Alberto Cantoni è, e vuol essere, in fondo, segnatamente un critico, ma un critico che non si serve dei procedimenti della critica, bensí di quelli dell’arte. Alberto Cantoni è un critico fantastico. dunque, un umorista.
Indice
I. Arte e scienza
II. Un critico fantastico
III. Illustratori, attori e traduttori
IV. Per uno studio sul verso di Dante
V. Poscritta
VI. Soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa
VII. Per l’ordinanza d’un sindaco
VIII. I sonetti di Cecco Angiolieri
IX. Appendice: Per le ragioni estetiche della parola.
II. Un critico fantastico
Pubblicato in Nuova Antologia (16 marzo 1905) col titolo: Alberto Cantoni, come introduzione alla prima puntata del romanzo L’Illustrissimo del Cantoni, apparsa nello stesso fascicolo della rivista; quindi, come prefazione allo stesso romanzo, nella “Biblioteca d. «Nuova Antologia»”, N. 8, 1906; raccolto nel volume Arte e scienza col titolo attuale. Interi passi sono riprodotti nell’Umorismo, al quale rimanda lo stesso Autore in una nota aggiunta nella ristampa in Arte e scienza. Il saggio sul Cantoni è a sua volta citato nell’Umorismo (Parte II, cap. II). A un racconto del Cantoni, L’altalena delle antipatie, Pirandello aveva già dedicato una breve nota, apparsa nel giornale Folchetto (Roma, 5 ottobre 1893).
I.
È nota a tutti, forse, l’avventura di quel povero campagnuolo, il quale, avendo sentito dire dal parroco, che non poteva leggere perché aveva lasciato a casa gli occhiali, alzò l’ingegno e concepì la peregrina idea che il saper leggere dipendesse dall’avere un paio d’occhiali. E il pover’uomo se ne venne in città ed entrò in una bottega d’occhialaio, domandando:
– Occhiali per leggere!
Ma poiché nessun paio d’occhiali riusciva a far leggere il pover’uomo, l’occhialaio, alla fine spazientito, sudato e sbuffante, dopo aver buttato giú mezza bottega, gli domandò:
– Ma, insomma, sapete leggere?
Al che, meravigliato, il campagnuolo:
– Oh bella! E se sapessi leggere, sarei venuto da voi?
Orbene: di questa ingenua meraviglia del pover’uomo di campagna dovrebbero avere il coraggio e la franchezza tutti coloro che, non avendo né un proprio pensiero né un proprio sentimento, credono che per comporre un libro, o di prosa o di versi, basti semplicemente mettersi a scrivere a modo d’un altro. Alla domanda: – «Ma, insomma, avete qualcosa di proprio vostro da dirci?» – dovrebbero avere il coraggio e la franchezza di rispondere: – «Oh bella! E se avessimo qualcosa di proprio nostro da dire, scriveremmo forse cosí, a modo d’un altro?»
Ma comprendo che questo sarebbe veramente un chieder troppo. Basterebbe forse che, almeno, questi tali non s’indispettissero tanto, allorché qualcuno fa notar loro, pacatamente, che nessuno vieta, è vero, l’esercizio di scrivere o di trascrivere in una certa maniera, ma che questo esercizio significa, che non si hanno occhi proprii, bensí un paio d’occhiali tolti in prestito altrui.
È stato detto che la facoltà imitativa nella natura del nostro ingegno è superiore all’inventiva, che tutta quanta la storia della nostra letteratura non è altro, in fondo, che un perpetuo avvicendarsi di maniere imitate, e che – insomma – cercando in essa si trovano certo moltissimi occhiali e pochissimi occhi, i quali tuttavia non isdegnarono spesso, anzi ebbero in pregio di munirsi d’antiche lenti classiche per vedere a modo di Virgilio o di Orazio o di Ovidio o di Cicerone, che a lor volta avevano veduto a modo dei Greci. Ma questi ausilii visivi erano almeno fabbricati in casa nostra, da monna Retorica, che tenne sempre da noi bottega d’occhiali; e questi passarono da un naso all’altro per parecchie generazioni di nasi, finché all’improvviso non sorse il grido: – «Signori, proviamoci un po’ a guardare con gli occhi nostri!» – Si tentò, ma – ahimè – non si riuscí a veder nulla. E cominciò allora l’importazione degli occhiali stranieri.
Storia vecchia! E non ne avrei fatto parola, se veramente oggi non fossimo arrivati a tal punto che, per entrare nel favore del pubblico, non giovi tanto avere un paio d’occhi proprii, quanto esser forniti d’un paio d’occhiali altrui, i quali faccian vedere gli uomini e la vita di una certa maniera e di un dato colore, cioè secondo la moda. Guai a chi sdegni e ricusi d’inforcarseli, a chi si ostini a voler guardare uomini e vita a suo modo, da un suo proprio lato; il suo vedere, se semplice, sarà detto nudo, e se sincero, volgare.
E il bello tuttavia è questo, che appunto coloro che han gli occhiali e non se n’avvedono (o fingono di non avvedersene) predicano che in arte bisogna assolutamente aver occhi proprii e intanto dànno addosso a chi, bene o male, se ne serve. Perché – intendiamoci – occhi proprii si; ma debbono essere e vedere in tutto e per tutto come gli occhi loro, che invece poi sono occhiali, tanto che, se cascano, felice notte!
Questi occhiali si comprano, è ovvio dirlo, a Parigi: mercato, per tal genere di merci, soltanto da poco internazionale. Pare che le piú rinomate fabbriche francesi siano ora in decadenza, e che anzi più d’una abbia perduto ogni credito. Degli occhiali o meglio dei monocoli della fabbrica Bourget Stendhal et Cie., qualcuno, è vero, dei nostri letterati si serve tuttora; ma gli altri che si servono altrove, non tralasciano alcuna occasione per fargli notare ch’egli ci si sciupa la vista e che sarebbe tempo di provvedersi altrove anche lui. Un paio di lenti critiche fino a poco tempo fa raccomandate per la loro virtù, diciamo cosí, idealizzatrice, furono quelle della Ditta Brunetière. Più voga senza dubbio hanno oggi le lenti di vario genere che le fabbriche estere del vicino Belgio, della Scandinavia, della Russia, della Germania depositano nel mercato di Francia: e di queste in piú gran copia si provvedono i nostri letterati, i quali però hanno cura d’innestar nei cerchietti due vetri diversi: uno russo, poniamo, e uno francese: oppure in un occhio Nietzsche biconcavo e lbsen biconvesso nell’altro.
Il male proviene da questo: che noi, per quanto si voglia credere il contrario, siamo ancora dominati dalla Retorica e seguiamo tuttavia, senza avvedercene, le sue regole e i suoi precetti, non in letteratura soltanto, ma anche in tutte le espressioni della nostra vita: Retorica e imitazione sono, in fondo, una cosa sola.
E i danni che essa cagionò in ogni tempo non solamente alla letteratura nostra, ma prima anche alla latina e quindi, o più o meno, a tutte le letterature romanze, sono incalcolabili. Il retore quasi sempre insegnò da noi al poeta secondo quali norme, secondo quali precetti egli dovesse costruire l’opera d’arte, come se l’opera d’arte fosse un ragionamento. E appunto alla Retorica si deve se tutte o quasi le opere della nostra letteratura hanno, nella loro paziente diligenza, nella loro rigorosa compostezza, un’aria di famiglia, che sconsola. Non ci sono come nella letteratura inglese, ad esempio, tra un autore e l’altro, abissi d’anima, originalità perspicue di forme, di vedute, di concezioni. Quasi tutta la letteratura nostra sta come in un casellario: nel casellario della Retorica: qua le commedie che – fino al Goldoni – si somigliano tutte: commedie d’imitazione classica e commedie dell’arte: qua i poemi cavallereschi, e via dicendo. – È stato sempre un gran tormento pe’ retori la Divina Commedia. In quale casella determinata allogarla? È lirica, epica, drammatica, didascalica? Bisognerebbe spezzettarla e distribuirla un po’ da per tutto, nelle varie caselle. – E tutte le narrazioni, anche dei fatti piú varii e diversi, e tutte le descrizioni, varie anch’esse e di tempo e di luogo, par che si somiglino, perché la Retorica appunto insegnava come si dovesse narrare e come descrivere, così in genere, e come architettare i periodi, i periodi numerosi ciceroniani. Ma se la Retorica arrivava finanche a insegnare ai poeti come dovessero esprimere il sentimento d’amore, come dovessero amare in versi… Ma sí! Tutti a modo dei Provenzali, prima, che dettaron le Leggi d’amore, e tutti a modo del Petrarca poi, che ne fu il maggiore erede. E per tanti secoli della nostra letteratura noi assistiamo alla sfilata d’un innumerevole armento di scimmie innamorate che vanno, sospirose, in pellegrinaggio alle chiare, fresche e dolci acque del cantore di Laura.
Essa, la Retorica, non solo consentiva, ma consigliava l’imitazione d’ogni modello che fosse per lei divenuto classico. Ed imitare era pregio ed onore per ogni scrittore, attestato di buoni studii, di buona educazione letteraria, d’obbedienza devota alle norme scolastiche, ai precetti del bello, anzi del bello, del buono, del vero: imitare, non avere cioè un modo proprio di vedere, di pensare, di sentire: pregio ed onore.
Ma perché scrivere allora? perché ridire con voce minore ciò che altri ha detto con maggior voce? esser ombra e rion persona? aver dentro un pappagallo invece di un’anima?
Né si smette ancora, pur troppo! Prima si imitavano i classici e ora gli stranieri. E ancora, di tanto in tanto, sentiamo levarsi una voce che ci consiglia di ritornare all’antico, come se l’arte e la letteratura si possano rinnovare invecchiandole, riportandole cioè e adattandole agl’ideali e ai bisogni della vita d’una età ormai lontana; come se gli antichi – e lo disse già il Goethe – non fossero stati nuovi nel tempo in cui vissero, e noi non ci condannassimo ad esser vecchi imitandoli; come se chi imita non neghi se stesso e non rimanga per necessità un passo indietro alla propria guida, e come se infine non fosse meglio affermare comunque il proprio sentimento, la propria vita. E ancora, oggi, nelle nostre disquisizioni, che vogliono esser critiche, sentiamo parlar di forma e di contenuto, come se la forma fosse un abito, o più o meno elegante, o più o meno tagliato alla moda, o di stoffa più o meno fina, da vestirne un manichino; e s’accendono dispute, ad esempio, intorno al teatro che noi non possiamo avere perché ci manca una lingua viva, ecc. ecc.: disquisizioni, dispute vecchie e vane, che fece in ogni tempo la Retorica, e che si faranno sempre, finché non s’intenderà che non bisogna partire da leggi esterne a cui l’opera d’arte dovrebbe esser soggetta, ma scoprire la legge che ciascun’opera d’arte ha in sé necessariamente; la legge che la determina e le dà carattere, la legge insomma della propria vita, se quest’opera d’arte è veramente vitale, legge che non può essere arbitraria, per quanto libera o capricciosa possa apparire; e finché non si considererà l’opera della fantasia come opera di natura, come creazione organica e vivente e, come tale, non se ne studieranno la nascita, lo sviluppo, ed i caratteri; finché non si vedrà in lei la natura stessa che si serve dello strumento della fantasia umana per creare un’opera superiore, più perfetta, perché scevra di tutte le parti comuni, ovvie, caduche, più determinata, semplificata, vivente solo nella sua idealità essenziale. D’arte astrattamente non si può parlare, in quanto che l’essenza dell’arte è nella particolarità; e la critica può esercitarvisi a un solo patto, a patto cioè che essa penetri a volta a volta nell’intimo dell’artista, a patto che indovini e scopra in ciascun’opera d’arte il germe da cui essa è nata e si è sviluppata, dati il temperamento, le condizioni, l’educazione, la natura insomma, la coltura e il temperamento dell’artista, che rappresentano quasi il terreno in cui quel germe è caduto e il clima e l’ambiente in cui si è sviluppato.
Mancano due cose, segnatamente, e capitalissime alla nostra letteratura contemporanea: la Critica ed il Carattere.
Doppia ragione, dunque, di rimpianto abbiamo noi per la immatura morte di uno scrittore, che queste due doti – critica e carattere – ebbe in sommo grado: Alberto Cantoni.
II.
Eppure ben pochi della nostra stampa, anche letteraria, rilevarono ciò che piú importava rilevare in questa perdita dolorosa: la scomparsa cioè di una individualità veramente caratteristica. Di tali individualità noi non abbiamo oggi, pur troppo, abbondanza; ma Alberto Cantoni fu d’indole schiva; visse sempre appartato; non volle mai partecipare apertamente alle così dette battaglie letterarie; ebbe il pudore dell’arte sua intima e schietta, e – per quanto fra sé e con gli amici si lamentasse dell’indifferenza dei lettori – proibí sempre a chi gli stampava i libri che facesse anche il più lieve scampanío attorno ad essi.
Come poteva dunque esser notata secondo la sua vera importanza tale scomparsa, quand’egli stesso, finché visse, se ne volle dar sempre cosi poca agli occhi altrui? Ed egli sapeva pur bene che la letteratura contemporanea è divenuta come una fiera, ove ciascuno si sforza di metter sú, quanto più stranamente gli riesca, la propria baracca, innanzi alla quale chiama i compiacenti amici, perché invitino, gridando, il pubblico a fermarsi e ad ammirare. Dignitoso ed austero, egli, che senza stranezze esteriori, senza bizzarrie volute, senza capricci appariscenti, avrebbe pure avuto da esporre cose veramente nuove ed originali, non volle crescere a questa fiera un’altra baracca. Non sapeva né berciare né improvvisare. I suoi libri sono composti di materiali lentamente raccolti, lungamente meditati, amorosamente studiati da ogni lato. E non volle entrar mai a far parte di cricche o di conventicole. Geloso della sua libertà, che sapeva difendere, egli aveva scoperto presto che col suo nome si poteva comporre l’anagramma: Nato con libertà. E visse quasi sempre in campagna o nella sua Mantova, donde spesso si recava a piedi nei paesi vicini; vi cercava, per riposarsi, i più modesti caffè, nei quali trovava sempre conoscenti, anzi amici che si confidavano in lui; amava l’ingenuità e la schiettezza, amava di bere alle fresche sorgive della vita e aveva una speciale predilezione per le bambine; né era raro il caso che partisse di casa munito d’un libro di lettura per ragazzi o d’una bambola da regalare alle sue piccole amiche, che non avevano paura delle sue lenti e del suo barbone, e lo amavano; perché egli, pure in mezzo alla penetrazione ed all’acutezza con le quali leggeva chiaro nell’animo altrui, conservava un’ingenuità ed una freschezza di sentimenti quasi infantile. E nelle conversazioni fatte in quei rustici ritrovi raccoglieva, senza parere, i materiali più vivi pe’ suoi lavori futuri. In qualcuno di questi caffeucci egli dovette senza dubbio trovare, per esempio, quella sua indimenticabile Domenichina, di Scaricalasino: Domenichina:
« – Nome allegro! – le dice Pio Paletti, l’eroe di questo racconto. – E mi parete bonaccia. O sbaglio?
« – Se sbaglia! Domandi anche ai bimbi innocenti e tutti le diranno che io sono la piú perfida persona della Parrocchia. Non ho mai ammazzato nessuno, questo no; ma tutti vanno d’accordo a dire che le mie chiacchiere sono velenosissime.
« – Perché?
« – Perché dico sempre la verità.
« – Anche quando non ce n’è bisogno?
«– Sempre. È una malattia. Come se avessi un cane nella pancia che si mettesse ad abbaiare con la mia bocca. Ma ho i miei vantaggi. Ognuno mi detesta per quel che gli dico in faccia e ognuno mi vuol bene per quel che dico in faccia agli altri. E così, un poco amata, un poco detestata secondo i momenti, non ho mai trovato chi mi voglia bene due giorni di seguito».
Se non forse il padre, che è uno scontroso tenebrone: il padre sí, la ama; ma sapete, perché? Perché Domenichina, coi suoi discorsi, gli muove la bile; e questo gli fa bene. Come un po’ a tutti, del resto. Quando Domenichina va in collera, non ha paura neanche d’un leone, e dice e fa dire quel che non va detto; ma ha, grazie a Dio, anche il fegato sano, Domenichìna; e le passa cosí presto! E tutti si sentono cosí leggeri appena facciano come lei. È come il sole, Domenichina. Brucia, ma fa schiumare gli umori della gente.
Scaricalasino è un libro di critica drammatica, come Pietro e Paola con seguito di bei tipi è un libro di critica dell’arte narrativa. E Domenichina, che ha la malattia della verità, con la quale brucia, ma fa schiumare gli umori della gente, rappresenta in Scaricalasino la Musa comica; come Paola, nell’altro libro, rappresenta la Musa dell’arte narrativa.
E sono dunque due simboli? No. Son due persone vive e vere. E voi, leggendo i due libri, non v’accorgete della parte che esse, nella riposta intenzione dello scrittore, vi debbono rappresentare. Voi sapete di aver tra mano due novelle critiche, perché così appunto le intitola l’autore; quasi a ogni pagina vi si parla e vi si discute, là d’arte drammatica, qua d’arte narrativa; ma la discussione letteraria non mortifica mai la creazione fantastica, i personaggi che vi prendono parte; ciascuno ha la sua storia, un suo proprio corpo, di carne e d’ossa; e son rappresentati con evidenza così trasparente, con tale efficacia di tocchi, che voi li vedete vivi e spiranti innanzi a voi; perché Cantoni, come ho detto, raccoglieva dal vero i materiali dei suoi libri, e non impersonava mai, volutamente, le sue idee; ma dal, vero, dalla realtà, veduta, studiata, meditata, traeva il valore espressivo che essa, secondo lui, poteva avere. La realtà restava immagine per lui, e il sentimento ch’essa gli destava, vivificava poi l’immagine stessa e dava valore espressivo alla rappresentazione artistica ch’egli ne faceva. Il Cantoni, insomma, non pestava il fiore per cavarne l’essenza odorosa, ma il fiore lasciava intatto e vivo, e ne raccoglieva delicatamente l’alito, cioè l’idealità essenziale e significativa.
Ed è qui tutta la caratteristica di questo scrittore.
Alberto Cantoni è, e vuol essere, in fondo, segnatamente un critico, ma un critico che non si serve dei procedimenti della critica, bensì di quelli dell’arte. Alberto Cantoni è un critico fantastico. dunque, un umorista. Mi spiego.
Son già note a tutti le definizioni che finora si son date dell’umorismo: quella che comunemente si dà in Francia: «L’arte di rappresentar comicamente le cose tragiche e tragicamente le cose comiche»; quella un po’ troppo vaga e, per dir cosí, bonaria, che ne diede il Nencioni: «Una naturale disposizione del cuore e della mente a osservare con simpatica indulgenza le contradizioni e le assurdità della vita»; l’altra del Bonghi, piú acuta e comprensiva: «Un’acre disposizione dello spirito a scoprire ed esprimere il ridicolo del serio e il serio del ridicolo umano». Ma queste e altre definizioni sono superficiali, esteriori; come esteriori e superficiali sono le considerazioni che si sogliono fare intorno agli effetti or comici, or drammatici, or satirici, or burleschi dell’umorismo. Per spiegarci chiaramente il fenomeno di questa espressione d’arte, non dobbiamo guardare i fatti già espressi, svariatissimi, per cavarne una conclusione o piú o meno arbitraria; ma dobbiamo scoprirne la radice, penetrando nell’intimo dello scrittore umorista, prima ch’egli crei un corpo d’immagini alla sua concezione. Ordinariamente, l’opera d’arte è creata dal libero movimento della vita interiore che organa le idee e le immagini in una forma armoniosa, di cui tutti gli elementi han corrispondenza tra loro e con l’idea–madre che le coordina. La volontà e la riflessione, durante la concezione, come durante l’esecuzione dell’opera d’arte, non sono inattive. La volontà, per esempio, arricchendo, vivificando lo spirito col lavoro, prepara l’opera prima che sia concepita; poi, con le dolorose impazienze, con la inquietudine, con l’ostinazione, agita lo spirito attorno all’idea e rende possibili quelle ore di vera gioia, in cui tutto pare che si faccia da sé. La riflessione, dal canto suo, assiste al nascere e al crescere dell’opera d’arte, ne segue le fasi progressive e ne gode, raccosta i varii elementi, li coordina, li compara.
La coscienza non rischiara tutto lo spirito; segnatamente per l’artista, essa non è un lume distinto dal pensiero, che permetta alla volontà di attingere in lei come in un tesoro d’immagini e d’idee. La coscienza, insomma, non è una potenza creatrice; ma lo specchio interiore in cui il pensiero si rimira; si può dire anzi ch’essa sia il pensiero che vede se stesso assistendo a quello ch’esso fa spontaneamente. E d’ordinario, nell’artista, nel momento della concezione, la riflessione si nasconde, resta, per cosí dire, invisibile: è, quasi, per l’artista una forma del sentimento. Man mano che l’opera si fa, essa la critica, non freddamente, come farebbe un giudice spassionato, analizzandola; ma d’un tratto, mercé l’impressione che ne riceve. Questo, ripeto, ordinariamente. Nell’umorista, invece, la riflessione assume una parte piú importante; non si nasconde, né resta invisibile; diventa anch’essa potenza creatrice. Perché la concezione, in ogni vero umorista, si sdoppia, assegna una parte al sentimento, una parte alla riflessione; e questa rimane, sí, come uno specchio interiore; ma – per usare una immagine – è come uno specchio d’acqua diaccia, in cui la fiaccola del sentimento non si contenta di rimirarsi, ma si tuffa e si smorza; e il friggere dell’acqua è il riso che suscita l’umorista e il vapore che n’esala è la fantasia spesso un po’ fumosa dell’opera umoristica. La quale nasce insomma dal contrasto tra il caldo del sentimento e il freddo della riflessione.
L’umorismo è un fenomeno di sdoppiamento nell’atto della concezione; è come un’erma bifronte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta. La riflessione diventa come un demonietto che smonta il congegno dell’immagine, del fantoccio messo sú dal sentimento; lo smonta per veder come è fatto; scarica la molla, e tutto il congegno ne stride, convulso.
Ogni vero umorista è, dunque, un critico di se stesso, del proprio sentimento; un critico sui generis; fantastico, come ho già detto, o capriccioso. In taluni la fantasia e il sentimento predominano, la vincono su la riflessione, fino a nasconderla, almeno apparentemente, ricoprendola d’una veste d’immagini; in altri invece predomina la riflessione, e la critica allora si scopre, diventa palese, come spesso in Alberto Cantoni. Ma egli, ripeto, ha voluto esser cosí.
Se non fosse stato umorista, sarebbe stato semplicemente o un artista o un critico. Egli è umorista perché è artista e critico insieme; e non piú critico che artista; ma un artista che ha voluto esercitare divisatamente la sua facoltà artistica su la critica.
Egli non si preoccupa affatto dell’invenzione. In un punto della sua novella che ha per titolo Il demonio dello stile, dichiara anzi apertamente che annette agli argomenti un valore assai relativo in confronto a quello delle intenzioni.
Egli sa bene che l’originalità non consiste tanto nell’idea che spesso è comune e assai di rado è nuova, quanto nel sentimento particolare che noi abbiamo di essa; o, per dirla con le sue stesse parole, sa bene che il tono del quadro, più assai del tema, fa il quadro nuovo.
Questo vale per tutti gli artisti, ma in modo speciale per lo scrittore umorista, la cui particolarità è veramente tutta nel tono, nelle variazioni capricciose del motivo sentimentale, nella riflessione che contrasta al sentimento, o meglio, in cui il sentimento si smorza. Non per nulla l’opera umoristica è sempre piena di digressioni, e queste digressioni sono sempre la parte principale dell’opera, la più saporita. E il sapore di essa è sempre acre; né può essere altrimenti. Vi prego di credere che non può esser lieta la condizione d’un uomo che si trovi ad esser sempre quasi fuori di chiave, ad essere a un tempo violino e contrabbasso; d’un uomo a cui un pensiero non può nascere, che subito non gliene nasca un altro opposto, contrario; a cui per una ragione ch’egli abbia di dir sì, subito un’altra e due e tre non ne sorgano, che lo costringano a dir no, immediatamente dopo; e tra il sí e il no lo tengan sospeso, perplesso, per tutta la vita; d’un uomo che non può abbandonarsi a un sentimento, senza avvertir subito qualcosa dentro che gli fa una smorfia e lo turba e lo sconcerta e lo indispettisce. Provatevi un po’ a piangere per un dolor vero, davanti a uno specchio, guardandovi; se riuscirete a star fermi per un pezzetto a contemplarvi, vedrete la vostra espressione dolorosa irrigidirsi in una smorfia che vi farà ridere; e resterete allora in una condizione molto penosa che non vi consentirà più né di seguitare a piangere di cuore, né di ridere davvero.
Ora, perché questo sdoppiamento avvenga, bisogna che l’artista abbia fatto un’esperienza amara della vita e degli uomini, un’esperienza che, se da un canto non permette più al sentimento ingenuo di metter le ali e di levarsi come un’allodola perché lanci un trillo nel sole, senza ch’essa la trattenga per la coda nell’atto di spiccare il volo; dall’altro lo induce a riflettere che la tristizia degli uomini si deve spesso alla tristezza della vita, ai mali di cui essa è piena e che non tutti sanno o possono sopportare; lo induce a riflettere che la vita, non avendo fatalmente per la ragione umana un fine chiaro e determinato, bisogna che, per non brancolar nel vuoto, ne abbia uno particolare, fittizio, illusorio, per ciascun uomo, o basso o alto: poco importa, giacché non è né può essere il fine vero, che tutti cercano affannosamente e nessuno trova, perché forse non esiste.
Quel che importa è che si dia importanza a qualche cosa, e sia pur vana: varrà quanto un’altra stimata seria, perché in fondo né l’una né l’altra daranno soddisfazione: tanto è vero che durerà sempre ardentissima la sete di sapere, non si estinguerà mai la facoltà di desiderare, e non è detto pur troppo che nel progresso consista la felicità degli uomini.
Ma io non posso qui accennare neanche di sfuggita tutte le riflessioni che l’esperienza amara o la disposizione necessariamente pessimistica dello spirito possono suggerire a un umorista; perché appunto – com’ho detto – in esse è l’essenza e la originalità della svariatissima letteratura umoristica. Può darsi che si trovi in esse talvolta quella tale simpatica indulgenza di cui parla il Nencioni [3].
[3] Da vedere su questo argomento il mio volume di prossima pubblicazione: L’umorismo(essenza, caratteri, materia).
III.
Certo il Cantoni soffriva moltissimo dello sdoppiamento di cui ho fatto parola; soffriva di non poter essere ingenuo, come prepotentemente in lui la natura avrebbe voluto; e mordeva in sé e negli altri col veleno dello stile lo scaltro capriccioso che si metteva a far le smorfie all’ingenuo e a beffarlo, il monello della riflessione che acchiappava per la coda la lodoletta del sentimento nell’atto ch’essa spiccava il volo. Questo conflitto, questa complicazione sentimentale lo indispettivano. Quella lunga novella sui generis, che è tra le piú felici dello scrittore mantovano,L’altalena delle antipatie, ne è una prova lampantissima.
Il lunatico eroe di questa novella confessa di essere una specie di saliscendi fatto persona. Contro il suo male, prende per ricetta di sposare. Rimedio eroico, il matrimonio! E alla sposa, né brutta né troppo bella, né sciocca né fine, semplice ed orfana e sola, dice subito, francamente: «Ti sposo perché t’avrò già veduto cinquanta volte senza mai sapermi dire se tu mi piaccia o no. Nel primo caso sarei scappato a gambe levate per lo spavento d’un mio prossimo voltafaccia; nel secondo avrei forse potuto rischiare, ma capirai, te ne saresti avvista, e probabilmente non m’avresti voluto. lo son fatto così, mercé di Dio, ma porto meco questo di buono nel nostro matrimonio, che non mi so punto dire come sii fatta tu. Voglio anzi credere che la tua cara semplicità, così patente, sarà di altrettanto sostanziale, e che tu stessa, ov’io fossi tanto grullo da interrogarti sul conto tuo, me ne sapresti dire sú per giù quanto me, cioè nulla. Io tengo ancora la tua anima per una specie di tabula rasa, nella quale, Dio aiutando, potrò studiarmi di non lasciar apparire che le più belle cose. La mia, pur troppo, è così cincischiata che è già un gran dire se mi ci raccapezzo io solo. Questo nullameno posso dirti: che cioè come non mi è mai rimasto un gran tempo di volere bene a nessuna donna, così non mi sono mai illuso fino al punto di credere che qualcuna potesse voler bene a me. Sai, quando uno se ne sta col cannocchiale perpetuamente appuntato sopra se medesimo, e più specialmente sopra le attinenze ch’egli possa avere cogli altri, come vuoi che non veda, se non è uno stupido, quanti ce ne sono e di più belli, e di più buoni, e di più ingegnosi di lui? E se lo vede, che speranza gli può rimanere di essere messo avanti gli altri? Non ti sposo dunque perché t’ami di già, e meno ancora perché possa già credere che tu ami me. Ti sposo perché, dato un uomo del mio stampo, mi ci vuole una donna della stampa tua. Due sole cose ti raccomando: la prima di non ritenerti, sposandomi, punto più fortunata di nessun’altra donna; la seconda, di non infingerti mai quando per avventura tu l’avessi meco, perché c’è il caso molto probabile che tu, col lasciarti scorgere, mi metta al punto di volerti piú bene assai. Ed è questo soprattutto che io desidero dal profondo del cuore: volerti bene comechessia e durabilmente. Che se poi tu me ne vorrai meno, o poco, od anche punto, ci hai a pensar tu. Sarà peggio per te». E che notte passa questo disgraziato alla vigilia delle nozze! «Io rinunziare, come il primo imbecille venuto, alle delizie del celibato? lo rispondere della felicità di un’altra persona? Io in procinto di mettermi coi piedi legati in mani altrui? Ma perché mi sposo, io? Per distrarmi, per non avercela piú contro nessuno. Gran noia davvero che era questa per me! Ma foss’anco sicuro il rimedio, come non è punto, che danno è mai venuto agli altri dalle mie sfuriate d’antipatia? Chi ho manomesso? Chi ho vilipeso? Molti anzi non se ne avvidero nemmeno… e me ne dolse. Ma io sí che me ne avvedo bene, pur troppo, ora, che ce l’ho con me! Va, va che hai già fatto un bel guadagno. Ti sei sacrificato per il tuo prossimo, che non ci pativa nulla, ed ora te la pigli con te stesso, che ci patisci tanto, con la dolce prospettiva di mettere al mondo degli altri originali come te!» Balza dal letto a camminare agitatissimo, quantunque in pantofole, per la camera. L’idea della futura prole lo conduce per ultimo davanti ai ritratti dei suoi genitori, ai quali dice con le braccia tese: «Anche con voi ho tentennato, poveri morti miei! Quando mi pareva di star benino al mondo, vi ringraziava in cor mio del dolce dono, e quando ci stava a disagio, vi avrei chiesto volentieri se non avevate niente di meglio a darmi. Voi siete stati felicissimi un dell’altro, lo so, ma fu per poco, e intanto ci sono andato di mezzo io, e ci andranno fors’anco di mezzo i figli miei, se io dovrò far loro la stessa burla infelice che voi, poveretti, avete dovuto fare a me. Quanto era meglio che mi prendeste con voi, piuttosto che lasciarmi qui solo, con la mia insanabile propensione al ragionamento i Fossi ben saldo in gambe per natura, me ne gioverei, ma come non sono, i miei ragionamenti mi aiutano a stare un po’ sú da una parte, per cascar giù meglio dall’altra! Ora poi mi pare di essere il Reno, a Sciaffusa!»
Altrove, nel Demonio dello stile, allo scrittore Ferdinando Acerra, il quale, richiesto, propone alcuni soggetti di novella a una sua amica, Alberto Cantoni fa esclamare: «Guai, guai tre volte ai vostri futuri volumi se voi, nell’essere in alto mare, aveste potuto, per un prodigio di separazione morale, dimezzarvi così bene da poter sentire da una parte ed esaminarvi dall’altra. Bell’accozzo di bollor subitaneo e di rigore critico non ci approntereste voi!»
E in quel vero gioiello che è il racconto Più persone e un cavallo, che strazio egli fa di quel tal colonnello, che durante un viaggio di mare, per dargli una prova della sua penetrazione, gli narra una tristissima storia, con un modo tutto suo di parlare! Sentitelo: «Appena i suoi discorsi tendevano ad animarsi un poco, e subito subito la sua voce principiava a discendere anziché a salire, per assumere poi dei toni tanto più morbidi e tanto più carezzevoli quanto più seguitando egli ad animarsi, avrebbero potuto essere più risentiti e più forti». «Oh Dio santo e buono!» esclama il Cantoni. «Tu mi hai dato oggi le più belle prove dell’amor tuo. Mi hai suggerito di viaggiar per mare, e il mare è buono; mi hai disteso innanzi questa cerulea bellezza d’acqua, ed io non ho che a voltarmi intorno, per sentirmi come penetrato della tua grandezza. Non bastava. Ora mi fai discendere il sole a ponente, e mi fai alzare la luna a levante. Da una parte il cielo è già tutto una gloria, dall’altra il mare è già tutto uno zaffiro. Potevi tu essere più buono, più amorevole, più grazioso meco? No. Ma ci sono i miei simili che stanno per guastare la tua opera santa; c’è un colonnello che mi vuole raccontare una sua buia storia d’orrore…». E gliela racconta difatti, parlando in quella sua graziosa maniera. E dopo avergliela raccontata, lo invita ad andarsene a riposare. «A riposare!!» – esclama il Cantoni, con due punti esclamativi. E il colonnello: – «Sì, io mi son tenuto più che ho potuto; ma nonostante ci ho qui il mio scelleratissimo cuore che si fa sentire, e che ora mi dà una stretta, ora mi pesa quanto una macina da mulino. Andiamo a letto».
Il Cantoni accoglie quest’ultima confidenza, come s’accoglie, alle frutta, una pera passata da parte a parte. Egli aveva dunque innanzi un’altra allegria: un uomo cioè sempre assorto nella cura preventiva dell’aneurisma: e che però, non volendosi eccitare mai e poi mai, vigilava attentamente i proprii discorsi con quel suo sistema di chiaroscuro… capovolto. Appena che questi discorsi erano tali da fargli fluire un po’ più rapido il sangue, ed eccotelo subito a rallentare possibilmente la eccitazione, con tutti i lenocinii della sua flemma a rovescio! Ma che bisogno c’era d’andarglielo a dire? Sceso giù nella sua cuccetta, il Cantoni non può chiuder occhio. «C’è qualcuno che ignori, – egli domanda, – lo stemma della Sicilia? Che non abbia mai visto l’arme, l’impresa dell’alma Trinacria? Allora vuol dire che egli non ha mai viaggiato su certi vapori di Florio, tanto quel segno vi ricorre da per tutto, come se fosse un’uggia, una persecuzione, un tic… Figuratevi lo scheletro d’una ruota con tre soli raggi, senza punto cerchio. Ponete una testa al centro della ruota, fate partire da questa testa tre gambe intere in atto di correre a precipizio tutte tre, e se non vi verrà in mente una girandola animata, ovvero un’idra a tre soli tentoni, vorrà dire (beati voi!) che non avete ombra di fantasia. Povera testa! Quanti secoli che rotoli sulle tue tre gambe!» Ma anche quella dello scrittore non rotolava meno, allorché si gettò nel camerino e si pose a sedere sopra uno sgabello ricamato, pur di coprire della sua persona una di quelle teste e tre di quelle gambe. Come Dio vuole, si dispone a dormire; ma con la mente invasa e sconvolta dal truce racconto del colonnello, la cuccetta gli sembra un cataletto: si mette fermo fermo con gli occhi chiusi e con le braccia incrociate sul petto, come quei vescovi (in effigie) che stanno lunghi distesi nei pavimenti delle antiche basiliche, e poi pensa a Stenterello quand’era a letto e aveva paura del morto dal mantello rosso. Non si può piú reggere, e scappa fuori all’aperto: va a trovare il cavallo, il povero baio del colonnello, incassato sopra coperta fra quattro pareti di legno, con la sola testa di fuori; gli s’accosta, gli fa appoggiare il mento su la spalla, e lí, con la gota ferma su la ganascia di esso e stringendolo pel collo, si mette a parlare con lui: «Sei in collera? No, eh? Sai benissimo che io voleva rimanere, e che è stato il tuo padrone che mi ha condotto al macello per tutta quanta la serata. Caro quel tuo padrone! Ti lusinga ora perché t’adopera, e quando invecchierai, ti venderà. Ti venderà lontano lontano, per paura di rivederti, e di rinnovare l’affetto, com’egli dice. Se n’intende lui di queste paure… Oh se tu sapessi, mio carissimo amico, che po’ po’ di serpenti sono certi uomini, ti assicuro io che li balzeresti di sella tutti, per paura che te ne capitasse uno. Tu sei buono, tu… Io rimango teco fino che spunta il sole. So già abbastanza cosa m’è accaduto a doverti abbandonare la prima volta. Quando si tornerà a sentire odor d’uomo intorno a noi, mi chiuderò a chiave nella mia bolgetta, e chi mi vedrà spuntare avanti che ci fermiamo in golfo, quello potrà ben dire di essere battezzato due volte. Da bravo, raccontami qualche cosa anche tu».
E quante gliene racconta, quel povero baio! Ch’era inglese, e che il nostro clima gli si confaceva poco; e che si ricordava bene della mamma sua, più bella di lui; e che i suoi fratelli maggiori gli avevano dato di grandi calci; e che voleva molto bene alla regina Vittoria.
Voi non ci credete? ne ridete? Pensate che il Cantoni aveva forse un po’ di febbre e che, se il cavallo taceva, gli poteva benissimo parere che parlasse? Ma riflettete che quando una bella cosa pare vera, il meglio che possiamo fare è di credere che sia.
Ma allora voi non crederete neppure che il Cantoni un giorno vide a Bergamo innanzi al monumento a Gaetano Donizetti un bel vecchio rubicondo e gioviale che stava guardando le due nobili figure scolpite dal ierace, e un ometto smilzo e circospetto, con una faccia un poco sdolcinata e un poco motteggiatrice, che erano, quello l’Humour classico e questo l’Humour moderno. Proprio essi, che, senz’altro, là, si misero a disputare tra loro, e poi si lanciarono una sfida: si proposero di andare in campagna lí presso, a Clusone, dove si teneva la fiera, ognuno per conto proprio, come se non si fossero mai visti, e di ritornare poi la sera, li daccapo, innanzi al monumento a Donizetti, recando insieme nella bisaccia le loro particolari e fugaci impressioni, per metterle a paragone.
In questo libro, che s’intitola appunto Humour classico e moderno, Alberto Cantoni si dimostra un vero maestro dell’umorismo.
Anche qui egli fa opera di critica, ma seguendo i procedimenti dell’arte. Quel vecchio rubicondo e gioviale, che rappresenta l’Humour classico, è certamente qualche vecchio che egli ha veduto vivo e vero a Bergamo o altrove e l’ha seguito, osservato e studiato, con quella diligenza, con quella penetrazione ch’egli metteva sempre in tutte le sue ricerche. E invece di discorrere criticamente della natura, delle intenzioni, del sapore dell’umorismo antico e del, moderno, riporta vivacissimamente, in un dialogo scoppiettante di brio, le impressioni che quel vecchietto vero e quell’ometto smilzo non meno vero han raccolte alla fiera di Clusone: e quanto vede e riferisce alla buona il vecchio rubicondo avrebbe potuto essere argomento d’una novella del Boccaccio o del Sacchetti, del Firenzuola o del Bandello; e i comenti e le variazioni dell’ometto smilzo hanno il sapore di quelle dello Sterne nel Viaggio sentimentale o del Heine nei Reisebilder. E cosí la critica nasce, ma dalla vita stessa, dalla realtà rimasta immagine e sentimento; e il libro si legge con lo stesso diletto con cui si leggerebbe una novella o un romanzo. E anche qui il Cantoni mostra la sua predilezione per la natura ingenua e schietta, e terrebbe nella disputa dalla parte del vecchio rubicondo e gioviale, se non fosse costretto a riconoscere che esso ha voluto rimaner tale e quale assai piú che non lo comportassero gli anni, e che è volgatuccio e spesso vergognosamente sensuale. Ma poi sente in sé – e n’ha dispetto – il dissidio che tiene scissa, sdoppiata l’anima di quell’altro, dell’ometto smilzo, e lo fa mordere dal vecchio con aspre parole:
– A forza di ripetere continuamente che tu sembri sorriso e che sei dolore… n’è venuto che oramai non si sa più né che cosa veramente tu sembri, né che cosa veramente tu sia… Se tu ti potessi vedere, non capiresti, come me, se tu abbia piú voglia di piangere o dì sorridere.
– Adesso è vero – gli risponde l’Humour moderno. – Perché adesso penso solamente che voi vi siete fermato a mezza via. Al vostro tempo le gioie e le angustie della vita avevano due forme o almeno due parvenze più semplici e molto dissimili fra di loro, e niente era più facile che sceverare le une dalle altre per poi rialzare le prime a danno delle seconde, o viceversa; ma dopo, cioè al tempo mio, è sopravvenuta la critica e felice notte; s’è brancolato molto tempo a non sapere né che cosa fosse il meglio né che cosa fosse il peggio, finché principiarono ad apparire, dopo di essere stati così gran tempo quasi nascosti, i lati dolorosi della gioia e i lati risibili del dolore umano. Anche gli antichi solevano sostenere che il piacere non era altro che la cessazione del dolore e che il dolore stesso, ben esaminato, non era punto il male; ma le sostenevano sul serio queste belle cose; come dire che non ne erano niente penetrati; adesso invece è venuto pur troppo il tempo mio e si ripete, aimè, quasi ridendo, cioè con la più profonda persuasione, che i due suddetti elementi, attaccati da poco in qua alla gioia ed al dolore, hanno assunto aspetti così incerti e così trascolorati che non si possono più, nonché separare, nemmeno distinguere. Ne è venuto che i miei contemporanei non sanno ora più essere né ben contenti, né bene malcontenti mai, e che voi solo non bastate più né a far fermentare il misurato sollazzo dei primi e né a divergere le sofistiche tremerelle dei secondi. Ci voglio io, che mescolo tutto scientemente, per fare svanire da una parte quanti più posso ingannevoli miraggi e per limare dall’altra quante più trovo superflue asperità. Vivo di espedienti e di cuscinetti, io…
– Bella vita! – esclama il vecchio.
E l’ometto smilzo seguita:
– … per arrivare possibilmente ad uno stato intermedio che rappresenti come la sostanza grigia dell’umana sensibilità. Si sente troppo adesso, come troppo s’è riso ad ufo ed a credenza in altri tempi: urge però che il pensiero regga le briglie alla più incomposta manifestazione del sentimento… Rimpiango sempre di non aver potuto ereditare le vostre illusioni, e mi rallegro nello stesso tempo di trovarmi di qua dal fosso, bene agguerrito contro alle insidie delle illusioni stesse! O che avete? Perché mi affisate a cotesto modo?
– Penso che se vuoi proprio avere due anime in una, fai molto bene a non assumere la famosa guardatura di quel vedovo innamorato, che a sinistra piangeva la morta e a destra faceva l’occhietto alla viva. Tu invece vuoi piangere e far l’occhietto insieme, da tutte due le parti, come dire che non ci si capisce più nulla.
IV.
Non si deve credere intanto che l’opera di Alberto Cantoni stia chiusa tutta quanta nel campo della critica letteraria. Già, anche quando essa tratti argomenti letterarii, sconfina spesso nella filosofia, e poiché non è mai soltanto esercitazione critica, ma anche rappresentazione artistica, entra nella vita e accoglie e muove profondi pensieri e complessi sentimenti. Così, in Pietro e Paola con seguito di bei tipi abbiamo l’amore tenerissimo del povero Pietro, prima legatore di libri, poi calligrafo, poi maestrino, per il suo scolaretto inglese Bill Bush, abbiamo la morte di Bill e de’ suoi vecchi genitori, a cui seguono tutte le comiche avventure di Pietro obbligato per testamento a scrivere un libro da dedicare alla memoria del piccolo Bill. Il pover’uomo non sa da che parte rifarsi, perché non ha mai pensato che, fra le tante disgrazie, gli potesse anche capitar questa sotto forma di benefizio. Comincia a frequentar le biblioteche, si mette a studiare, ma quanti più libri legge, quanto più studia, tanto più si sente avvilito e disorientato. Pensa allora che lo studio non può far presa su lui, perché egli non ha più nulla dentro, nessuno in cuore, con cui aprire l’animo, con cui sentire la vita; e, quantunque già troppo maturo, risolve di prender moglie. Trova la Musa, Paola, cioè l’arguzia affettuosa fatta persona; ma il soggetto del libro da scrivere non riesce a trovarlo. Egli doveva osservare e notar di suo capo; ma dove osservare e che cosa notare? Gli avviene di leggere un giorno su una targa infissa a una porta: «Dott. Nanni – Patemi d’animo – Cura e pensione». Cura e pensione dei patemi d’animo? E qual patema d’animo maggiore del suo? Prende la moglie e va con lei a mettersi a pensione dal dott. Nanni. Osserva tutto quanto gli accade là e se stesso, la moglie, il dott. Nanni e i bei tipi che vi stanno in cura; nota ogni cosa, prendendo l’imbeccata dall’arguzia affettuosa della moglie, e il libro speciosissimo è fatto. L’umorismo critico del Cantoni non ha qui anche un’intenzione satirica? Pietro, che va a cercare in una casa di salute l’argomento della sua narrazione, non significa nulla? Significa molto, a parer mio, e non solamente, per la nostra letteratura patologica, ma anche per la vita che oggi viviamo.
Tra i libri che non trattano argomenti letterarii ho già accennato a L’altalena delle antipatie, dove la critica è più propriamente psicologica e anche sociale. su l’istituzione del matrimonio; ho accennato a Più persone e un cavallo, che non ha niente che vedere con la critica letteraria; accennerò ora, brevemente, per finire, a due altri libri che rappresentano l’opera capitale e di maggior mole del Cantoni: cioè alle memorie di Un Re umorista e alle scene popolari dell’Illustrissimo.
Quest’ultimo libro, L’Illustrissimo, composto dal Cantoni una ventina d’anni fa e man mano rifuso, migliorato, accarezzato con somma cura, fu pubblicato dopo la morte dell’autore, prima su la Nuova Antologia, poi raccolto in volume, per mia cura. Anche in esso il Cantoni con predominio quasi assoluto dell’elemento fantastico, fa a suo modo – cioè col suo metodo artistico – opera di critica sociale, trattando il problema dell’assenteismo, del disinteressamento cioè e dell’ignoranza dei signori delle loro proprietà rurali e della vita dei contadini, da cui pur traggono, senza saper come né in qual misura, il reddito pei loro ozii cittadineschi più o meno delicati.
L’Illustrissimo è il signore, il padrone pei contadini della Lombardia: il padrone ch’essi non han mai veduto, e che si figurano tiranno spesso spietato attraverso il fattore ladro e parassita, con cui trattano; non si fanno perciò scrupolo di frodarlo come e quanto più possono. Il Cantoni immagina che questo Illustrissimo, il conte Galeazzo di Belgirate, giovane pigro e fantastico, dall’anima tranquilla e disutile. generoso senza avvedersene, il quale alla fine fa sempre piú e meglio degli altri quando la fortuna troppo gentile, lo piglia per il vestito e gliene porge l’occasione, un bel giorno sia mandato da una donnetta saggia e apparentemente capricciosa, sua cugina, donna Maria di Breno, in penitenza e per una prova d’amore – dice lei – ma in verità per fargli acquistare quell’esperienza che gli manca, nelle sue terre, fra i suoi contadini, per allogarsi come bracciante in casa d’un suo mezzaiuolo.
Il conte di Belgirate, naturalmente, in principio si ribella a questo straordinario, inverosimile capriccio della cuginetta, di così difficile attuazione per lui. Ma poi, considerando che egli una volta ha già mancato gravemente verso di lei, e che ella ora pone per patto alle nozze con lui questo esperimento, si fa coraggio e va.
Tutto il romanzo consiste nella narrazione, o meglio, nella rappresentazione delle peripezie che càpitano al conte di Belgirate, travestito da bracciante, nei cinque giorni che egli passa al servizio del suo mezzaiuolo Domenico Gervasi, detto Stentone, nella fattoria della Casanova, a Coronaverde.
Il Cantoni, come ho detto, visse a lungo in campagna nelle sue terre di Pomponesco, presso Mantova. Per star bene, o almeno discretamente in salute, egli avrebbe avuto bisogno di non essere travagliato da cure e da brighe. Ne ebbe molte, invece, e a causa appunto dei numerosi contadini suoi dipendenti. Entrati in un campo, si sa, i contadini vogliono starci a ogni costo, anche se la terra loro assegnata non sia sufficiente a nutrire la numerosa famiglia.
Quelli che il Cantoni mette in iscena nel suo romanzo sono studiati a uno a uno dal vero e ritratti nella loro indole, nelle loro passioni, nei loro pregi e nei loro difetti con meravigliosa efficacia. Le figure di Stentone, di Giovannona, di Nunziata, di Costantina, del buon Piangi e di Peppina, non si dimenticano più.
È difficile trovare in altri libri descritto con maggiore efficacia, senza esagerazioni in nero o in roseo, il carattere dei campagnuoli. Giovannona, la rustica virago, è una figura di tal rilievo, che se vogliamo trovarle compagni, dobbiamo cercarli nei Promessi Sposi. La stessa arte sana, sobria, occulta e fine, tutta armata di segreta ironia. Bisogna leggere le pagine nelle quali è descritto un iticendio in campagna, l’incendio doloso della Casanova. È una vera meraviglia d’arte!
La trovata originalissima rende poi oltre modo gustoso il romanzo che pur vuole avere, senza nuocere all’arte, serietà d’intenti sociali.
Non ne han meno certamente gli altri libri del Cantoni; ma poiché questo esce del tutto dal campo della critica letteraria e accoglie in sé per la sua mole maggior copia di sentimenti, sarà senza dubbio destinato a una più larga diffusione e diverrà presto, dopo il Re umorista, il libro più noto di Alberto Cantoni.
Ma è proprio noto a tutti, come dovrebbe essere, questo capolavoro del Cantoni che s’intitola Un re umorista? Molti, forse piú per la speciosità del titolo che per averlo letto, lo ricordano e ne parlano; ma se esso fosse noto veramente, starebbe per consenso unanime tra le poche opere culminanti della letteratura italiana contemporanea, tra le poche più originali ed espressive di tutta quanta la nostra letteratura moderna.
Chi l’ha letto una volta non dimenticherà mai piú la figura di questo re che sente tutta la miseria e l’oppressione della commedia che egli deve costituzionalmente recitare e che gli altri gli rappresentano attorno, che ha l’amarissima e suprema soddisfazione di potere anche strappare un buon lembo alla commedia universale e di rifarsi così alla meglio delle altre commedie particolari, in forma di magna charta o di costituzione. Egli domanda se sia giusto e benefico e regale che non abbia a poter giovare al suo popolo che da lontano, di rimbalzo, adagio adagio, quando gli venga fatto; che non possa quasi nulla per saziare direttamente gli affamati, per agguerrire i miseri, per rintuzzare i forti; che tutto gli abbia sempre ad arrivare davanti come triturato e pesto da tutti i denti di tutte le ruote amministrative; che i buoni lo amino e i tristi lo temano solamente per inteso dire; e per ultimo che non abbia mai ad essere quello che è, bensì che si lasci fare via via (almeno apparentemente) ora più rosso ora più nero a seconda dei partiti che stan sopra o sotto. Ma allora io dove sto? – esclama fra sé. – Più sotto di tutti per lo meno. «Re e sacerdote di un giovane popolo, con la fronte ricinta di edera e di lauro, avrei voluto porre il mio trono or sotto agli olivi ed or sotto alle querce dei boschi sacri, e di là avrei amministrato volentieri la giustizia, propiziato alla pace, bevuto ai mani, indetto la guerra. Ma così, santo Dio, così che gusto c’è?» E gli capita una moglie per ragion di Stato, che sa che l’etichetta va presa tal quale come una medicina, che più amara è, più giova; una moglie logica che prende cioè sul serio la sua parte. Quando ella depone la porpora, muta però anche il viso ed allora il re la vede apparire così cangiata che per poco non la riconosce più. Prende il partito di non guardarla mai quando sono davanti alla gente e di non guardare che lei quando sono in famiglia, perché in fondo non darebbe un dito solo di sua moglie per tutta quanta Sua Maestà la regina. E confessa: «Io non voglio dire che sieno due; so bene che una ha il viso lungo e tirato e che l’altra ha la faccia fresca e distesa, so che quella parla breve e quasi sentenzioso e questa invece non si quieta mai, so che una mi pare più magra e l’altra più grassa. Insomma mia moglie ha tutti gli aspetti di una buona madre di famiglia alla moderna e alla tedesca e la regina poteva nascere in ogni luogo ed in ogni tempo e sarebbe stata sempre la medesima regina». Perché ella finge, finge bene di non accorgersi dei fili che la tengon sú col suo manto regale e la sua corona, dei fili che la fanno muovere; mentre lui non sa fingere e da quei fili si sente impedito e legato; eppure ecco: così tenuto com’è, col tormento di non potere esser lui, ma di dover essere a modo degli altri, degli altri che sono tutto il suo popolo, di dover essere cioè nulla, una parola: il re, quand’egli sente bene d’esser uno, un uomo con pensieri proprii, con proprii sentimenti che gli s’inacidiscono dentro sempre più; eppure – dicevo – ecco: questo simbolo, che nulla è più, ora deve firmare una condanna di morte, deve aver su la coscienza la vita d’un uomo: lui! Un re la coscienza deve averla come gli altri: i suoi ministri, gliela fanno. Ma se questo re è un uomo e ha per conto suo una propria coscienza?
Sta qui tutto il conflitto reso da Alberto Cantoni in pagine memorabili, attraverso i tanti casi svariati che possono accadere a un re originalissimo.
Vi sono scrittori schiavi del tempo che pensano cioè e sentono e scrivono come il tempo vuole, ed hanno fortuna, e qualche volta anche gloria ed altissimi onori; e vi sono scrittori, che pur vivendo oscuri, solitarii e sdegnosi, lavorando nell’ombra con la tenace e vigile pazienza dei forti, ribelli segretamente a tutte le tirannie del tempo, alle idee comuni, che formano quasi l’atmosfera morale e intellettuale di esso, lo vincono con l’opera loro, anche quando sembra che ne rimangano schiacciati.
Alberto Cantoni era di questi. Quegli altri scrittori passeranno col tempo loro; l’opera di Alberto Cantoni rimarrà, perché non efimero frutto del tempo e della mutabile moda, ma frutto d’una particolarissima concezione ch’egli ebbe della vita e degli uomini.
Indice
I. Arte e scienza
II. Un critico fantastico
III. Illustratori, attori e traduttori
IV. Per uno studio sul verso di Dante
V. Poscritta
VI. Soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa
VII. Per l’ordinanza d’un sindaco
VIII. I sonetti di Cecco Angiolieri
IX. Appendice: Per le ragioni estetiche della parola.
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