Se il contenuto prima di diventar forma non ha qualità determinate o determinabili, vuol dire che le qualità di esso si possono determinare dalla forma, non già che non abbia qualità: la forma anzi – viene a dire il Croce – è determinata dalla qualità del contenuto; date espressioni, date impressioni: da una qualità all’altra non vi è passaggio.
Indice
I. Arte e scienza
II. Un critico fantastico
III. Illustratori, attori e traduttori
IV. Per uno studio sul verso di Dante
V. Poscritta
VI. Soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa
VII. Per l’ordinanza d’un sindaco
VIII. I sonetti di Cecco Angiolieri
IX. Appendice: Per le ragioni estetiche della parola.
I. – Arte e scienza
Rileggendo nel libro di Alfredo Binet Les altérations de la personnalité quella rassegna di meravigliosi esperimenti psico–fisiologici, dai quali, com’è noto, si argomenta che la presunta unità del nostro io non è altro in fondo che un aggregamento temporaneo scindibile e modificabile di varii stati di coscienza più o meno chiari, pensavo qual partito potrebbe trarre da questi esperimenti la critica estetica per la intelligenza del fenomeno non meno meraviglioso della creazione artistica, se oggi non fosse venuto in uso e in vezzo ostentare un soverchio disdegno per la intromissione (altri dice intrusione) della scienza nel campo dell’arte.
Certo, questo disdegno è suscitato in noi giustamente, almeno in gran parte, dagli eccessi di alcuni, diciamo così, troppo fantastici professori di critica antropologica, i quali, pur protestando qualche volta di non volere entrar giudici in materia d’arte e di letteratura, seguitano imperturbabili ad applicare a questo e a quell’artista le loro elucubrazioni patologiche fondate quasi sempre su l’ignoranza della materia artistica e letteraria, e perciò sconclusionate. Del resto, anche quando non si abbia la crassa ignoranza, è ben naturale che uno studioso, il quale passi da un laboratorio di fisiologia o da una clinica psichiatrica allo studio dei fenomeni estetici, non riesca per quanto faccia, a spogliarsi dell’abitudine di dare, nell’esame di questi fenomeni, una parte preponderante all’importanza che può avere il caso patologico nelle varie espressioni artistiche.
Ricordo che nella ricorrenza del centenario della nascita di Giacomo Leopardi uno psichiatra e un antropologo, in alcune conferenze ch’erano nel programma delle feste commemorative romane, si scialarono – tra l’indignazione di tutto l’uditorio – a dirne d’ogni conio su l’infelice poeta, e che uno dei due, l’antropologo, commentando a suo modo il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, ebbe il coraggio di notare non so che povertà di colore in quel canto sublime, da attribuire a non so qual difetto o malattia della vista del Leopardi.
Ebbene, se quell’antropologo avesse letto nel primo volume dei Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura ciò che il Leopardi stesso diceva intorno alla descrizione presso gli antichi e presso i moderni, rispondendo alle osservazioni di Lodovico di Breme sopra la poesia moderna o romantica, si sarebbe accorto che non per difetto o malattia della vista, bensì di proposito, per intenzione d’arte, il poeta descriveva e coloriva a quel modo, e non avrebbe detto una così marchiana bestialità. Rileggendo col lume di quella risposta al di Breme le poesie, si sarebbe accorto che, nel descrivere, il Leopardi pone – per così dire – innanzi agli occhi del lettore gli oggetti della natura, senz’altro:
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna…
Vuole che i sentimenti, mesti o lieti che siano, spirino da quegli oggetti naturalmente, da sé. « La natura, purissima, – dice, – tal qual’è, tal quale la vedevano gli antichi; le circostanze naturali, non procurate mica a bella posta, ma venute spontaneamente; quell’albero, quell’uccello, quel canto, quell’edificio, quella selva, quel monte, tutto da per sé, senz’artifizio, e senza che questo monte sappia in nessunissimo modo di dovei eccitare questi sentimenti, né che altri ci aggiunga, perché li possa eccitare, nessun’arte ». L’arte deve consister tutta nella scelta degli oggetti, nel porli nel loro vero lume, nel prepararci a riceverne quella data impressione, «doveché, in natura, e gli oggetti di qualunque specie sono fusi insieme e in vederli spessissimo non ci si bada».
Difficile veramente tenere a freno l’indignazione o anche, alle volte, una risata, nel vedere con quanta facilità e per quali ragioni questi tali professori di critica antropologica dàn patente di pazzia o di degenerazione ad artisti che, anche per poco, non stiano nella linea d’una astratta normalità. Tante volte, a tal proposito, ho fatto a me stesso la domanda: – Ma ci vuol proprio molto a intendere che la genialità non è, fondamentalmente, né può essere una specie di malattia mentale? Il pazzo è o prigioniero entro un’idea fissa e angusta o abbandonato a tutti gli eventi miserevoli d’uno spirito che si disgrega e si frantuma e si perde nelle proprie idee; senza varietà cioè e senza unità: il genio, invece, è lo spirito che produce l’unità organatrice dalla diversità delle idee che vivono in lui, mediante la divinazione dei loro rapporti; lo spirito che non si lega ad alcuna idea, la quale non diventi tosto principio d’un movimento vitale: unità cioè e varietà [1].
[1] Vedi a questo proposito G. Séailles, Le génie dans l’art, Paris, Alcan.
Parimenti è difficile tenere a freno una risata nel vedere come questi professori di critica antropologica o fisiologica non riescano a comprendere che se l’artista, in quel suo libero movimento vitale, talvolta crea leggi ch’egli stesso ignora, può talaltra anche sacrificare la così detta logica comune a un superiore effetto d’arte, perché il vero dell’arte, il vero della fantasia non è il vero comune. E non citerò il vecchio esempio di quel medico che discuteva sul serio e con molta gravità se la Venere di Milo non avesse per avventura una lussazione all’anca destra, e quell’altro di Gustavo Teodoro Fechner, ch’era anche medico e nel suo libro Vorschule der Aesthetik osservava che la Madonna di S. Sisto ha gli occhi troppo grandi e troppo distanti l’uno dall’altro e scorgeva non so che sintomo patologico nella pupilla largamente dilatata del Bambino ch’ella tiene tra le braccia.
Passando da queste elucubrazioni patologiche su l’arte a quelle della metafisica positivistica ed evoluzionistica, alle naturalistiche, alle psicologiche, alle sociologiche, ecc. ecc., è difficile non rivoltarsi quando, per esempio, lo Spencer nei suoi Principles of Psycology, dando ai sentimenti estetici una causa fisiologica, la scarica dell’energia. esuberante nell’organismo, e distinguendone poi i varii gradi, dalla sensazione semplice a uno stato di coscienza oltre le sensazioni e le percezioni, e concludendo che la forma piú perfetta del sentimento estetico si ha dall’accordo e dalla simultaneità di questi varii ordini mediante la piena azione delle facoltà rispettive, con la minima deduzione cagionata da ciò che vi è di doloroso nell’attività eccessiva, mena la coda di Minosse e giudica e manda l’arte dei Greci e la medievale e la moderna, che gli paiono ben lungi dalle forme dell’arte com’egli la intende, accomodata cioè ai suoi principii fisiologici e morali; o quando il Taine, cercando di dare una forma dimostrativa presa dalle scienze naturali al concetto dell’evoluzione sorto, secondo lui, dapprima in Germania, e consistente – com’egli stesso dice – nel rappresentare tutte le parti di un gruppo come solidali tra loro e complementari, in modo che a ciascuna di esse necessita il resto, e tutte unite insieme manifestano per via della successione loro e dei loro contrasti la qualità interiore che le raccoglie e le produce, proclama il principio che non vi ha alcuna differenza di natura tra il mondo fisico e il morale; che i fenomeni morali sono anch’essi soggetti al determinismo, proprio come i fenomeni fisici; che la storia umana rientra nella storia naturale e deve perciò praticarne il metodo; che se l’uomo è un animale che fa poesie allo stesso modo come l’ape l’alveare o l’uccello il nido, l’opera d’arte non deve più sembrarci quale un giunco fortuito dell’immaginazione, bensì come il prodotto di determinati fattori e di determinate leggi, e cioè di quella delle dipendenze e di quella delle condizioni, con le teorie che ne derivano: del carattere essenziale o della facoltà dominante, dalla prima; delle forze primordiali, razza, ambiente, momento, dalla seconda; e non s’accorge mai che, applicando con un rigore quasi geometrico questi suoi principii e queste sue teorie e considerando esclusivamente le opere d’arte come effetti necessarii di forze naturali e sociali, come documenti umani e segni d’uno stato dello spirito, non penetra mai veramente nell’intimità dell’arte.
Tuttavia, se da un canto son deplorabili questi eccessi, queste soggezioni che si vogliono imporre all’arte, queste deficienze d’estimativa estetica; dall’altro è innegabile che la scienza potrebbe non poco aiutare e corroborare la critica letteraria, la quale da noi è spesso o arida e nuda cronaca o retorica superficiale, pedantesca o cervellotica; aiutare, corroborare, illuminare anche la critica estetica che, prima metafisicamente macchinosa, ora, a furia d’escludere e di scartare come estranee o estrinseche tante questioni e tante vedute, che sono invece inerenti all’arte ed essenziali, si è ristretta specialmente per opera di Benedetto Croce a un’unica questione, a un’unica veduta, la quale, non riuscendo ad abbracciare tutto il complesso fenomeno artistico, quando non si sformi allargandosi arbitrariamente, incespica in continue contradizioni.
Il Croce, com’è noto, stacca nettamente nella sua Estetica l’arte dalla scienza, non però la scienza dall’arte; relega l’arte in un primo gradino, la scienza in un secondo, che presuppone il primo; dice così: «Il rapporto di conoscenza intuitiva o espressione, e di conoscenza intellettuale o concetto, di arte e di scienza, di poesia e di prosa, non si può significare altrimenti se non dicendo ch’è quello di doppio grado. Il primo grado è l’espressione, il secondo il concetto: il primo grado può star senza il secondo, il secondo non può star senza il primo».
Tutto il rapporto è assolutamente arbitrario, e l’arbitrio consiste appunto nell’avere fin da principio staccato con un taglio netto le varie attività e funzioni dello spirito, che sono in intimo inscindibile legame e in continua azione reciproca; nell’avere scisso la compagine della coscienza, considerandone solo una parte, che soltanto per astrazione può immaginarsi disgiunta dalle altre, e nell’aver fondato l’arte su questa.
Naturalmente da questo arbitrio non poteva venir fuori che un’Estetica astratta, monca e rudimentale.
Il Croce, com’è noto, pone due forme o attività dello spirito, una teoretica, distinta in intuitiva e in intellettiva, e una pratica. Con la forma teoretica, egli dice, l’uomo comprende le cose: con la forma pratica le va mutando: con la prima si appropria l’universo, con l’altra lo crea.
Dato che una separazione possa farsi, parrebbe a tutti che l’arte dovesse piuttosto consistere nella seconda forma o attività, che implica la mutazione delle cose e la creazione, non la semplice comprensione di esse.
Ebbene, no: il Croce considera l’arte come attività teoretica, come conoscenza nel primo momento della intuizione, e dà fuori quindi un’Estetica intellettualistica senza intelletto, fondata tutta su le sole rappresentazioni, naturalmente soltanto in base a un procedimento logico, e dunque astratta, come dicevo, monca e rudimentale.
L’arte, egli dice esplicitamente, è conoscenza, è forma: non appartiene al sentimento o alla materia psichica.
È noto che il Kant faceva delle sensazioni la «materia» della coscienza e della «sintesi» (che corrisponde alla «riflessione» del Locke) la «forma» di essa.
Tanto il Locke quanto il Kant non consideravano se non un lato solo della vita psichica, quello cioè delle rappresentazioni, della conoscenza. La forma del Kant consisteva dunque in un processo intellettuale. Il Croce, appigliandosi a un passo della Critica della ragion pura, dove lo stesso Kant, parlando della dottrina trascendentale degli elementi, distingue una forma, che non è la materia bruta della sensazione e non è neanche ciò che vi aggiunge l’intelletto (il concetto), e parla di una “trascendentale” Aesthetik, il Croce, dicevo, chiama forma, invece, l’insieme dei principii a priori della sensibilità, cioè l’intuizione pura: attività, teoretica bensí, ma non intellettuale; e su questa edifica la sua Estetica, ch’io perciò ho definito più sú intellettualistica senza intelletto: intellettualistica perché, anche ammesso che si possa dare davvero una conoscenza intuitiva libera d’ogni riferimento intellettuale, risulta sempre fondata su la conoscenza, cioè su un fattore solo della coscienza, la rappresentazione, astrazion fatta non solo dai sentimenti e dagli impulsi che l’accompagnano, ma anche dalle rappresentazioni della memoria che possono mescolarsi ad essa.
E la teoria del Croce, come vedremo, raggiunge gli estremi di quella teoria intellettualistica del Herbart, per il quale la coscienza era costituita da un meccanismo delle rappresentazioni, ritenute da lui come l’unico elemento psichico primitivo e nel loro continuo andare e venire non soggette a trasformazione.
Escludendo il sentimento e la volontà, cioè gli elementi soggettivi dello spirito, e fondando l’arte solamente su la conoscenza intuitiva, dicendo cioè che l’arte è conoscenza, il Croce non riesce a vedere il lato veramente caratteristico di essa, per cui essa si distingue dal meccanismo.
Il modo dell’essere e la qualità son dati dalla volontà e dai sentimenti: prima, abbiamo l’oggetto senza un modo d’essere determinato e senza valore. E come possiamo concepir davvero quest’oggetto, se non per astrazione?
La conoscenza teoretica del Croce non ci può dare dunque che un’astrazione, la obiettivazione delle cose, come può farla una qualunque scienza naturale.
Come nel mondo fisico regna l’equivalenza di causa ed effetto, così nel mondo estetico del Croce regna l’equazione: intuizione = espressione. Come la causalità fisica forma un tutto chiuso in sé, limitato da questa ferrea legge dell’equivalenza di causa ed effetto, cosí l’attività estetica è considerata dal Croce come affatto indipendente.
E come tutto il mondo fisico forma un meccanismo rigido, nel quale si possono prevedere con sicurezza gli effetti che da certe determinate cause derivano, cosí il mondo estetico del Croce forma un meccanismo altrettanto rigido. Né potrebbe essere altrimenti, dato il suo modo di concepir l’Estetica.
Il fatto estetico, com’egli lo intende, ha inevitabilmente tutti i caratteri del fatto fisico isolato per astrazione, cioè i caratteri di necessità, di fissità, assenza di fini e valore soltanto quantitativo.
Che cos’è l’intuizione per il Croce? L’atto dello spirito che forma, né più né meno – così, in astratto. Non questa o quella forma, modo d’essere, qualità: no: solamente l’atto dello spirito che forma, in astratto. Tutta la sua Estetica è qui. Egli non può vedere necessariamente, né ammettere altro; o almeno, se potesse star fermo nella sua teoria, non dovrebbe vedere e ammetter altro. Sostiene infatti in principio che non vi è alcuna differenza, se non quantitativa, tra l’intuizione in genere e l’intuizione artistica; « ciò che comunemente si chiama, per antonomasia, l’arte, coglie intuizioni più vaste e complesse di quelle comuni » – nient’altro – « i limiti delle impressioni e intuizioni che si dicono arte verso quelle che volgarmente si dicono non–arte, sono empirici: è impossibile definirli. Un epigramma appartiene all’arte; perché no una semplice parola? » Limiti empirici, questione di più o di meno. Naturalmente: perché per lui si tratta soltanto di oggettivare un’impressione della realtà, non di dare della realtà un’interpretazione soggettiva [2].
[2] – Giustamente il Cesareo, il quale riconosce che l’arte non è né può essere semplice conoscenza, si domanda: «Che divario c’è egli fra l’intuizione comune e l’opera d’arte? Cento, mille, diecimila, persone si levano di buon’ora e guardano un’alba in Lombardia. Tutti gli altri si contentano d’esclamare: Bell’alba! Alessandro Manzoni scrive: “Il cielo prometteva una bella giornata” col rimanente della mirabile descrizione che si ritrova nel cap. XVII dei Promessi Sposi. In che differiscono le due espressioni? Ecco: i primi hanno percepito quell’alba come uno spettacolo estraneo alla loro coscienza, come qualcosa che venisse di fuori, e dicendo: – Bell’alba! –hanno creduto di non far altro che esprimere una realtà oggettiva, la quale sembra la stessa per tutti. Il Manzoni invece diede dell’alba un’espressione nuova, perché tutta impregnata della sua coscienza individuale; le sue sensazioni, le sue immagini, le sue determinazioni egli sa bene che non esistevan già nel fenomeno, ma sono un prodotto della sua attività fantastica: tanto vero che niun altro le avrebbe trovate; egli in somma non ha rappresentato la realtà oggettiva, ma ne ha dato una sua interpretazione soggettiva e caratteristica ». V. La critica estetica nel vol. Critica militante, Messina, Trimarchi ed., 1907.
Sembra paradossale? Sì, risponde il Croce, sembra paradossale per l’illusione o pregiudizio che noi intuiamo della realtà più di quanto effettivamente ne intuiamo, che è poca cosa « e consiste in piccole espressioni; che si fanno via via maggiori e più ampie solo con la crescente concentrazione spirituale in dati momenti ». Ecco: crescente concentrazione spirituale in dati momenti: non si tratta d’altro. Perché « non si può ammettere, – soggiunge il Croce poco dopo, – che la intuizione, che si dice di solito artistica, si diversifichi dalla comune come intuizione intensiva.
La funzione artistica spazia più largamente, in campi diversi, ma con metodo non diverso da quello dell’intuizione comune, la differenza tra l’una e l’altra è perciò non intensiva ma anzi estensiva ». Curiosa, una concentrazione non intensiva, anzi estensiva!
Ma lasciamo andare.
Il Croce vorrebbe sfuggire alle strette del meccanismo e dimostrare la natura ideale della sua conoscenza intuitiva. Ora, certo, le rappresentazioni non coincidono con gli oggetti del così detto mondo esterno: sono anch’esse fatti soggettivi della coscienza e oggettivi sono solamente in quanto si riferiscono agli oggetti esteriori e costituiscono il materiale su cui si edifica il così detto mondo esterno. Nessuna cosa penetra nel nostro spirito, che subito non divenga simile ad esso. Ma perché questo? Perché se noi ristabiliamo l’unità della coscienza, considerandola non piú dal solo lato rappresentativo, ma nel suo duplice aspetto, oggettivo e soggettivo, troviamo subito mutate del tutto le condizioni: mutate le rappresentazioni per gli elementi soggettivi del sentimento e dell’impulso, perduto quel carattere di fissità che esse avevano per sé sole, isolate per astrazione. L’intuizione, dunque, non può essere semplice conoscenza, se non per una astrazione, che se può avere un valore logico, non ne ha però alcuno nella realtà. Tanto è vero questo che il Croce, volendo discendere dall’astrazione alla realtà, offende la logica prima con una petizione di principio, poi con un sofisma e in fine con una contradizione. Non vorrebbe distinguere affatto tra percezione e intuizione, cioè secondo che noi cogliamo l’oggetto nella sua composizione reale o impieghiamo un’attività cosciente nel coglierlo, o meglio, secondo l’importanza che attribuiamo nel primo caso all’obiettività dell’atto della rappresentazione e, nel secondo, alla subiettività di quest’atto: né vorrebbe poi distinguere tra intuizione e rappresentazione dell’immaginazione, quando cioè l’oggetto non sia più reale, ma puramente fittizio. Non vorrebbe distinguere, perché egli dice – « le percezioni della stanza nella quale scrivo, del calamaio o della carta che ho innanzi, della penna che ho tra mano, di questi oggetti che tocco e adopro come istrumenti dalla mia persona, la quale, se scrive, dunque esiste; sono intuizioni. Ma è egualmente intuizione l’immagine che ora mi passa pel capo di un me che scrive in un’altra stanza, in un’altra città, con carta, penna e calamaio diversi. Il che vuol dire che la distinzione di realtà e di non realtà è secondaria ed estranea all’indole dell’intuizione ».
Ecco la petizione di principio: egli afferma ciò che dovrebbe dimostrare, che cioè non vi sia alcuna differenza tra i varii atti dello spirito, secondo che esso percepisce o intuisce o si foggia una rappresentazione immaginaria, o meglio, tra l’importanza obiettiva o subiettiva che attribuiamo a quest’atto. «Supponendo, – egli soggiunge, –uno spirito umano che per la prima volta intuisce, sembra ch’egli non possa intuire se non realtà effettiva, ossia non aver se non percezioni del reale. Ma, giacché la coscienza della realtà si basa sulla distinzione d’immagini reali e d’immagini irreali, e questa distinzione nel primo momento non esiste, quelle percezioni non saranno, in verità, né del reale né dell’irreale; ma semplici intuizioni. Dove tutto è reale, niente è reale».
Ed ecco il sofisma. Implica l’intuizione un’attività cosciente dello spirito? Sì, se non si vuole scambiarla con la sensazione bruta. Ora, se uno spirito umano che per la prima volta intuisce è cosciente, e la coscienza della realtà si basa sulla distinzione d’immagini reali e d’immagini irreali, esso non può non distinguere tra quelle; e dunque l’intuizione non è – come il Croce sostiene – l’unità indifferenziata della percezione del reale e della semplice immagine del possibile. Tanto non è, che egli stesso, il Croce, più là, è costretto a negare quest’unità indifferenziata e a distinguere – contradicendosi reale ed irreale, l’intuizione storica, che presenta il mondo o la realtà qual essa è empiricamente, e l’intuizione fantastica, che lo prolunga entro i confini del possibile, ossia dell’immaginabile.
Ma anche questa distinzione, egli dice, è empirica. Certo: tutte le distinzioni per lui debbono esser per forza empiriche se, tenendosi ostinatamente fermo, nel suo ragionamento astratto che ha formulato la teoria dell’intuizione: atto dello spirito che forma, non vuol discendere al fatto, al concreto, che è il vero regno dell’arte.
Esiste il concetto come concetto? È sempre questo o quel concetto. Così la forma come forma non esiste: è sempre questa o quella forma. La costanza del concetto, come la costanza della forma non possono esistere se non teoreticamente. Costante, ma non uguale, e solo astrattamente può esser l’atto dello spirito nell’assurgere alla forma o al concetto; ma se dall’astratto passiamo al concreto, non sono più costanti né la forma né il concetto. Il Croce non vede e non vuol vedere altro che l’atto. E come lo vede? Meccanico, per necessità. Vorrebbe negare questo meccanismo, ma ogni negazione implica per forza una contradizione alla sua teoria.
Pone l’equazione: intuizione = espressione. « Ogni vera intuizione e rappresentazione è, insieme, espressione. Ciò che non si oggettiva in un’espressione non è intuizione o rappresentazione, ma sensazione e naturalità. L’attività intuitiva tanto intuisce quanto esprime… Come possiamo intuir davvero una figura geometrica se non ne abbiamo così netta l’immagine da essere in grado di tracciarla immediatamente sulla carta o sulla lavagna? Come possiamo intuir davvero il contorno di un paese, per esempio dell’isola di Sicilia, se non siamo in grado di disegnarlo così come lo vediamo in tutti i suoi meandri?» Ebbene, non è meccanismo questo? La rappresentazione e la conseguente espressione come qualcosa di fisso, d’immutabile. «Il pittore è pittore perché vede ciò che altri sente solo o intravede, ma non vede. Un sorriso crediamo di vederlo, ma in realtà ne abbiamo solo la vaga impressione, non ne scorgiamo i tratti caratteristici da cui risulta, come, dopo averci lavorato intorno, li scorge il pittore che perciò può fermarlo sulla tela». Non è meccanismo questo? Questione di più e meno: se noi intuissimo nella misura con cui intuisce il pittore, scorgeremmo i tratti caratteristici del sorriso, e li esprimeremmo così tali e quali, come se fossero davvero nel sorriso quei tratti caratteristici! E per questo appunto il Croce può dire che dalle qualità del contenuto alle qualità della forma non vi è passaggio e che ogni espressione esclude le altre.
Meccanismo, dunque, fissità, necessità, differenza quantitativa: tutti i caratteri del fatto fisico, ch’egli trasporta al fatto spirituale, teorico, cioè astratto.
Se da questo fatto teorico, astratto, scendiamo al concreto, e poniamo otto pittori ugualmente bravi a ritrarre su la tela qualcuno che sorrida, tutti e otto esprimeranno diversamente quel sorriso. Sì, si proverà a rispondere il Croce, perché ciascuno esprimerà la propria impressione, il proprio contenuto: in questo senso ho detto che dalle qualità del contenuto alle qualità della forma non vi è passaggio e che ogni espressione esclude le altre, cioè relativamente alla impressione.
– Oh bravo! Ma che cosa ha dato un modo d’essere, una qualità al contenuto? che cosa ha reso diverse le singole impressioni? Proprio quegli elementi soggettivi della coscienza, ch’egli ha esclusi, dicendo che l’arte è conoscenza e non appartiene al sentimento e alla materia psichica.
E non si può dire veramente che il problema non gli si sia nemmeno affacciato: egli lo discute, e dice proprio cosí: «Si è pensato talvolta che il contenuto, per essere contenuto estetico, ossia trasformabile in forma, dovesse avere alcune qualità determinate o determinabili. Ma, se ciò fosse, la forma sarebbe un fatto medesimo col contenuto, l’espressione con l’impressione. Il contenuto è, Sì, il trasformabile in forma, ma finché non si sia trasformato, non ha qualità determinabile: noi non ne sappiamo nulla. Esso diventa contenuto estetico non prima, ma solo quando si è effettivamente trasformato».
Ora, ragioniamo un po’. Se il contenuto prima di diventar forma non ha qualità determinate o determinabili, vuol dire che le qualità di esso si possono determinare dalla forma, non già che non abbia qualità: la forma anzi – viene a dire il Croce – è determinata dalla qualità del contenuto; date espressioni, date impressioni: da una qualità all’altra non vi è passaggio. Orbene, ammettendo questo e anche restringendo l’arte, come fa il Croce, a questa forma ch’è oggettivazione meccanica delle qualità del contenuto, essa non sarà piú semplice conoscenza, in quanto che la forma implica inevitabilmente già il modo d’essere e la qualità del contenuto, se non vuol essere un’astrazione. Ma questa qualità del contenuto non ha per sé, in arte, alcun valore e non ne ha dunque neanche la forma che la determina con la ferrea legge dell’equivalenza di causa ed effetto, perché l’arte non consiste in questa oggettivazione meccanica della qualità del contenuto, ma nella interpretazione soggettiva di queste qualità determinate dalla forma, come il Croce la intende, cioè oggettivate dall’intuizione.
L’arte dunque non è semplice conoscenza. La forma di cui egli parla è oggettivazione meccanica, fissa, immutabile, proprio quella che in arte non ha alcun valore; l’intuizione che non è ridivenuta sentimento e impulso. E tutta la teoria estetica del Croce crolla.
Stimo perciò inutile rilevare le conseguenze inaudite a cui egli è trascinato dal procedimento logico della sua astrazione.
Il fatto estetico non può consistere nel meccanismo dell’equazione posta da lui a fondamento della sua Estetica. Molti hanno accolto questa equazione, perché non han compreso veramente che cosa il Croce intendesse per intuizione e che per espressione. Quando noi abbiamo considerato nella nostra coscienza le percezioni e le rappresentazioni della memoria, le idee, i concetti, insomma le forme varie della conoscenza, e dall’altro canto i sentimenti, gli impulsi, desiderii, risoluzioni, insomma le forme varie della parte soggettiva della coscienza, senz’alcuna priorità dell’una forma su l’altra, ma questi e quegli elementi in intima connessione e in continua azione reciproca, non avremo neanche allora il fatto estetico, ma solamente e semplicemente il fatto psichico, comune.
Perché il fatto estetico avvenga, bisogna che si abbia non la espressione, la forma astratta, meccanica, oggettiva della intuizione, ma la soggettivazione di essa; perché il fatto estetico avvenga, bisogna, in altri termini, che l’intuizione non sia l’impressione formata astrattamente, meccanicamente, oggettivamente, ma la forma concreta, libera e soggettiva d’una impressione.
Questa concretezza, questa libertà, questa soggettività – può domandarci il Croce – non sono già nella intuizione, conoscenza dell’individuale? No, gli rispondiamo noi, perché, finché c’è semplice: conoscenza, non ci può esser altro che astrazione: cioè la forma astratta, oggettiva, meccanica dell’individuale. Perché sia concreta, libera, soggettiva, questa forma dell’individuale bisogna che cessi d’esser semplice conoscenza e ridiventi sentimento e impulso: non la forma d’una impressione individuale, ma la forma individuale d’una impressione; non quella Bell’alba, di cui parla il Cesareo nella nota a pag. 169, ma la bell’alba descritta dal Manzoni nel cap. XVII dei Promessi Sposi.
Questione di più o meno, quantitativa? No! Perché quella è una forma astratta, oggettiva, meccanica, e questa una forma concreta, libera, soggettiva. La differenza è qui, ed è qualitativa, non quantitativa, giacché non dobbiamo misurar la quantità della qualità oggettiva, ma la qualità della quantità espressiva; non la qualità astratta di quell’alba, ma la qualità concreta nella forma del Manzoni: la qualità, insomma, non del contenuto oggettivato, che non importa nulla, ma della forma soggettiva, che è tutto. L’arte, insomma, è creazione della forma, non intuizione del contenuto: e dunque è proprio, se vogliamo usare i termini del Croce,l’intuizione d’una intuizione. Essa non è tutta in materia forma, come il Croce la vede, ma in materia–forma–materia. Tant’è vero che ridiventa impressione, in base a cui prima l’autore laprova e poi il critico la giudica. L’impressione, divenuta espressione (interna), bisogna che ridiventi impressione, materia elaborata.
Il Croce crede che l’elaborazione avvenga nell’atto dell’intuizione: ma noi abbiamo veduto che questa non può darci che una oggettivazione meccanica della materia. L’elaborazione artistica avviene quand’essa, dopo essere stata intuita, man mano ridiviene impressione.
Dopo che il corpo si è fatto spirito, bisogna che lo spirito si faccia corpo. L’immagine, materia nell’origine, spirito nella sua vita interiore, bisogna che ridiventi materia, cioè lei stessa, ma divenuta sensibile, materiale e spirituale a un tempo.
Il Croce è rimasto prigioniero entro l’idea fissa e angusta dell’intuizione. Questa manía gli ha impedito di vedere tutta la varietà del fenomeno estetico, non solo, ma di coglier poi l’idea complessa, organatrice di questa varietà. Egli la nega, perché l’idea per lui è semplicissima, astratta, rudimentale, quella appunto in cui s’è fissato. Ora diceva bene Claudio Bernard, meglio non saper nulla che avere idee fisse.
Il rapporto tra arte e scienza, come il Croce lo pone, non esiste, perché l’arte non sta in quel primo gradino, non è un’attività sola dello spirito, ma tutto lo spirito, che, così nella scienza come nell’arte, si esplica non in due modi soltanto distintamente separati, bensì tutto quanto in questo e in quel modo, liberamente, cioè solo a seconda della materia su cui si esercita e del fine a cui tende. Né il fine e la materia limitano o determinano l’arte: dicono soltanto che la concezione non è a caso: essa tuttavia è libera, perché voluta per se stessa, e com’essa si vuole.
Non entrerò nella questione psicologica, se possa darsi veramente una conoscenza intuitiva, libera d’ogni riferimento intellettuale. L’arte per me non è semplice conoscenza. Che questa possa essere intuitiva senz’essere intellettuale, il Croce del resto lo afferma, ma non lo dimostra. Dice soltanto questo: « L’impressione di un chiaro di luna, ritratta da un pittore; il contorno di una paese delineato da un cartografo; un motivo musicale, tenero o energico; le parole di una lirica sospirosa, e quelle con le quali noi chiediamo, comandiamo e ci lamentiamo nella vita ordinaria, possono bene esser tutti fatti intuitivi senza ombra di riferimenti intellettuali ». Ora, lasciamo andare che questo è, prima di tutto, un guazzabuglio, perché son messi insieme, accozzati, il chiaro di luna del pittore col contorno d’un paese delineato da un cartografo, un motivo musicale, le parole d’una lirica con quelle d’una preghiera, d’un comando, d’un lamento come si rivolgono nella vita ordinaria (tale accozzo si spiega benissimo nel Croce, come abbiamo veduto, per la rudimentalità della sua Estetica); ma lasciamo andare, dicevo, il guazzabuglio: questa è ancora una petizione di principio: bisognava dimostrare che l’impressione d’un chiaro di luna ritratto da un pittore, il contorno d’un paese delineato da un cartografo, un motivo musicale, le parole d’una lirica, ecc. siano o possano essere semplici fatti intuitivi, prima, e poi senz’ombra di riferimenti intellettuali. Si può dimostrare il contrario, dimostrare cioè che il chiaro di luna non è né può essere ritratto dal pittore e un contorno di paese non è né può essere delineato da un cartografo finché restano fatti semplicemente intuitivi. Conoscere intuitivamente nel modo come il Croce l’intende, fuori cioè d’ogni riferimento intellettuale, è come conoscere soltanto di vista qualcuno. Ora il Croce stesso dice che «è stato osservato da coloro che hanno meglio indagato la psicologia degli artisti che, quando dal vedere con sguardo rapido una persona ci si dispone ad intuirla davvero per farle, ad esempio, il ritratto, quella visione ordinaria, che sembrava così vivace e precisa, si rivela per poco men che nulla: ci si accorge di possedere tutt’al piú qualche tratto superficiale, non bastevole neppure per un pupazzetto: la persona da ritrarsi si pone innanzi all’artista come un mondo da scovrire». Che vuol dir questo? Il Croce crede di rimanere, dicendo cosí, nel campo intuitivo, indipendente da tutto il resto e anche dall’intellezione: non sospetta minimamente che ciò che egli chiama intuir davvero implica ben altro che la semplice intuizione e anche un riferimento intellettuale, perché se io debbo fare il ritratto a uno, bisogna che lo pensi anche e lo veda come un ritratto (non come il ritratto, astrattamente, si noti bene, ma come quel ritratto, il ritratto di quel dato individuo), bisogna, in altri termini, ch’io ne abbia l’idea.
Certo l’idea non ha valore in arte se non quando si fa sentimento, se non quando, dominatrice di tutto lo spirito, diviene quell’impulso che suscita le immagini capaci di darle espressione vivente. L’arte, non c’è dubbio, non muove da un’idea astratta, non deduce mediante il ragionamento le immagini che a quest’idea astratta possano servir da simbolo. Se talvolta lo fa, e ne abbiamo pur troppo tanti esempii nell’arte cosí detta simbolista, le opere ch’essa produce sono per questo soltanto condannate. Ma si deve dir forse con questo che l’intelletto non ha nulla da far con l’arte? L’idea non può essere assente dall’opera d’arte, ma dev’esser sempre, tutt’intera in quell’emozione feconda, ond’è creata. Erro dunque se per mezzo del ragionamento, cioè logicamente, la realizzo in arte; non erro più però se la realizzo per mezzo della fantasia. Funzioni o potenze antitetiche, insomma, son fantasia e logica, non fantasia e intelletto: antitetiche, ma non così nettamente separate e distinte da non aver reciproca azione tra loro. Tanto è vero che ogni opera di scienza è scienza e arte, come ogni opera d’arte è arte e scienza. Solo, come spontanea è l’arte nella scienza, cosí spontanea è la scienza nell’arte.
Già l’ispirazione, che è il movente iniziale della fantasia, è istintivamente ed essenzialmente logica cosí nell’arte come nella scienza.
Dalle combinazioni sintetiche e simultanee create spontaneamente dall’arte non può forse svolgere la critica, col sussidio dell’analisi scientifica, tutti quei rapporti razionali e tutte quelle leggi che dimostrano come in ogni arte sia inclusa una scienza, non riflessa, ma istintiva; rapporti, leggi che vivono nell’istinto degli artisti, e a cui l’arte obbedisce senza neppure averne il sospetto?
Per quanto libera, per quanto in apparenza indipendente da ogni regola, essa ha pur sempre una sua logica, non già immessa e aggiustata da fuori, come un congegno apparecchiato innanzi, ma ingenita, mobile, complessa.
L’armonia d’ogni opera d’arte può essere scomposta dalla critica, per mezzo dell’analisi, in rapporti intelligibili; e in quest’armonia la critica può scorgere una scienza, un insieme di leggi complesse, di calcoli senza fine, che l’artista ha concentrato nella sua azione spontanea. Tutte le osservazioni di lui si rivelano, appaiono penetrate d’intelligenza; il suo piacere è uno strumento di precisione che calcola senza saperlo.
Ecco qua un esempio, il primo che mi cade in mente. La metrica italiana non suole tener conto della maggiore o minor lunghezza delle sillabe; eppure è certo che non tutte le sillabe nella lingua nostra si pronunziano in un tempo uguale. Lo dimostrò matematicamente il Fraccaroli applicando alla lingua nostra il ragionamento fatto dal Westphal per la lingua greca: tanto piú lunga è una vocale quante piú consonanti le stanno innanzi o indietro. La metrica classica teneva conto della lunghezza per posizione; ma, divise le sillabe in lunghe e brevi, non badava poi alle ulteriori differenze. Similmente la metrica nostra, stabilita per tutte le sillabe una quantità sola, non tien conto nella teoria ritmica delle differenze accidentali o naturali. Eppure è certo che le consonanti allungano le sillabe e che le sillabe lunghe ritardano il ritmo. Ora il poeta può non sapere questa legge, che la critica scopre per spiegar l’efficacia di certi versi il cui ritmo evidentemente è ritardato per queste lunghezze accidentali; come ad esempio il ritmo anapestico del verso:
aspra stride la ruota del carro;
eppure egli, il poeta, istintivamente, volendo render l’impaccio, lo stento di quella ruota di carro, obbediva a questa legge.
E quante volte l’arte non precede la scienza che pur contiene in sé naturalmente, non riassume nelle sue opere tante e tante leggi svolte poi lentamente, dopo lungo e paziente studio, dall’analisi scientifica!
Come l’azione sintetica del genio spontanea si trova nella scienza, opera del pensiero riflesso, così nell’opera d’arte, libera creazione, si trova inclusa una scienza che ignora se stessa. La logica che qui è istintiva, là è riflessa; la fantasia che qua è cosciente è là incosciente.
Chi non s’accontenta più d’un giudizio su le opere d’arte fondato soltanto o quasi del tutto su gli effetti che essa produce su la sensibilità relativa e vuole spiegarsi le riposte ragioni della loro efficacia possente, deve pur ricorrere a questa critica che ci pone in grado di intravedere almeno tali ragioni: quella scienza che l’artista spontaneamente concentrava in quelle espressioni d’arte.
Indice
I. Arte e scienza
II. Un critico fantastico
III. Illustratori, attori e traduttori
IV. Per uno studio sul verso di Dante
V. Poscritta
VI. Soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa
VII. Per l’ordinanza d’un sindaco
VIII. I sonetti di Cecco Angiolieri
IX. Appendice: Per le ragioni estetiche della parola
Se vuoi contribuire, invia il tuo materiale, specificando se e come vuoi essere citato a
collabora@pirandelloweb.com