Andrea Camilleri: Il Padre nei Sei Personaggi e il padre di Pirandello

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Gli spettatori sì rimasero disorientati inizialmente quando, entrando nella sala, videro che il sipario era aperto e che sul palcoscenico non c’era traccia di scenografia, alcuni si fecero persuasi che lo spettacolo era stato rimandato, anche perché c’era un macchinista che inchiodava qualcosa.

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Sei personaggi
Andrea Camilleri. Immagine dal Web.

Il Padre nei Sei Personaggi e il padre di Pirandello

da Biografia del figlio cambiato
Rizzoli, Milano 2000, pagg. 215-230
© Casa Editrice Rizzoli

L’ARRIVO DI DON STEFANO
Morta la moglie, don Stefano è rimasto solo i suoi figli si sono fatte le loro famiglie.
In più, la sua salute è peggiorata: mezzo cieco, cammina con difficoltà, ha bisogno d’assistenza. Certamente ci saranno stati scambi di lettere tra i figli per trovare una sistemazione decorosa al vecchio padre, ma alla fine si risolve di seguire la consuetudine siciliana che è quella che il padre, quando rimane vedovo ed è malato, vada ad abitare in casa della figlia maggiore, magari se questa è maritata. Così don Stefano, facendosi accompagnare dal figlio Giovanni, va da Lina a Roma dove lei si è trasferita con la famiglia. Lina gli mette a disposizione una stanzetta del suo appartamento che è proprio sotto a quello dove abita Luigi.Sicuramente ci sarà stato un diverbio tra Luigi e la sorella: Lina non è in condizioni economiche da far fronte ai bisogni di don Stefano e Luigi si sarà impegnato a dare un contributo alle spese.
E una partecipazione alla quale non può sottrarsi anche se lo volesse: gli “tocca”, come si dice dalle sue (e mie) parti, è un atto dovuto. Ma si viene a creare una situazione logistica che, di certo, nei primi tempi, avrà messo a disagio Luigi che col padre aveva da tempo interrotto i rapporti.

La villetta pigliata in affitto si trova in via di Pietralata, è circondata da un giardinetto e vi si arriva per una fangosa impraticabile viuzza quasi campestre. Una foto di quegli anni ci mostra don Stefano nel giardino, tutt’e due le mani serrate attorno al bastone, la coppola, gli occhi stretti darrè gli occhiali, magro di vecchiaia e di malattia, e dietro si scorge la villetta dove abita coi familiari. Diventano quindi inevitabili gli incontri col padre, soprattutto quando egli va a scambiare quattro chiacchiere con la sorella Lina alla quale è sempre stato legatissimo. E spesso avrà visto, dalle finestre di casa, don Stefano aggirarsi con passo malfermo nel giardino, avrà visto la profonda trasformazione fisica di quell’uomo che nella sua memoria vive ancora giovane, attivo, violento. E qualche altra volta l’avrà visto addormentato sulla panca del giardinetto o su una poltroncina di vimini portata lì apposta.

Dormiva… col capo calvo, incartapecorito, reclinato indietro penosamente… Ma era un sonno ben diverso, il suo. Sonno a bocca aperta, di vecchio stanco e malato. Le palpebre esili pareva non avessero più forza neanche di chiudersi sui duri globi dolenti degli occhi appannati. Le narici s’affilavano nello stento sibilante del respiro irregolare che palesava l’infermità del cuore. Il viso giallo, scavato, aguzzo… con quel filo di bava che pendeva dal labbro cadente… Che crudeltà, che crudeltà di spettacolo, quel sonno di vecchio! Era pure nella miseria infinita di quel corpo stremato in abbandono la dimostrazione più chiara delle verità nuove che gli s’erano rivelate.

La citazione è tratta da una novella intitolata La fede, raccolta in volume nel 1922.
Racconta di un giovane prete che sente di aver perduto la fede e vuole andarlo a dire a un vecchio sacerdote dal quale dipende, ma lo trova addormentato. E le verità nuove che gli s’erano rivelate nella novella si riferiscono naturalmente alla crisi di fede del giovane prete. Ma l’amaro sonno del vecchio don Stefano non avrà a sua volta rivelato una verità nuova a Luigi? Del resto, la madre-personaggio glielo aveva già detto nel Colloquio del 1915:

Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sacre e più belle.

E prima aveva raccontato, parlando del marito:

 Avevo già ventisette anni e non volevo più sposare; mi toccò sposare perché lui lo volle, lui che poteva imporsi al mio cuore con la bella persona e più, in quei fervidi anni, con l’animo che voi figliuoli gli conoscete, per cui ancora, vecchio, esulta e si commuove come un bambino per ogni atto che accresca onore alla patria…

E certamente Luigi l’avrà visto commuoversi e piangere, lì, nel giardinetto per le belle notizie della guerra vittoriosa.
Ecco, taliàrlo e ritaliàrlo, quel padre, soprattutto lui, come una delle cose che vanno guardate con altri occhi: forse con gli occhi coi quali un autore guarda un probabile personaggio. Come, del resto, è già capitato con la madre.

IL CONFRONTO
Del resto, personaggio don Stefano lo era già stato nei tre atti della Ragione degli altri, incentrati sul rapporto del padre con la cugina ex fidanzata. Nella realtà, quell’episodio era indissolubilmente legato a un gesto: quello di Luigi che sputa in faccia all’amante del padre mentre questi se ne sta nascosto dietro una tenda e se ne vedono solo le punte delle scarpe. Ora si tratta di strappare quella tenda, portare alla ribalta colui che vi sta dietro, ricrearlo come personaggio visto non più con gli occhi allora offesi di figlio, ma con quelli di autore, altri occhi. Per fare ciò però, più che una lunga e attenta osservazione, occorre un confronto continuo, quotidiano. Ed è un confronto che si svolge su due piani: quello della realtà del padre vecchio e di Luigi padre a sua volta e quello della memoria, quando Luigi era il figlio che non voleva riconoscersi come tale, un figlio cambiato.

È di quegli anni una novella dal titolo emblematico, Quando si comprende. Si svolge in uno scompartimento ferroviario, è il dialogo tra una coppia di genitori che vanno a salutare il figlio che parte per la guerra e gli altri viaggiatori. A un certo momento uno di questi dice:

I figliuoli vengono, non perché lei li voglia, ma perché debbono venire; e si pigliano la vita; non solo la loro, ma anche la nostra si pigliano. Questa è la verità. E siamo noi per loro; mica loro per noi. E quand’hanno vent’anni… ma pensi un po’, sono tali e quali eravamo io e lei quand’avevamo vent’anni. C’era nostra madre; c’era nostro padre; ma c’erano anche tant’altre cose, i vizii, la ragazza, le cravatte nuove, le illusioni, le sigarette…

E siamo noi per loro; mica loro per noi: l’ha duramente sperimentata sulla propria pelle la verità di quest’asserzione. Si è impegnato fino a mettere a rischio la sua dignità perché Stefano fosse liberato dal campo di concentramento boemo; si è reso quasi ridicolo agli occhi di un generale protestando a favore del figlio Fausto; ha dovuto spedire in esilio Lietta per salvarla dalla furia della madre… Ma cosa ne ha ottenuto? Avverte già da adesso che Fausto saprà sempre mettere una certa distanza tra lui e le cose che fa sia come uomo che come pittore, prescindendo dall’affetto filiale; sa che Lietta è pronta ad abbandonarlo perché sente ingiusto l’esilio al quale l’ha costretta. E Stefano ha seguito i consigli che lui gli ha mandato per posta, soprattutto quello di non pensare? O forse questa invadente, amorosa paternità sempre presente non solo negli atti ma magari nei pensieri dei figli è una forma di violenza simile nella sostanza, anche se diversa nella forma, a quella che don Stefano era abituato a esercitare nella sua famiglia?
Domande, dubbi, perplessità.
E gli torna insistente alla memoria l’episodio chiave della rottura col padre, quando lo sorprese con l’amante. “Rimase in lui un segreto cruccio di colpa e di rimorso”, scrive Gaspare Giudice. E lo stesso Pirandello, tornando sull’episodio nella novella del 1923, intitolata Ritorno, dice che da un pezzo si sentiva pungere segretamente dal rimorso d’aver lasciato il padre… senza volersene curare.
E adesso che se lo vede davanti ogni giorno, così malridotto, a che livello sale il disagio, il “segreto cruccio”?
E poi, soprattutto: perché allora il quattordicenne Luigi non strappò la tenda limitandosi a sputare sulla donna? Sarebbe stato così facile e anche logico, naturale, in preda come era al disgusto e alla crudele intransigenza della giovinezza.
Non lo fece per non incontrare gli occhi del padre? Perché quel corpo nascosto dalla tenda restasse senza un volto che eternamente si stampasse nella memoria? Intuiva già da allora che un giorno sarebbe arrivata l’ora della ragione, l’ora di quando si comprende?

IL PADRE Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi – veda – si crede “uno” ma non è vero: è “tanti”, signore, “tanti”, secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi.- “uno” con questo, “uno” con quello – diversissimi! E con l’illusione, intanto, d’esser sempre “uno per tutti”, e sempre “quest’uno” che ci crediamo, in ogni nostro atto. Non è vero! Non è vero!
Ce n’accorgiamo bene, quando in qualcuno dei nostri atti, per un caso sciaguratissimo, restiamo all’improvviso come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non esser tutti in quell’atto, e che dunque un’atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi,alla gogna, per una intera esistenza, come se questa fosse tutta assommata in quell’atto!

È la battuta nodale del Padre nei Sei personaggi in cerca d’autore. Certo, i motivi necessari all’abolizione della figura paterna sono stati tanti, ma non c’è dubbio che il punto forte è rappresentato dall’avere Luigi agganciato e sospeso il padre nell’atto d’averlo sorpreso con l’amante. E subito dopo questa battuta, il Figlio (che qui in parte è lo stesso Luigi) ripropone la sua estraneità dalla famiglia, il suo essere diverso, cambiato, come ancora credeva allora:

IL FIGLIO (scrollandosi sdegnosamente) Ma lascia star me, ché io non c’entro!
IL PADRE Come non c’entri?
IL FIGLIO Non c’entro, e non voglio entrarci, perché sai bene che non son fatto per figurare qua in mezzo a voi!

IL GRANDE PUZZLE
Lo scrittore Amaldo Frateili ricorda che Pirandello, appena finito di scrivere i Sei personaggi in cerca d’autore radunò, molto emozionato, gli amici per leggere loro il lavoro. Nessuno ne sapeva niente o quasi, lo stesso autore pareva sorpreso dalla violenza e dalla rapidità con la quale l’opera aveva voluto imporre la sua nascita. Dice Frateili:

     “Appena finito di scrivere i Sei personaggi Pirandello venne a leggere il lavoro a casa mia. C’era il figlio Stefano, Silvio D’Amico, Alberto Cecchi, mi pare Mario Labroca e due o tre altri… fummo presi e sconvolti non solo dalla commedia, ma anche dalla passione che Pirandello metteva nel recitarla… Quella era una recitazione nella quale egli sosteneva la parte di tutti i suoi personaggi e viveva intensamente, quasi dolorosamente, tutte le loro passioni, amore e odio, gioia e dolore, estasi e ironia… la sua voce a udirla da un’altra stanza, pareva non di una, ma di dieci persone… Alla fine… discutevamo come energumeni intono a Pirandello”.

Certo, su quest’opera che rappresenta “la quintessenza del dramma moderno” (Szondi), è quasi ridicolo spendere qui parole. Ci limitiamo a dire che forse essa segna la ricomposizione di quel gigantesco puzzle che è stato l’intreccio tra la vita di Pirandello e la sua opera di scrittore in un continuo va e vieni dalla realtà alla sua trasfigurazione. Nell’acuta commemorazione che di Pirandello fece Massimo Bontempelli all’Accademia d’Italia il 17 gennaio 1937, è detto che “tutto il teatro di Pirandello è una denuncia di conseguenze”. E aggiunge:

     “Molti anni prima, notate, molti anni prima dei Sei personaggi, egli aveva già scritto queste chiare parole: La natura si serve dello strumento della fantasia umana per proseguire la sua opera di creazione. E chi nasce mercé questa attività creatrice che ha sede nello spirito dell’uomo, è ordinato da natura a una vita di gran lunga superiore a quella di chi nasce dal grembo mortale di una donna. Chi nasce personaggio, chi ha la ventura di nascere personaggio vivo… Insomma, i personaggi sono le sole verità. Col personaggio l’umanità ha ritrovato l’inconfondibile, l’immodificabile, l’indistruttibile, l’eterno. Cioè, la certezza. Il Padre dei Sei personaggi, lui che come persona è il più sbattuto degli uomini, può alzare il capo con supremazia quando dice al Direttore: Io sono vero, voi no“.

Già, il Padre è vero, una certezza appunto, perché diventato personaggio, mentre il Direttore vive solamente sulle tavole del palcoscenico. Questo personaggio del Padre nel quale “si esprime la verità più intima di Pirandello” (Szondi), verità resa più forte da una sorta di commistione, di osmosi tra l’autore e il personaggio del Padre. Sotterranei, profondi, esili canali che trasportano linfa vitale dall’uno all’altro, e rendono difficile, nel loro intrecciarsi, l’identificazione dell’appartenenza. E, sotto questa luce, la Premessa scritta a posteriori appare come un malriuscito tentativo di depistaggio, come se l’autore volesse lavarsene le mani, addebitando tutto alla Fantasia con la “F” maiuscola. Ma non serve, quella Premessa, non basta.

IL CAPOCOMICO E dov’è il copione
IL PADRE È in noi, signore.

Battute come queste:

IL PADRE … Guardi – la mia pietà, tutta la mia pietà per questa donna (indicherà la Madre) è stata assunta da lei come la più feroce delle crudeltà!
LA MADRE Ma se m’hai scacciata.
IL PADRE Ecco, la sente? Scacciata! Le è parso ch’io l’abbia scacciata!
LA MADRE Tu sai parlare; io non so… Ma creda, signore, che dopo avermi sposata… chi sa perché! (ero una povera, umile donna … )
IL PADRE Ma appunto per questo, per la tua umiltà ti sposai, che amai in te, credendo…
(S’interromperà alle negazioni di lei; aprirà le braccia, in atto disperato, vedendo l’impossibilità di farsi intendere da lei, e si rivolgerà al Capocomico) No, vede? Dice di no! Spaventevole, signore, creda, spaventevole la sua (si picchierà la fronte) sordità, sordità mentale! Cuore, sì, per i figli! Ma sorda, sorda di cervello, sorda, signore, fino alla disperazione!

     Quale memoria reale si portano appresso? Più che al momento di crisi coniugale tra donna Caterina e don Stefano quando questi si mise nuovamente con l’ex fidanzata, esse sembrano riferirsi, sia pure in una diversa situazione, al rapporto tra Antonietta e Luigi quando, scoperta l’incapacità della moglie a seguirlo sulle vie dell’Arte, la «scaccia», ossia la relega alle sole funzioni di madre.

E ancora, questa battuta del Padre:

Ora lei intende la perfidia di questa ragazza? M’ha sorpreso in un luogo, in un atto, dove e come non doveva conoscermi, come io non potevo essere per lei; e mi vuole dare una realtà, quale io non potevo mai aspettarmi che dovessi assumere per lei, in un momento fugace, vergognoso, della mia vita!Questo, questo, signore, io sento soprattutto!

non è certamente un rimprovero che Luigi rivolge a se stesso per avere per anni e anni inchiodato, crocefisso il padre a un solo gesto, a un momento fugace della sua vita, a un errore?

E nella battuta della Figliastra:

Grida, grida, mamma!… Grida, come hai gridato allora!

quell’allora certamente si riferisce alla vicenda vissuta dai personaggi nella fantasia dell’autore, quando stavano in una sorta di limbo della creazione, ma forse c’è nel grido della Madre che sorprende la Figliastra tra le braccia del marito una terribile eco del grido disperato di Antonietta allorché la follia le fece supporre un legame incestuoso tra Luigi e la figlia.
“Il fine dei Sei personaggi” ha affermato Jean-Michel Gardair “consiste in questo processo di discolpa del Padre per incriminazione del Figlio, attraverso la sovrapposizione fantasmatica di due scene: l’incesto e l’adulterio. Se questo testo è, in effetti, fondamentale nell’opera di Pirandello, è per ragioni opposte a quelle che egli elabora consapevolmente. Pirandello finge di credere che egli ha ‘rifiutato’ questi personaggi perché non lo interessavano e perché non avevano nulla a che fare con il suo dramma personale, per insistere, invece, sulla novità teorica e sulla maestria della sua creazione. Ora confessa egli stesso di aver scritto questa pièce in stato di trance e sotto il peso della necessità. Infatti, tutto l’apparato concettuale della pièce (conflitto attori-personaggi, impossibilità di drammatizzazione dei fantasmi in assenza dell’autore ecc.) non serve qui che a mascherare il desiderio (di Pirandello) di accusarsi (di discolpare il Padre) in pubblico. Desiderio che sfociò nel memorabile gesto con il quale Pirandello getta la maschera in occasione della prima (catastrofica) dei Sei personaggi: per la prima volta nella sua vita si presenta in scena a salutare il pubblico, ed è proprio per affrontare i fischi.”

Continua ancora Gardair a proposito della morte della Bambina e del suicidio del Giovanetto:

“Non si può non sottolineare che l’età dei due fanciulli, quattordici e quattro anni, corrisponde, da una parte, all’età in cui morì una sorella minore di Pirandello, dall’altra, alla stessa età che aveva egli stesso all’epoca della scena trasposta in Ritorno, all’indomani della quale un’altra delle sue sorelle minori era diventata improvvisamente demente. Infine, con il sinistro scoppio di risa della Figliastra, con la quale termina la pièce, Pirandello attira su di sé per sempre la vendetta di Antonietta, troppo sagace Erinni, che ha espiato con la follia il terribile privilegio della chiaroveggenza”.

Le tessere di un puzzle che miracolosamente si compongono in un disegno unitario dopo anni di sofferte prove, lampi di luce che tornano a innestarsi nella loro origine prismatica.
Tanti, troppi i sotterranei legami, talvolta espliciti, talvolta appena accennati, altre volte solo intuiti e non si sa se valga la pena di portarli tutti alla luce. Ma una cosa mi pare certa: il colpo di rivoltella col quale il Figlio giovinetto pone fine ai suoi giorni, uccide anche un’illusione giovanile voluta perpetuare a lungo negli anni con ostinazione, con caparbietà: quel colpo di pistola fa scomparire il figlio cambiato, se è mai esistito; ora Luigi sa con dolorosa certezza che il sangue che scorre nelle sue vene è quello di suo padre. Lo scambio del figlio nella culla non c’è mai stato: se adesso Luigi volesse raccontare nuovamente la storia che da picciliddro gli contò la cameriera Maria Stella, quella storia la chiamerebbe, senza esitazioni, una “favola”.

LA SERA DELLA PRIMA
Il mutupèrio che si scatenò al romano Teatro Valle la sera del 9 maggio 1921, in occasione della prima rappresentazione dei Sei personaggi da parte della Compagnia diretta da Dario Niccodemi, è stato raccontato e descritto decine e decine di volte. Annotò Adriano Tilgher nella sua recensione apparsa sul quotidiano “Il Tempo” del giorno appresso:

“Moltissime chiamate alla fine del primo e del secondo atto, alla fine del quale Pirandello fu evocato alla ribalta, non so più quante volte. Ma, a dir vero, fu successo imposto da una minoranza ad un pubblico disorientato e perplesso, e, in fondo, voglioso assai di capire. Al terzo atto però, il più fiacco di tutti, e che finisce in modo assurdo, si scatenò una tempesta cui i fautori del lavoro tennero validamente testa. E così finì una serata che fu veramente di battaglia per tutti, per l’autore, per gli attori, pel pubblico e, anche, pei critici”.

Chiaramente, Tilgher assegna la responsabilità della caduta al terzo atto, che giudica fiacco e assurdo e oltretutto ripetitivo:

” … il terzo atto in fondo, non fa che ‘piétiner sur la place’ del secondo, che questo si risolve tutto nella discussione prolissa di una tesi estetica non troppo brillante di novità: che la vita non è il teatro”.

A molti anni di distanza, e dal suo punto di vista, anche Peter Szondi scriverà che il terzo atto è una “conclusione pseudodrammatica”.
Ci sarebbe molto da ragionarci sopra, sul discusso terzo atto, ma non è questo il posto. In realtà, scrivendo di un pubblico “disorientato e perplesso”, Tilgher (che sarà colui che vestirà di una teoria filosofica il teatro di Pirandello) ci racconta la mezza messa.
Gli spettatori sì rimasero disorientati inizialmente quando, entrando nella sala, videro che il sipario era aperto e che sul palcoscenico non c’era traccia di scenografia, alcuni si fecero persuasi che lo spettacolo era stato rimandato, anche perché c’era un macchinista che inchiodava qualcosa. A quei tempi, vedere dall’interno la macchina teatrale, osservare ciò che succede dietro le quinte non incuriosiva, ma disturbava, dava disagio. Gli spettatori dall’iniziale disorientamento passarono sì alla perplessità quando sentirono dire al Capocomico la provocatoria battuta:

Che vuole che le faccia io se… ci siamo ridotti a mettere in iscena commedie di Pirandello, che chi l’intende è bravo, fatte apposta di maniera che né attori né critici né pubblico ne restino mai contenti?

L’atteggiamento del pubblico mutò in peggio all’entrata dei sei personaggi. Gli spettatori, a sentirli entrare dalla porta di fondo sala, la stessa dalla quale erano entrati loro, dovettero voltarsi indietro dalle poltrone sulle quali erano seduti, furono costretti cioè ad andare contro all’orientamento stesso della sala, come se fossero stati obbligati a leggere un rigo di un romanzo fatto stampare a bella posta a rovescio dall’autore. E ancora: questi personaggi stavano occupando lo spazio riservato agli spettatori, camminavano nel corridoio tra le poltrone, si fermavano a discutere con gli attori quasi sui piedi deglispettatori seduti in prima fila. Le prime violente reazioni nacquero da quegli spettatori che volevano difendere il loro “territorio”, era una rivoluzione, il sovvertimento di un ordine stabilito.
A un certo punto lo scontro tra la minoranza dei sostenitori e la maggioranza dei dissenzienti si fece anche fisico, volarono cazzotti, si distinse il giornalista Orio Vergani, pugile dilettante, amico di Pirandello e la cui sorella, Vera, interpretava la parte della Figliastra (splendidamente, ricordano le cronache), si distinse anche un poeta, Arnaldi, che sfondò a spallate la porta di un palco nel quale stavano alcuni fischiatori. Molte le grida di “buffone”, di “manicomio”.
Pirandello, che si era portato appresso la figlia Lietta, sembrava scialarsela di quello che stava capitando, tanto che alla fine del terzo atto si presentò alla ribalta, quasi a ringraziare per i fischi e i dissensi. Pare gli abbiano lanciato contro delle monetine.

Siamo più che convinti che la maggioranza degli spettatori dissenzienti oscuramente intuì che qualcosa d’irreversibile stava succedendo quella sera al Valle, che da lì a poco o a molto il teatro non sarebbe più stato uguale a prima. La loro fu la difesa di un’idea di teatro che quella sera veniva scardinata.
Pirandello attese un’ora a uscire con la figlia dal Valle, molta gente lo aspettava fuori e non pareva animata da intenzioni amichevoli. Quando si decise, uscì “per la porta di servizio, sul vicolo, un losco vicolo di gatti morti” (Vergani). Voleva raggiungere inosservato la fermata del tram, l’arrivo di un tassì avrebbe potuto insospettire i facinorosi. Andò diversamente. Scrisse Orio Vergani:

“Uscì, con la figlia a braccetto. Nella luce del primo lampione fu riconosciuto. Lo si circondò per difenderlo. Belle dame ridevano ripetendo, con le bocche laccate: ‘Manicomio!’. Eleganti giovani incravattati di bianco sghignazzavano e insultavano. La figlia, al braccio del padre, tremava e non riusciva quasi a muovere un passo. Altra gente accorreva, fischiando e ridendo. Anche i pizzardoni non sapevano se dovevano intervenire per ‘quel matto di Pirandello’. Un tassì si avvicinò. Pirandello, nella luce della piazzetta, riceveva in viso, con le labbra appena toccate dall’ironia, gli insulti. Noi si doveva evitare di venire alle mani, finché non fosse partita l’automobile. Fece salire la figlia. Poi montò a sua volta e nel quadrato del finestrino mentre dava l’indirizzo della casa lontana e mesta dove, all’indomani, avrebbe ripreso a lavorare, si vide ancora il suo viso. I giovanotti eleganti lanciavano delle monetine. E le signore anche, aprendo in fretta le loro preziose borsette. Odo ancora il rumore del rame sul selciato, il riso e l’oltraggio”.

Va detto che a Milano, la sera del 27 settembre dello stesso anno, la commedia, recitata dalla stessa compagnia, venne seguita dal pubblico con intensa concentrazione e terminò con un trionfo. I milanesi avevano avuto tutto l’agio per prepararsi avendo potuto nel frattempo leggere il testo stampato.

Quella sera, nella piazzetta dietro il Valle, tra coloro che circondano Pirandello e la figlia per proteggerli dagli eccessi degli spettatori inferociti, c’è un giovane che scambia qualche occhiata con la scantatissima Lietta. È Manuel Aguirre, addetto militare all’Ambasciata cilena di Roma.

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note:
macari, magari – anche
taliàrlo e ritaliàrlo – guardarlo e riguardarlo
mutupèrio – offese urlate da una massa che inveisce contro qualcuno
picciliddro – piccolino, bambino
racconta la mezza messa – dice le cose a metà
scantatissima – spaventatissima
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