna negare incrollabilmente qualsiasi asserto che implichi una contradizione con la logica della natura.
Ora, nel caso nostro, questa logica, per citar soltanto le leggi più semplici e fondamentali, c’insegna:

1. che l’accento tonico, essendo un’espressione dello spirito e – per così dire – il martello dell’idea su la voce articolata e rappresentando l’atto volitivo o intenzionale su la materialità della parola, non può essere vincolato dalla pretesa quantità delle sillabe, cioè dalla materialità stessa della parola;

2. che la voce umana non può restar sospesa oltre certi limiti nell’articolazione dei suoni, ma ha bisogno d’appoggiarsi e s’appoggia principalmente su la sillaba su cui cade il martello dell’idea. Diciamo principalmente, perché, quando questa sillaba che chiameremo intenzionale è distante, la voce, o s’appoggia più lievemente e con minor pausa su le altre sillabe, o articola queste altre sillabe così fuggevolmente, quasi sorvolando per giungere alla mèta, che esse perdono ogni valor di suono e diventano mute o avvizziscono e cadono;

3. che la sillaba, su cui la voce s’appoggia e ristà perciò alquanto, vien protratta, e non può esser dunque della stessa misura di tempo della sillaba su cui la voce non s’appoggia;

4. che le consonanti che precedono e seguono una vocale, e a cui essa dà, per così dire, anima di suono, cagionano alla vocale stessa una diversità di misura.

Queste sono leggi fisse, naturali e immutabili. Nessuna lingua umana parlata può essere realmente in contrasto con esse. Vi sarebbero state, se non con tutte, con alcune, le lingue classiche, almeno secondo le leggi e le prescrizioni dei grammatici e di certi metrologi antiquati; ma ormai s’è chiarito che questo contrasto è soltanto fittizio e apparente e che esso, quantunque voluto, non nella lingua parlata, che non era possibile, ma nel campo della metrica, pur rispettava, in fondo, per forza, le leggi naturali.
Che cosa è infatti l’ictus, la percussione, se non un accento? Ora si ammetteva che questa percussione, o accento ritmico, non potesse cadere che su le sillabe lunghe, e si ammetteva altresì che esso potesse allungare la sillaba su cui cadeva, se essa era breve. Gli allungamenti delle sillabe in tesi, cioè delle sillabe su cui cadeva l’accento ritmico, sono comunissimi. La vocale, dunque, su cui la voce s’appoggiava, non poteva esser breve o rimaner breve. Or bene, questa è pur la legge naturale e costante; né poteva ribellarvisi la metrica latina. Soltanto, in essa l’accento tonico era vinto dal musicale: le parole non avevano più il loro accento proprio; ma, assoggettate a quell’altro, obbedivano pure alla legge comune, di natura, che vuol lunga la sillaba su cui la voce si appoggia. Non era abolita, insomma, né si poteva, la legge dell’accento, ma si faceva solamente una sostituzione: all’accento tonico, grammaticale, si sostituiva il ritmico, musicale. Era una lotta tra i due accenti. Poté facilmente vincere quello ritmico, perché più forte, più sensibile, quando la poesia era anche musica. La tesi naturale, e razionale, è quella su cui cade l’accento tonico. Il ritmo musicale con le sue percussioni stabiliva nelle parole tesi irrazionali, sacrificandone l’armonia spontanea.
Né si creda che questo, per altro, avvenisse soltanto nella metrica antica; avviene anche nella metrica nostra, in quei versi segnatamente che sono più legati alla musica, come l’ottonario. Leggiamo in Fra Iacopone:

Qui si forma un amore
Dell’invisibile Dio.
L’alma non vede, non sente,
Che dispiacele ogni rio.
O miracolo infinito
Farsi inferno celestío!
Prorompe amor frenesío
Piange la vita passata.

     Evidentemente qua il ritmo era dato dalla musica: la lingua non vi metteva di suo che il numero delle sillabe e l’accento grammaticale su l’ultima tesi. Ora, dal suono sgradevolissimo che rendono a noi questi versi privi del loro accento ritmico, musicale, possiamo argomentare come dovessero sonar male ai Latini i loro versi letti con gli accenti grammaticali e non secondo quelli ritmici. Evidentemente i Latini, pur di sentire il ritmo, l’armonia dei loro versi, eran forzati a storpiare l’armonia naturale della parola, a sostituire cioè gli accenti ritmici ai grammaticali nella lettura dei loro versi, precisamente come noi siam forzati a leggere:

Dell’invísibile Dio
Proromp’àmor frenesío
Piange là vita passata

     se vogliamo sentire nel verso letto e non più cantato il ritmo che gli dava la musica.
Questo, nella poesia. Ma è possibile che nel parlar comune, dove l’accento musicale non aveva più luogo, fosse abolita parimenti la legge naturale dell’appoggiatura della voce e che questa non determinasse la lunghezza della vocale, su cui l’accento cadeva?
Non è possibile. Eppure, nel vocabolario latino troviamo una serie infinita di parole che han segnata una quantità illogica e irrazionale, una quantità che osta cioè alla legge naturale dell’appoggiatura della voce.
Per spiegarla in qualche modo qualcuno si provò finanche a sostener l’ipotesi che nel periodo classico della lingua non esistesse in realtà disaccordo tra l’accento e la quantità, e che questo disaccordo esista soltanto per noi, cioè per il modo barbaro con cui noi leggiamo le parole della lingua latina.

Quest’ipotesi non ha alcuna serietà. Ho voluto ricordarla soltanto perché, messa avanti or non è molto come una novità, è invece assai vecchia. Fin dal 1623 Ludovico Zuccolo, accademico filopono di Faenza, in un suo Discorso delle ragioni del numero del verso italiano, aveva affacciato il medesimo dubbio (v. Cap. IV: Che noi non habbiamo piú la vera pronunzia della lingua Latina, pag. 14–16 dell’ediz. di Venezia, appresso Marco Ginami). Questo Discorso dello Zuccolo, che io tra poco illustrerò, è dallo stesso autore annunziato nel titolo come «un pensier nuovo e curioso, e con prove evidenti spiegato», e contiene senza dubbio, insieme con molte ingenuità, pensieri veramente nuovi per il suo tempo.
«Niuna sillaba – dice lo Zuccolo – può senza tempo proferirsi, e ogni voce di sillabe si compone; ne nasce che ogni orazione, per esser tessuta di voci, ha i suoi tempi; i quali o sono indistinti e indeterminati e costituiscono la prosa: o sono posti con ordine e con proporzione tra di loro, e formano il verso… Claudio Tolomei e quegli altri suoi accademici o della Virtú o dello Stagno di Roma, i quali furono inventori degli esametri e dei pentametri nella lingua nostra a concorrenza dei Greci e dei Latini, con lunghezza e con brevità di sillabe, le quali si finsero a loro capriccio, andarono cercando indarno la verità nelle tenebre, e non la conobbero nella luce… Non perché noi componiamo i versi nostri a giudizio dell’orecchia, ne séguita però che i nostri versi non habbiano sí bene i loro tempi, come i Latini e i Greci. Ma la diversità deriva dall’esserci quelle lingue straniere, delle quali habbiamo anche perduta la vera pronuncia, né perciò possiamo senza regola riconoscere, quali sillabe sian lunghe e quali brevi; e questa propria e nativa, sí che l’orecchia ci serve per misura».
Lo Zuccolo non poteva, naturalmente, servirsi ai suoi tempi della scienza glottologica per dimostrare il suo asserto, come di recente si fece.
Ma tanta erudizione, nel caso nostro, non serve proprio a nulla, per due semplicissime ragioni:

1. perché la scienza glottologica può sí determinare, caso per caso, la lunghezza di questa o di quella sillaba, lunghezza reale nella primitiva formazione della parola; ma le sue determinazioni, quando urtino contro le esigenze fonetiche, naturali, della pronunzia, non hanno, né possono aver più valore effettivo: noi, anche volendo, non possiamo dare con la voce, nella pronunzia, un valore doppio di tempo a certe sillabe segnate dalla scienza glottologica come lunghe, quando vi s’oppongano le leggi dell’organo vocale. Quando gli elementi semplici delle radici monosillabiche, le quali prima avevan per sé la chiarezza del contenuto, cominciarono a corrompersi, fin dal principio dello stadio agglutinante, poi, per le esigenze fonetiche della pronunzia, si oscurarono completamente, finché si perdette ogni coscienza del loro significato originario, così che i vocaboli alla fine rappresentarono né più né meno che un semplice segno dell’idea che stava nella nota specifica; quando, in altri termini, una lingua comincia a parlarsi senza più coscienza della individualità degli elementi costitutivi delle parole, i segni rimangono esteriori, a determinar soltanto il suono per cui una parola si distingue dall’altra;

2. perché, se è vero – come nessuno può mettere in dubbio – che la lingua italiana è derivata dalla latina, non è possibile che il popolo latino, per quanto riguarda la sede degli accenti, cioè le sillabe toniche, pronunciasse la sua lingua in modo diverso, poiché allora la nostra lingua non sarebbe quella che è. La filologia romanza ci dimostra luminosamente che le sillabe toniche latine, quelle cioè scelte dall’accento latino per sua sede, di regola non mutano.

Il dire dunque che nella lingua latina non esisteva disaccordo tra l’accento e la quantità glottologica è un errore, com’è un errore l’affermare che l’accento latino era una modulazione, una cantilena, che accompagnava il discorso e non già un colpo di voce, come è nelle nostre lingue oscurate e piú povere di sonorità.
Ammettiamo per poco come storicamente esatta questa osservazione del Benloew, quantunque sappiamo già che fin dal periodo arcaico l’accento nel corpo della parola, raccogliendo tutta la sua energia su la sillaba che n’era colpita, portava per effetto che o la sillaba precedente o la seguente fosse pronunziata con minor forza e quindi si avverassero affievolimenti, alterazioni e sincopi (altro che colpi di voce, dunque: colpi di scure!). L’accento tonico, abbiamo detto, rappresenta l’atto volitivo o intenzionale dello spirito sulla materialità della parola, voce articolata. Ora, si può intendere che l’accento sia più reciso, più fermo negli individui più volitivi o di più ferma intenzione e nelle classi in cui lo spirito sia più sviluppato. Nel popolo oggi, come in antico, la materialità della parola ha – se così possiamo esprimerci – maggior effetto di suono: il discorso del popolo è, senza dubbio, più sonoro, quasi cantilenato. Però si badi, questa sonorità espressiva dei moti dell’anima, nel discorso comune, non è mai indipendente dall’accento: gli strascichi della voce, la protrazione vocalica, gli allungamenti avvengono sempre sotto il dominio dell’accento. Non cosí quando il popolo canta, quando cioè assoggetta a una frase o a una cadenza musicale fissa le parole del verso. Avviene allora il contrasto tra l’accento tonico e la percussione ritmica, contrasto che il canto attenua di molto. Orbene, questo avveniva senz’altro nella metrica antica, finché la poesia fu accoppiata alla musica. Non poté più avvenire, quando restò la nuda parola.

La tesi naturale e razionale, ripetiamo, è quella su cui cade l’accento. Il ritmo musicale, con le sue percussioni, stabiliva nelle parole tesi irrazionali, sacrificandone l’armonia spontanea. Donde lo studio dei poeti latini di far coincidere l’accento tonico con la tesi, di rispettar cioè le tesi naturali, quanto più potevano.
Già dopo Quintiliano, com’è noto, la compagine delle leggi prosodiche e metriche stabilite convenzionalmente dai grammaticí e usate dai classici, cominciò qua e là a rilassarsi. Già appaiono i primi indizii, anche nel grembo stesso della scuola, che il processo evolutivo della quantità e dell’accento ripiglia il suo corso, quel corso che la scuola e la convenzione avevano voluto arrestare. Le incertezze su la presunta quantità, come si ricava da Aulo Gellio (lib. IV, c. xvii, 1 Voct. Att.) cominciano a diffondersi tra i dotti. Da ogni parte penetrano nella letteratura le energie spontanee della lingua e della pronunzía popolare.

Non bisogna dire, adunque, che il senso della quantità, dagli antichi a noi, si è man mano modificato. Quella che noi troviamo segnata, in contrasto col tempo naturalmente incluso nelle parole, era durata musicale convenzionalmente tribuita.
Premesso ciò, è legittimo applicare alla versificazione nostra, indipendente ormai del tutto dalla musica, gli schemi della metrica classica, che hanno origine assolutamente musicale? o in altri termini, è legittimo imporre ancora al tempo, che si trova già per se stesso, come abbiamo detto, nella materia armonica e per propria virtú crea la musica nel verso, un ordine imposto da un principio formale esterno?
Ci dovette essere una ragione per cui la poesia si staccò dalla musica. E la ragione fu questa senza dubbio, che la parola, elemento per eccellenza spirituale, dovette sentir presto il bisogno d’un movimento più libero di quello che il ritmo musicale le imponeva. Sotto questo ritmo la parola era troppo sacrificata; e il sacrificio maggiore per essa dovette esser quello dell’accento suo naturale, cioè del suo proprio elemento armonico.

Ora bisogna considerare il fenomeno della inclinazione dell’accento, la sua tendenza a dominare sopra più voci. Sta di fatto che la parola di minor rilievo s’aggruppa nel discorso con la vicina od anche con le vicine a formare quasi una parola sola. La forza dell’accento proprio a ogni singola parola or s’attenua or s’accresce e anche talvolta vanisce nella combinazione. Bisogna considerare che questa inclinazione e trasposizione dell’accento nel contesto delle parole ha una grandissima importanza per l’attribuzione delle tesi nel verso. Per esempio, un verso che abbia in sé cinque o sei accenti grammaticali, attribuisce le tesi solo a tre. Ora noi abbiamo nella metrica nostra versi con tesi fisse e versi senza tesi fisse. In quelli, il ritmo è costante, quasi martellato; in questi invece è volubile, ondeggiante. Abbiamo, ad esempio, il così detto decasillabo (che corrisponde precisamente al paremiaco puro dei greci) dal costante ritmo anapestico, e abbiamo l’endecasillabo, a cui non è possibile imporre un ritmo determinato e costante.

Il Garlanda se la prende col Fraccaroli che ha disegnato 87 schemi distinti di endecasillabi e col Guarnerio che, seguendo la stessa via del Fraccaroli, ne disegna 96. Sono un po’ troppi veramente! Non han tenuto conto né l’uno, né l’altro del fatto che una sillaba in tesi non può sostenerne più di due in arsi, che la voce umana non può rimaner sospesa oltre tre sillabe; e così tracciano schemi impossibili, non badando alle tesi che per necessità si stabiliscono, quando per la ripresa della voce non si vogliano stabilir pause nel verso, che ne romperebbero l’unità.
Ma mi sembra che il Garlanda, all’incontro, voglia semplificar troppo, riducendo a uno schema solo iambo–trocaico l’endecasillabo. È vero che egli applica questo schema particolarmente al verso di Dante, e soggiunge:
«Dico espressamente al verso di Dante, e non parlo di versi di altri poeti, perché quello è vicinissimo alle origini, è, si può dire, il primo grande modello del verso nuovo, in confronto con quelli dell’antichità; laddove il verso dei poeti che vennero dopo, e tanto più quanto più ci allontaniamo dalle origini, è stato sempre più influenzato dal sistema di versificazione, divenuto oramai prevalente, a sillabe e accenti».
Ma anche in Dante, osservo io, troviamo versi che non è possibile ridurre al solo schema che il Garlanda propone, come ad esempio quello che egli crede iambico con Ma anche in Dante, osservo io, troviamo versi che non è possibile ridurre al solo schema che il Garlanda propone, come ad esempio quello che egli crede iambico con trochei nel primo e nel quarto posto, e che perciò scandisce cosí:

Pùte – la tèr – ra che – quèsto – rice – ve,

il quale invece ha un ritmo dattilico evidentissimo e bisogna scandire cosí:

Pùte la – tèrra che – quésto ri – céve

come tant’altre tetrapodie dattiliche catalettiche in due sillabe che si trovano in Dante stesso:

Éran il – quínto dì – quéi che fur – vivi
Quàle i be – àti al no – víssimo – bàndo

e anche in Fra Iacopone:

Piange la Ecclesia, piange e dolura
Sente fortura di pessimo stato… ecc.

     Ma è innegabile, tuttavia, che la maggior parte dei versi danteschi risponde allo schema iambo–trocaico. E anche per questa parte, dunque, sebbene con una certa riserva, come abbiamo fatto riguardo all’allitterazione, dobbiamo dare ampia lode al Garlanda. Egli ha fatto opera di critica, diligente e acuta, perché è riuscito a metter bene in vista quest’altro carattere del verso di Dante.

Avremmo voluto però che egli ci desse pure ragione di quel trocheo che si trova quasi sistematicamente negli endecasillabi danteschi ora al primo ora al quarto posto. La ragione c’è, e si trova in una legge particolare e costante della dipodia giambica. L’aggruppamento per dipodie s’accentuò tanto in italiano, che la tesi più debole, cioè quella del primo piede, non solo divenne secondaria nel verso, ma alle volte scomparve, o si spostò, modificando così non leggermente il carattere primitivo del ritmo. Nella dipodia giambica però l’attenuazione della prima tesi porta sempre per conseguenza l’ipertesi, cioè lo spostamento dell’accento ritmico dalla seconda sillaba alla prima, appunto per la legge del trisillabismo. Or dunque, nell’endecasillabo, se la dipodia precede alla tripodia (endecasillabo a minore), abbiamo il trocheo al primo posto; se poi la dipodia segue alla tripodia (endecasillabo a maiore), il trocheo si trova naturalmente al quarto posto.

Introduzione

Indice
I. Arte e scienza
II. Un critico fantastico
III. Illustratori, attori e traduttori
IV. Per uno studio sul verso di Dante
V. Poscritta
VI. Soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa
VII. Per l’ordinanza d’un sindaco
VIII. I sonetti di Cecco Angiolieri
IX. Appendice: Per le ragioni estetiche della parola.

Indice Saggi e Discorsi

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