Di Elio Providenti.
Possiamo noi oggi considerare pazzia quella di Antonietta? Indipendente e libera si proclamava, e così si comportava da donna senza vincoli obbliganti.
Antonietta Portolano nata Pirandello
Prefazione al libro di Lucia Modugno, «Pirandello questo mio sconosciuto – Antonietta Pirandello nata Portolano» (Edizioni All Around, 2023) dedicato alla vita dello scrittore e alle donne da lui conosciute, dalla cugina Lina, la prima fidanzata, a Jenny Schulz Lander, alla moglie Antonietta ed infine a Marta Abba.
“Buona siesta, Nietta mia!” – così Luigi dedicava la prima edizione de Il turno, il suo secondo romanzo, alla moglie. Erano i primi tempi del matrimonio e tutto sembrava filare liscio. Ma c’era qualche segreto in quell’unione che la corrodeva lentamente. Era il disprezzo e l’avversione di Luigi verso il suocero, che Antonietta si sforzava di comprendere ma che certo temeva potesse anche riflettersi su di sé. La contrapposizione tra le due famiglie era di sicuro deleteria e se n’ebbe la prova quando scoppiò l’insofferenza di Antonietta verso la cognata Lina, la sorella prediletta di Luigi, la più comprensiva e a lui vicina artisticamente e spiritualmente.
Ma che aveva Calogero Portolano di così insoffribile per Luigi? Aveva qualcosa che mancava nella sua famiglia: il successo nell’attività commerciale, la superiorità nel fiutare l’affare vantaggioso, le ricchezze che aveva saputo accumulare. Il carattere geloso, le storie di paese su di lui, erano invece quel che Luigi portava avanti e che ne facevano una figura grottesca, da novella, fino all’accusa di aver fatto morire la moglie senza assistenza del medico quando stava partorendo.
Diciamolo francamente: la situazione era diversa. Stefano, il padre di Luigi, era preoccupato per questo figlio che in tante occasioni ormai aveva mostrato la sua incapacità a trovarsi una sistemazione. Ora l’occasione s’era presentata su un piatto ricco offerto da Calogero Portolano che, come tanti padri a quel tempo, non vedeva l’ora di liberarsi della figlia femmina, un peso per la dote, per il corredo e per tutto ciò che doveva ancora portar via.
E naturalmente ecco il disdegnoso Luigi inalberarsi quando il futuro suocero aveva mostrato riserve sui tempi troppo affrettati del matrimonio. Luigi a Roma ne aveva parlato con gli amici letterati, aveva dato per sicura la data ed ora doveva smentirsi. Tutto all’aria! La disdetta dell’affitto, il mobilio nuovo rispedito in Sicilia disastrosamente, e tutto sulle spese di papà. Che figlio impossibile quel Luigi!
Ma il carattere di Antonietta? Il padre aveva creduto di salvarla da quel matrimonio e le aveva proposto un altro partito: nulla da fare! Alla ragazza era piaciuto il poeta e quello voleva. Anche lei dimostrava di avere un suo caratterino. Dopo il primo rodaggio del matrimonio – si diceva – cominciarono a definirsi i limiti di entrambi. Presto lei ebbe coscienza che senza la sua dote il suo poeta non era capace di portare a casa nient’altro che parole. Abituata a un esempio diverso, quello paterno, cominciò a valutare meglio l’uomo che aveva sposato, sempre chiuso nello studio a scrivere, privo di senso pratico, incapace di amministrare neppure quella rendita che la dote fruttava quadrimestralmente. Per Nietta la stima era proporzionata alle capacità produttive, e il suo uomo le sembrava un fallito, buono solo a infastidirla quando, troppo spesso, come lei diceva, “era sotto la ninfa”.
E Luigi? Sentiva di non essere compreso, aveva creduto di conquistarla con il suo Gran me ed il suo piccolo me, con le sue fantasie, con le sue poesie. Nulla! La sordità di Antonietta era completa, non subiva alcun fascino dall’Arte! Questa situazione alla lunga non poteva che degenerare. E cominciarono i primi litigi legati alle difficoltà del crescere della famiglia. Dopo l’aborto iniziale di una bambina il cui nome doveva essere Caterina e che rimase indelebile, come creatura vivente, nella memoria di Antonietta, sempre in giugno, a distanza di due anni l’uno dall’altro, nacquero Stefano (1895), Rosalia Caterina (1897) e Calogero Fausto (1899), tutti nomi già programmati su quelli dei rispettivi genitori. I figli, si sa, chiedono cure e sono preoccupazioni, e Luigi risolveva tutto con nuova servitù, balie e aumento delle spese.
La botta micidiale arrivò nel 1903 quando il padre Stefano, com’era accaduto già altre volte in passato, ebbe un rovescio di fortuna. Dopo gli anni floridi, lo sfruttamento dello zolfo siciliano era diventato difficoltoso per la concorrenza americana, cui si aggiunse per don Stefano l’improvviso allagamento di una miniera. Fu il tracollo, e il paragone tra i due consuoceri divenne micidiale, perché Calogero, inascoltato, aveva intuito la situazione ed esortato Stefano a cambiare in tempo il giro dei suoi affari. La dote di Antonietta era così finita nella voragine aperta dalla miniera allagata. Il colpo peggiore arrivò nella casa di Luigi dove finì improvvisamente il sostegno vitale dei versamenti quadrimestrali.
A questo punto l’Arte doveva fare il miracolo, ma non lo fece: anche Il fu Mattia Pascal, il capolavoro letterario che dà inizio al XX secolo, ebbe per il momento un successo economico mediocre, e il povero Luigi dovette continuare ad arrabattarsi nella desolazione d’un doppio fallimento, quello del padre e quello suo. Anni difficilissimi, pieni di disperazione, cui si aggiungeva anche una inaspettata Antonietta, reclamante ragione della distruzione della sua dote.
L’autoritratto di sé e della sua consorte, Luigi ce lo darà alcuni anni più tardi, nel romanzo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, con la figura di Fabrizio Cavalena, autore di scenari cinematografici per la Kosmograph, notissimo col nomignolo di Suicida perché, afflitto dalla gelosia della moglie,
«nell’inferno della sua casa, abituato a vedere il mondo come una galera, pare che, per quanto si sforzasse, non riesciva a comporre una trama di film senza che a uncerto punto non ci scappasse un suicidio».
Ed ecco come in un flash il suo ritratto insieme alla moglie:
«Cavalena, con la solita faccia di limone ammuffito, tra i riccioli della parrucca sotto il cappellaccio a larghe tese; [e] la moglie come una bufera a stento contenuta, col cappellino andatole di traverso […]. Dio, che faccia la signora Nene! Faccia divecchia bambola scolorita. Un casco compatto di capelli già quasi tutti grigi le opprime la fronte bassa e dura, in cui le sopracciglia giunte, corte, ispide e dritte, sembrano una sbarra fortemente segnata a dar carattere di stupida tenacia agli occhi chiari e lucenti d’una rigidezza di vetro».
Con la morte di Calogero Portolano nel 1909 Antonietta erediterà una quota parte delle sue ricchezze che ne faranno un’agiata possidente. A questo punto tutti i legami coniugali cominceranno a cedere. Che farsene di quell’inetto che scrive, scrive ed è sempre in bolletta? Vuole andare in Sicilia ad amministrare le sue proprietà: nessuno può impedirglielo, Antonietta parte e porta con sé i figli. Luigi si arrangerà come meglio crede: è la vita di Fabrizio Cavalena…
Possiamo noi oggi considerare pazzia quella di Antonietta? Indipendente e libera si proclamava, e così si comportava da donna senza vincoli obbliganti. La chiusura in una casa di riposo per malati mentali, molto sofferta e combattuta da parte del figlio Stefano, risulterà viceversa una liberazione per tutti, anche per la rinchiusa che troverà un ritmo di vita cui si abituerà senza resistenze, come mostrerà dopo alcuni anni quando i figli e lo stesso Luigi, nell’estate del 1924, affittata la villa Verdiani sulle pendici di Monteluco di Spoleto, penseranno di riprenderla con loro. La donna, all’idea di doversi rituffare nella vita, come l’Enrico IV della tragedia, o il Vitangelo Moscarda dell’ Uno, nessuno e centomila, all’ultimo momento girerà le spalle alla vita per ritornare nel suo angolo di quiete e di solitudine.
Elio Providenti
Università degli Studi di Macerata
31 marzo 2019
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