1922 – All’uscita – Mistero profano in un atto

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I personaggi sono spiriti, o meglio apparenze, attori che hanno appena abbandonato il palcoscenico della vita, ancora con indosso la loro maschera, persuasi della parte che si diedero, simili a tremuli riflessi sull’acqua prima di dileguarsi. All’uscita

STESURA aprile 1916.
PRIMA RAPPRESENTAZIONE 29 settembre 1922 – Roma, Teatro Argentina, Compagnia Lamberto Picasso.

Approfondimenti nel sito:
Sezione Video – All’uscita – 1986
Sezione Audio – All’uscita – Legge Valter Zanardi

Sezione Audio – All’uscita – Legge Giuseppe Tizza

««« Elenco delle opere in versione integrale
««« Introduzione al Teatro di Pirandello.

all uscita
Paolo Bonacelli, Gabriele Ferzetti. All’uscita, fotogramma RAI 1986

.    Premessa

        Il «mistero profano», come Pirandello definì quest’opera, è un breve atto unico scritto nel 1916. Destinato, nonostante la forma drammatica, alla narrativa, fu rappresentato per la prima volta da Lamberto Picasso solo nel 1922.

        La meditazione sulla morte, naturale risvolto di quella sulla vita, che occupa molto spazio nell’opera creativa e saggistica di Pirandello, diventa qui situazione, una situazione davvero particolare. L’autore immagina l’incontro, all’uscita di un cimitero, di alcuni morti che, lasciato nella tomba il loro ormai inutile corpo, prima di scomparire del tutto, ancora per un po’ consistono nell’apparenza che ebbero. A tenerli legati in qualche modo alla vita, e qui Pirandello si ispira alle teorie teosofiche, è un desiderio, un sentimento, la ricerca di una risposta.

        Così l’uomo grasso aspetta la morte della moglie adultera, mentre il magro e capelluto filosofo aspetta di poter dare una risposta convincente ai suoi molti perché. La moglie adultera irrompe stravolta e scarmigliata: è stata uccisa dal suo amante, e ride, ride «come una pazza». Nella risata stridula, nei gesti caricati, nei colori accesi c’è già una rappresentazione di gusto espressionistico. La donna si placa solo alla vista di un bimbo che mangia una melagrana e tramuta il suo riso doloroso in un pianto sommesso. Passano vicino al cimitero un contadino, una bimba, un asino, vivi certamente, ma non poi tanto diversi, nelle loro apparenze fallaci, dai morti. E il filosofo continua a interrogarsi e a ricercare una valida risposta all’enigma dell’esistenza; presumibilmente rimarrà sempre lì sul bordo del cimitero: «Ho paura ch’io solo resterò sempre qua, seguitando a ragionare».

All’uscita
Mistero profano in un atto – 1916/1922

Personaggi

APPARENZE:
dell’Uomo grasso
del Filosofo
della Donna uccisa
del Bambino dalla melagrana

ASPETTI DELLA VITA:
un Contadino
una Contadina
un vecchio Asino con un gran fascio d’erba
una Bambina

Un muro, una porta. Di qua, campagna, all’uscita posteriore d’un cimitero. Di là dal muro – grezzo, bianco – s’intravedono, in una trasparenza scolorata d’umido barlume crepuscolare, alti cipressi notturni.

I morti, lasciato il corpo inutile nelle fosse, escono lievi dalla porta con quelle apparenze vane che si diedero in vita.

L’apparenza dell’Uomo grasso siede su una logora panca a pie d’un grande albero, con le mani appoggiate al bastone e sulle mani il mento. Uscito da parecchi giorni, non sa risolversi a muoversi di lì, e assiste, ma senza mo­strare di compiacersene, allo stupore, al terrore, alla disillusione, alla nausea, che le altre apparenze, uscendo di tanto in tanto dalla porta del cimitero, danno a vedere, e al modo con cui poi s’avviano, incerte, afflitte, disgustate, sgomente.

E uscita or ora, magra e capelluto, sebbene calva alla sommità del capo, l’apparenza del Filosofo. Ha mostrato anch’essa un grande stupore; s’è guardata attorno smarrita; poi, da lontano, ha avvistato l’Uomo grasso se­duto a pie dell’albero; s’è ricomposta e ora gli s’avvicina.

IL FILOSOFO: Che maraviglia, buon uomo? che maraviglia? È così. Naturalissimo.

L’UOMO GRASSO: Lo dite a me? Oh bella! Sarete maravigliato voi. A me, già m’è passata.

IL FILOSOFO: Ma no! Io? Di che? Se vi dico che è naturalissimo.

L’UOMO GRASSO: Ho capito. Mi vorreste dare a intendere che l’avevate preveduto, di dovervi ritrovare così, ancora qua.

IL FILOSOFO: No. Questo no. Anzi, la mia maraviglia (se pure ne avrò mostrata un poco in principio) è stata proprio per questo, vi prego di credere: che io non l’abbia preveduto.

L’UOMO GRASSO: Eh già, se vi sembra così naturale.

IL FILOSOFO: Ve lo posso dimostrare, se volete, in due parole.

L’UOMO GRASSO: No, per carità: fatene a meno. Che consolazione volete che mi dia codesto postumo esercizio della vostra ragione?

IL FILOSOFO: Postumo? Ma che postumo! Io séguito a ragionare, come voi a esser grasso, caro mio. E per il solo fatto che io e voi siamo ancora qui, sé­guito a vedere in me e in voi due vane forme della ragione. Non ve ne sentite consolare?

L’UOMO GRASSO: Se sapeste come ne sono mortificato!

IL FILOSOFO: Perché voi forse, pover’uomo, vi figuraste in vita di vederle e toc­carle come cose vere, codeste forme; mentre erano soltanto illusioni necessa­rie del vostro essere, come del mio, che per consistere in qualche modo, ca­pite? avevano bisogno (e l’hanno tuttora) di creare a se stessi un’apparenza. Non capite proprio?

L’UOMO GRASSO: Come volete che capisca? Parlate troppo sottile per un uomo grasso come me.

IL FILOSOFO: State a sentire. Ve lo spiego per via d’esempio. Prendiamo questo cimitero qua. Voi lo vedeste, certo, in vita chi sa quante volte.

L’UOMO GRASSO: Qualche volta, triste, ci venivo a passeggiare.

IL FILOSOFO: E non vi venne mai in mente che le tombe non erano fatte per i morti, ma per i vivi?

L’UOMO GRASSO: Volete dire della vanità delle epigrafi?

IL FILOSOFO: No; storia vecchia, codesta. Dico del bisogno che ha la vita di fabbricare una casa ai suoi sentimenti. Non basta ai vivi averli dentro, nel cuore, i sentimenti: se li vogliono vedere anche fuori; toccarli; e costruiscono loro una casa. Fuori, dove – naturalmente – chi ci sta? Nessuno.

L’UOMO GRASSO: Come, nessuno? I morti.

IL FILOSOFO: Ma no, brav’uomo; di noi poveri morti, dopo un po’ di tempo, che volete che resti in quelle fosse là? Se mai, un po’ di polvere. Niente. E che cosa sono allora le tombe? Il ricordo, l’affetto, il rispetto, la devozione (tutti sentimenti, come vedete) sentimenti dei vivi che, non contenti d’essere coltivati dentro, o diffidando che dentro non sarebbero durati a lungo, si sono pa­gato il lusso d’una casetta fuori: quelle tombe là. Chi ci abita? Se i vivi li hanno ancora dentro, ci abiteranno loro, questi sentimenti: il ricordo, l’affetto, il rispetto, la devozione. O se no, nessuno. La vanità, come voi avete detto, che è anch’essa un sentimento, vi faccio notare. E andiamo avanti. State a sentire. Io avevo in vita un caro cagnolino.

L’UOMO GRASSO: Gli avete edificato una tomba?

IL FILOSOFO: No, no, che! È vivo ancora, lui, di là. Tanto caro, poverino: bianco e nero, vispo: un diavoletto. Me lo portavo a spasso col suo sonagliolo d’ar­gento nel collarino: pareva non toccasse mai terra, con quelle quattro esili zampette frementi. Ma mi faceva spesso disperare: voleva entrare in tutte le chiese, capite? E io, a corrergli dietro. – «Bibì, Bibì; qua Bibì», – (si chia­mava – cioè, lo chiamavo – Bibì). Non riusciva a capacitarsi perché a un ca­gnolino bellino come lui non fosse lecito entrare in chiesa. Alle mie sgridate, s’acculava; alzava una delle zampine davanti; sternutiva; poi, con un’orecchia su e l’altra giù, stava a guardarmi con l’aria di credere che là non ci stésse nessuno e che lui perciò potesse entrarci. «Ma come non ci sta nessuno, Bibi?», gli dicevo io carezzandolo. «Ci sta il più rispettabile dei sentimenti umani, carino, il quale, non contento neanche lui d’abitare nel petto degli uomini, ha voluto fabbricarsi fuori una casa, e che casa! Cupole, navate, co­lonne, ori, marmi, tele preziose.» Ora voi, buon uomo, forse siete in grado di comprendere. Come casa di Dio è senza dubbio infinitamente più grande e più ricco il mondo, che una chiesa; incomparabilmente più nobile e prezioso d’ogni altare, lo spirito dell’uomo in adorazione del mistero divino. Ma que­sta è la sorte di tutti i sentimenti che si vogliono costruire una casa: si rim­piccoliscono, per forza, e diventano anche un poco puerili, per la loro vanità. E la sorte stessa di quell’infinito che è in noi, quando per alcun tempo si fini­sce in quest’apparenza che si chiama uomo, labile forma su questo volubile granello di terra perduto nei cieli.

L’UOMO GRASSO: Ma dunque io e voi e tutti quelli che escono da quella porta là che cosa siamo ora, si può sapere? Apparenze d’apparenze?

IL FILOSOFO: No, perché? La stessa apparenza, ma con questo divario: che quella che ci davano gli altri è là, nella fossa; e quella che ci davamo noi è qua, ancora per poco, in voi e in me. Noi ne siamo, insomma, la vanità an­cora per poco superstite. Un’ultima ombra d’illusione persiste ancora in noi. Ci piace ancor tanto ritenere la nostra vana parvenza, che dobbiamo ancora aspettare, per liberarcene, ch’essa a poco a poco si diradi e dilegui. Già voi, forse per effetto dei miei discorsi, mi sembrate un po’ più rarefatto. Ah, ecco: è bastato che ve lo dicessi: vi riaddensate subito, povera ombra. Che vi ri­tiene? Siete grasso, ma sembrate così malinconico.

L’UOMO GRASSO: Ho un rammarico. Non so. Vedo ancora il giardinetto della mia casa al sole. Un tappetino verde, alla finestra. La vasca, con lo specchio d’acqua in ombra. E i pesciolini rossi che vengono come a mordere a galla. Le piante attorno guardano attonite i circoletti che s’allargano nell’acqua si­lenziosi. Io sono ancora là, tra il respiro fresco delle nuove foglioline, come una vecchia foglia morta che non sappia ancora staccarsi. La vedo: c’è dav­vero là questa foglia morta; aspetto che un soffio la faccia crollare; e allora forse, come voi dite, dileguerò.

IL FILOSOFO: Ma è solo per quel vostro giardinetto il rammarico?

L’UOMO GRASSO: No. I fiori però furono sempre veramente la mia maraviglia. Che la terra li potesse fare. Avete un bel dire voi, illusioni. Un usignuolo ve­niva a cantare ogni notte nel mio giardino, tutto ridente e squillante a maggio di rose gialle, di rose rosse, di rose bianche e di garofani e di geranii. Tutta la vostra filosofia, vedete, non impediva a quell’usignuolo di cantare e a quelle rose di sbocciare e d’incantare e inebbriare col loro profumo il giardino. Potevate cacciarlo, quell’usignuolo, e strappare tutte quelle mie rose. L’usi­gnuolo se ne sarebbe volato nel giardino accanto e avrebbe seguitato a can­tare da un altro albero ogni notte alle stelle. E tutte le rose di maggio da tutti i giardini non avreste potuto strapparle di certo. Sono cose che passano, sì. Ma il mio rammarico è ora di non averne saputo godere. L’aria io la respiravo, e non me lo diceva ch’io vivevo, quando la respiravo; quel cinguettìo d’uccelli nati col maggio nel mio e negli altri giardini fioriti attorno alla mia casa, l’u­divo, e non me lo dicevano quegli uccelli e quei fiori che io vivevo, quando li udivo cinguettare e ne aspiravo i profumi. Una miseria di pensiero mi teneva assorto e chiuso. Di tanta vita che, intanto, entrava in me per i sensi aperti non facevo conto. E poi mi lagnavo. Di che? di quella miseria di pensiero, d’un desiderio insoddisfatto, d’un caso contrario già passato. E intanto tutto il bene della vita mi sfuggiva. Ma no: ora me n’accorgo: non è vero: non mi sfuggiva. Sfuggiva alla mia coscienza; ma non a questo mio corpo che assa­porava il gusto della vita, senza dirselo; per cui sto ancora qua come un men­dico davanti a una porta, dove non gli è più concesso d’entrare: il gusto della vita che mi faceva accettare tutte le contrarietà, tutte le condizioni che il pen­siero intanto scioccamente stimava misere e intollerabili. Certe domeniche, quando mia moglie fingeva di andare a messa e se n’andava invece dal suo amante –

IL FILOSOFO: – ah poveretto, lo sapevate?

L’UOMO GRASSO: Ecco, vedete? una realtà che non era illusione.

IL FILOSOFO: E no, potrei dimostrarvi, caro, ch’era illusione, come tutto il resto.

L’UOMO GRASSO: Che mia moglie mi tradiva? Ma se era un fatto!

IL FILOSOFO: Già. A cui voi davate questa realtà.

L’UOMO GRASSO: Ma come potevo non dargliela, se di fatto mia moglie mi tra­diva?

IL FILOSOFO: Ecco. Questo che chiamate un fatto, del piacere che vostra moglie si prendeva con un uomo che non eravate voi, vi pare che avesse per lei la stessa realtà che per voi, se a lei dava piacere e a voi dolore? E da che na­sceva il vostro dolore se non dall’illusione che v’eravate fatta che vostra mo­glie v’appartenesse? Sono tutte idee vane, mio caro, come tutta una vana idea è la vita. Una vostra idea era vostra moglie, una vostra idea il suo tradimento, una vostra idea il vostro dolore. Il guajo è questo, che la vita non è possibile, se non a patto di dare realtà a tutte queste nostre idee. Bisognerebbe non vi­vere, buon uomo.

L’UOMO GRASSO: Forse avete ragione. E il gusto che io sentivo della vita dipen­deva certo dal poco pensiero che mi davo dei miei casi e dalle scarse illusioni che mi facevo. Non crediate che fosse in fondo per me un gran dolore il tra­dimento di mia moglie. Ne sospiravo, sì; e dicevo fuori, a me stesso, ch’era per pena; ma dentro sentivo ch’era un sospiro di sollievo. Ma non pieno, mai, perché dovete sapere ch’ella non era contenta neanche del suo amante, come non era contenta di nulla, di nessuno. Le finirà male certamente. E anche per questo, vedete? non so staccarmi di qua.

IL FILOSOFO: La aspettate?

L’UOMO GRASSO: Sì, presto. La uccideranno. Ne sono sicuro. Il suo amante la ucciderà, oggi o domani. Forse in questo stesso momento che sto a dirvelo. (Pausa. Guarda davanti a sé con occhi vani. Poi riprende:) Me ne viene la certezza dalla gioja che nei miei ultimi momenti non si curò nemmeno di na­scondere, non tanto per la mia morte imminente, quanto per lo spettacolo pie­toso del dolore cupo, disperato di lui che mi stava presso il letto e si strug­geva di non saper più che cosa fare per tenermi in vita.

IL FILOSOFO: Ah, come? egli non desiderava la vostra morte?

L’UOMO GRASSO: Sarete un gran sapiente, ma vedo che comprendete poco le cose della vita. Egli non poteva non avermi caro; e v’assicuro ch’io ebbi fin da principio una grande compassione per quest’uomo; perché, subito dopo il tradimento, mia moglie rovesciò su lui tutto l’odio di ferocissima nemica che prima aveva per me; e per me riprese ad avere quel certo volubile affetto, un po’ scherzoso, un po’ mordente dei primi tempi del nostro fidanzamento, quando mi cacciava un fiore in bocca e poi diceva: – «Che buffo assassino!» – Potei avere in breve la soddisfazione di questa certezza: che soffriva lo stesso martirio che avevo sofferto io, l’uomo che aveva creduto di farmi male ingannandomi; e che perciò al martirio aggiungeva anche un sincero e crude­lissimo rimorso. Per quest’uomo, vedete, la mia morte è stata la più grande delle sventure, giacché per essa mia moglie non tanto sperò di liberarsi di me, quanto di lui, ch’era come l’ombra del mio corpo; non perché mi stésse sem­pre vicino, ma perché dovete sapere che quel certo marito fa sempre, appena è possibile, quel certo amante. Sparito il corpo, non sussiste più l’ombra. Fin­ché c’ero io, quello era l’amante. Ma ora? Nella libertà, perché uno? e ancora quello, ombra uggiosa d’un corpo che non c’è più? Ne vorrà un altro; più altri, forse.

IL FILOSOFO: E credete che egli la ucciderà?

L’UOMO GRASSO: Per non sentirla ridere. Alla prima risata, la ucciderà. Per ora ella si tiene, forzata dall’apparenza del dolore che deve darsi per la mia morte recente. Ma io già gliela sento gorgogliare nelle viscere convulse la tremenda risata, che alla fine proromperà in faccia a lui da quella sua feroce bocca rossa tra il taglio dei lucidi denti. Ride come una pazza. Vedete, v’ho detto che la vostra filosofia non poteva strappare le rose del mio giardino; ma la ri­sata di quella donna altro che questo poteva! Ogni qual volta la sentivo ridere, mi pareva ne tremasse la terra, e il cielo si sconvolgesse, e il mio giardinetto si riducesse arido, irto di cardi spinosi. Le scatta dalle viscere come una fre­netica rabbia di distruzione. È terribile, terribile quella risata su lo spasimo di chi la sente. Certo egli la ucciderà. (Pausa di sospensione. Sta come in ascolto, con una mano levata e gli occhi fissi nel vuoto.) Forse l’ha già uccisa. Tra poco la vedremo uscire di là. – Eccola! eccola! Oh Dio, vedete? eccola: balla, gira come una trottola. E lei! Ride, ride! Tutta scarmigliata! E sulla mammella manca, vedete? il sangue! Lo spruzza tutt’intorno! – Qua, qua! Vieni qua! Non girare più così! Siedi qua!

LA DONNA UCCISA (cascando a sedere sulla panca): Ah, qua… Tu? oh Dio… com’è? No, no… Ma come! Sono di nuovo con te? Ah ah ah ah ah!

L’UOMO GRASSO: Non ridere! Non ridere più così!

LA DONNA UCCISA: Che imbecille! M’ha rimandata a te! E verrà anche lui, sai? S’è ferito a morte, dopo aver ferito me: qua, guarda. Oh, guardate anche voi, signore; tanto, ormai! se il mio seno si solleva, non vi farà più impressione. Ah ah ah ah. Guardate, signore, mio marito com’è afflitto. No, caro! Che dici? Credi che abbia ancora l’obbligo della pudicizia? Ecco, ecco, me lo na­scondo coi capelli, così. Se mi deste un pettine per ravviarmeli… sono tutti arruffati. Ma, sai, caro? Mi lasciò là, per tutta una mattinata, arrovesciata sul letto: così: guarda: con tutto il seno scoperto: così: e tanta gente entrò a ve­dermi; e temo che anche le gambe mi abbiano vedute. Sì, un poco. Ah ah ah ah. Ma che imbecille! Credette di farmi male. E anch’io, sì, anch’io ebbi una gran paura che mi facesse male. Voleva prendermi. Gli sfuggivo. Gli ballavo attorno, girando, come una matta. M’avete veduta? Così. A un tratto, ah! un colpo, qua, freddo; caddi; mi sollevò da terra; m’arrovesciò sul letto; mi baciò, mi baciò; poi con la stessa arma si ferì su me; lo sentii scivolare pe­sante a terra; gemere, gemere ai miei piedi. E mi durò fino all’ultimo su la bocca il caldo del suo bacio. Ma forse era sangue.

IL FILOSOFO: Sì, ne avete ancora un filo, difatti, sul mento.

LA DONNA UCCISA (subito portandoselo via con la mano): Ah, ecco. (Poi:) Era sangue. Lo volevo dire. Perché nessun bacio mai m’ha bruciato. Arrovesciata sul letto, mentre il soffitto bianco della camera mi pareva s’abbassasse su me, e tutto mi s’oscurava, sperai, sperai che quell’ultimo bacio finalmente, oh Dio, mi avesse dato il calore che le mie viscere esasperate hanno sempre, e sempre invano, bramato; e che con quel caldo ora potessi rivivere, guarire. Era il mio sangue. Era questo bruciore inutile del mio sangue, invece. Silenzio. L’apparenza dell’Uomo grasso tentenna amaramente il capo e poi con aria più cupa e dolorosa lo riappoggia sul bastone, mentre l’apparenza del Filosofo resta intenta e quasi sbigottita a mirar la donna uccisa, la quale, a un tratto, guardando verso l’uscita del cimitero, ha come un tremito e s 7-lara tutta e grida:

LA DONNA UCCISA: Oh guardate, guardate! Guarda anche tu, smuoviti, solleva il mento dal bastone! Guarda chi viene di là, correndo leggero sui rosei piedini!

IL FILOSOFO: Un bimbo.

LA DONNA UCCISA: Caro! E che regge, che regge tra le manine? Una melagrana? Oh, guardate, una melagrana. Vieni, vieni qua, caro! qua da me, vieni!

IL BIMBO DALLA MELAGRANA: Questa – a me, tutta – tutta a me – tutta.

LA DONNA UCCISA Sì, caro, da’ qua: ecco; è dura la buccia: te l’apro io, te la schiccolo io. E tu la mangerai. Tutta, sì. Aspetta. Qua nella mia mano. Oh, vedi? Vedi com’è rossa?

IL BIMBO DALLA MELAGRANA: Sì, sì – a me – tutta – a me.

LA DONNA UCCISA: Tutta, sì, aspetta. Ecco, mangia questi chicchi intanto. Ah, i tuoi labbruzzi, caro, come mi vellicano la mano! Ecco, sì, il resto – tutta a te. Vuoi che ne diamo un chicco, uno, uno solo, a questo pover’uomo che guarda col mento sul bastone? No? Niente, allora – tutta a te! Ecco, mangia. Oh come ti sei fatto nero il musino!

IL BIMBO DALLA MELAGRANA: Ancora – ancora – a me.

LA DONNA UCCISA: Restano gli ultimi chicchi, caro, vedi? Queste sono le bucce… – Ah! (La donna dà un grido. Mangiati gli ultimi chicchi nel cavo della mano, il Bimbo è svanito nell’aria. Restano per terra le bucce della me­lagrana; le ultime, ancora nell’altra mano della donna, scivolano anch’esse a terra.)

IL FILOSOFO: Era quella melagrana il suo ultimo desiderio. Si teneva ad esso con tutt’e due le manine. Era tutto lì, in quei chicchi di rubino che non aveva potuto assaporare.

LA DONNA UCCISA: E io? Il mio desiderio? Ah!

China il capo, con le mani sul volto, e chiusa tra le fiamme dei capelli che le vengono avanti, piange perdutamente. Allora, a quel pianto, nel silenzio, si sente cadere il pesante bastone su cui l’apparenza dell’Uomo grasso teneva appoggiate le mani e il mento. Il volto atterrito della donna, al rumore, esce di tra i capelli scostati con le mani e guarda, accanto a sé, il vuoto. L’altro, ritraendosi dietro al sedile e accostandosi al tronco dell’albero, le fa cenno di guardare, non già a colui che non c’è più, ma ad alcuni massicci aspetti della vita che sopravvengono dalla campagna: un Contadino, una Contadina, un vecchio asinello con un gran fascio d’erba sulla schiena e, sovr’esso, una Bambina. Questa, istintivamente, come se avvertisse nell’ombra gli occhi atroci dell’apparenza della Donna uccisa che la fissano, si copre il volto con le manine, mentre il vecchio asino si ferma a fiutare le bucce sparse della melagrana e coi grossi labbri bigi ne toglie qualcuna e poi la lascia e sbruffa con le froge a terra.

IL CONTADINO: Oh, guarda: un bastone. Qualcuno l’avrà perduto. Arrì! Jù!

LA CONTADINA: E tu perché ti metti così le manine sugli occhi?

LA BAMBINA: Ho paura.

IL CONTADINO: Su, su, abbiamo fatto tardi. Arrì! Jù!

LA CONTADINA: Di’ con me una preghiera per i poveri morti.

Il Contadino caccia l’asino col bastone raccattato. Riprendono il cammino.

L’apparenza della Donna uccisa si leva in piedi, squassa il capo scarmi­gliato, alza le braccia disperatamente e fugge come una pazza dietro alla Bambina scomparsa. L’apparenza del Filosofo resta alta, dritta nell’ombra, aderente tutta al tronco del vecchio albero.

IL FILOSOFO: Ho paura ch’io solo resterò sempre qua, seguitando a ragionare.

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