Alla zappa! – Audio lettura 2

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Legge Giuseppe Tizza
«Giù! Aspetta. Lì c’è una zappa. E ti faccio grazia, perché neanche di questo saresti più degno. Zappano i tuoi fratelli e tu non puoi stare accanto a loro. Anche la tua fatica sarà maledetta da Dio!»

Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 7 settembre 1902, poi in Erma bifronte, Treves, Milano 1906.

Alla zappa! audiolibro
Vincent van Gogh (1853-1890), Sulla soglia dell’eternità, 1890

Alla zappa!

Voce di Giuseppe Tizza

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             Il vecchio Siròli da più di un mese sembrava inebetito dalla sciagura che gli era toccata, e non riusciva più a prender sonno. Quella notte, allo scroscio violento della pioggia, s’era finalmente riscosso e aveva detto alla moglie, insonne e oppressa come lui:

             –   Domani, se Dio vuole, romperemo la terra.

             Ora, dall’alba, i tre figliuoli del vecchio, consunti e ingialliti dalla malaria, zappavano in fila con altri due contadini giornanti. A quando a quando, ora l’uno ora l’altro si rizzava sulla vita, contraendo il volto per lo spasimo delle reni, e s’asciugava gli occhi col grosso fazzoletto di cotone:

             –   Coraggio! – gli dicevano i due giornanti. – Non è caso di morte, alla fine. Ma quello scoteva il capo; poi si sputava su le mani terrose e incallite e si rimetteva a zappare.

             Dal folto degli alberi sulla costa veniva a quando a quando come un lamento, rabbioso. Il vecchio, ancora valido, attendeva di là alla rimonda e accompagnava così, con quel lamento, la sua dura fatica.

             La campagna, infestata nei mesi estivi dalla malaria, pareva respirasse, ora, per la pioggia abbondante della notte, che aveva fatto «calar la piena» nel burrone. Si sentiva infatti, dopo tanti mesi di siccità, scorrere il Drago con allegro fragore.

             Da circa quarant’anni Siròli teneva a mezzadria queste terre di Sant’Anna. Da molte stagioni, ormai, lui e la moglie erano riusciti a vincere il male e a rendersene immuni. Se Dio voleva, col volgere degli anni, i tre figliuoli che adesso ne pativano avrebbero acquistato anch’essi l’immunità. Tre altri figliuoli però, due maschi e una femmina, ne erano morti e morta era anche la moglie del primo figliuolo, di cui restava solamente una ragazzetta di cinque anni, la quale forse non avrebbe resistito neppur lei agli assalti del male.

             – Dio è il padrone, – soleva dire il vecchio, socchiudendo gli occhi. – Se lui la vuole, se la prenda. Ci ha messo qua; qua dobbiamo patire e faticare.

             Cieco fino a tal punto nella sua fede, si rassegnava costantemente a ogni più dura avversità, accettandola come volere di Dio. Ci voleva soltanto una sciagura come quella che gli era toccata, per accasciarlo e distruggerlo così.

             Pur avendo bisogno di tante braccia per la campagna, aveva voluto far dono a Dio di un figliuolo. Era il sogno di tanti contadini avere un figlio sacerdote; e lui era riuscito ad attuarlo, questo sogno, non per ambizione, ma solo per averne merito davanti a Dio. A forza di risparmii, di privazioni d’ogni sorta, aveva per tanti anni mantenuto il figlio al seminario della vicina città; poi aveva avuto la consolazione di vederlo ordinato prete e di sentire la prima messa detta da lui.

             Il ricordo di quella prima messa era rimasto incancellabile nell’anima del vecchio, perché aveva proprio sentito la presenza di Dio quel giorno, nella chiesa. E gli pareva di vedere ancora il figlio, parato per la solennità con quella splendida pianeta tutta a brusche d’oro, pallido e tremante, muoversi piano piano su la predella dell’altare, davanti al tabernacolo; genuflettersi; congiungere le mani immacolate nel segno della preghiera; aprirle; poi voltarsi, con gli occhi socchiusi verso i fedeli per bisbigliare le parole di rito, e ritornare al messale sul leggio. Non gli era mai parso così solenne il mistero della messa. Con l’anima quasi alienata dai sensi, lo aveva seguito e ne aveva tremato, con la gola stretta da un’angoscia dolcissima; aveva sentito accanto a sé piangere di tenerezza la moglie, la sua santa vecchia, e s’era messo a piangere anche lui, senza volerlo, irrefrenabilmente, prosternandosi fino a toccare la terra con la fronte, allo squillo della campanella, nell’istante supremo dell’elevazione.

             D’allora in poi, egli, di tanto più vecchio, e provato e sperimentato nel mondo, s’era sentito quasi bambino di fronte al figlio sacerdote. Tutta la sua vita, trascorsa tra tante miserie e tante fatiche senza una macchia, che valore poteva avere davanti al candore di quel figlio così vicino a Dio? E s’era messo a parlare di lui come d’un santo, ad ascoltarlo a bocca aperta, beato, quand’egli veniva a trovarlo in campagna dal Collegio degli Oblati, dove per l’ingegno e per lo zelo era stato nominato precettore.

             Gli altri figliuoli, destinati alle fatiche della campagna, esposti lì alla morte, non avevano invidiato per nulla la sorte di quel loro fratello, s’erano anzi mostrati orgogliosi di lui, lustro della famiglia. Infermi, s’erano tante volte confortati col pensiero che c’era Giovanni che pregava per loro.

             La notizia che costui s’era macchiato d’un turpe delitto su i poveri piccini affidati alle sue cure in quell’orfanotrofio, era pertanto piombata come un fulmine su la casa campestre del vecchio Siròli. La madre, dapprima, nella sua santità patriarcale, non aveva saputo neanche farsi un’idea del delitto commesso dal figliuolo: il vecchio marito aveva dovuto spiegarglielo alla meglio; e allora ella ne era rimasta sbalordita, inorridita e pur quasi incredula:

             – Giovanni? Che mi dici?

             Il Siròli s’era recato in città per avere notizie più precise e con la speranza segreta che si trattasse d’una calunnia. S’era presentato a parecchi suoi conoscenti, e tutti, alla sua vista, s’erano turbati, quasi per ribrezzo; gli avevano risposto duramente, a monosillabi, schivando persino di guardarlo. Aveva voluto andare anche dal Lobruno, ch’era il padrone della terra ch’egli teneva a mezzadria. Il Lobruno, uomo intrigante, consigliere comunale, amico di tutti, del vescovo e del prefetto, lo aveva accolto malamente, su le furie:

             – Ben vi sta! ben vi sta! Sacerdote, eh? Da zappaterra a sacerdote. Siete contento, ora? Ecco i frutti della vostra smania di salire a ogni costo, senza la preparazione, senza l’educazione necessaria!

             Poi s’era calmato, e aveva promesso che avrebbe fatto di tutto perché lo scandalo fosse soffocato.

             – Per il decoro dell’umanità, intendiamoci! per il rispetto che dobbiamo tutti alla santa religione, intendiamoci! Non per quel pezzo di majale, né per voi!

             E il povero vecchio se n’era ritornato in campagna come un cane bastonato; certo ormai che il delitto del figliuolo era vero; che Giovanni, l’infame, era fuggito, sparito dalla città, per sottrarsi al furore popolare; e che lui ormai, sotto il peso di tanta ignominia, non avrebbe avuto più pace né il coraggio di alzare gli occhi in faccia a nessuno.

             Ora, inerpicato su gli alberi, attendeva alla rimonda. Nessuno lì lo vedeva e, lavorando, poteva piangere. Non aveva più versato una lagrima, da quel giorno. Considerava la propria vita intemerata, quella della sua vecchia compagna, e non sapeva farsi capace come mai un tal mostro fosse potuto nascere da loro, come mai si fosse potuto ingannare per tanti anni, fino a crederlo un santo. E s’era inteso di farne un dono a Dio! e per lui, per lui aveva sacrificato gli altri figliuoli, buoni, mansueti, divoti; gli altri figliuoli che ora zappavano di là, poveri innocenti, non ben rimessi ancora dalle ultime febbri. Ah, Dio, così laidamente offeso da colui, non avrebbe mai, mai perdonato. La maledizione di Dio sarebbe stata sempre su la sua casa. La giustizia degli uomini si sarebbe impadronita di quel miserabile, scovandolo alla fine dal nascondiglio ov’era andato a cacciare la sua vergogna; e lui e la moglie sarebbero morti dall’onta di saperlo in galera.

             A un tratto, al vecchio, assorto in queste amare riflessioni, giunse la voce d’uno dei figliuoli: di Carmine, ch’era il maggiore:

             – O pa’ ! Venite! È arrivato!

             Il Siròli ebbe un sussulto, s’aggrappò al ramo dell’albero su cui si teneva in equilibrio e si mise a tremar tutto! Giovanni? Arrivato? E che voleva da lui? E come aveva potuto rimetter piede nella casa di suo padre? alzar gli occhi in faccia alla madre?

             – Va’ ! – gridò in risposta, furente, squassando il ramo dell’albero, – corri a dirgli che se ne vada, subito! Non lo voglio in casa, non lo voglio!

             Carmine guardò negli occhi gli altri fratelli per prender consiglio, poi si mosse verso la casa campestre, facendo segno alla nipotina orfana, che aveva recato tutta esultante la notizia dell’arrivo dello zio prete, di precederlo.

             Nella corte, Carmine trovò un campiere del Lobruno seduto sul muretto accanto alla porta. Evidentemente il prete era arrivato con lui.

             –    Tuo padre? – domandò il campiere a Carmine, sollevando il capo e un virgulto che teneva in mano e col quale, aspettando, era stato a percuotere un piccolo sterpo cresciuto lì tra i ciottoli della corte.

             –    Non vuol vederlo, – rispose Carmine, – né lo vuole in casa. Sono venuto a dirglielo.

             –    Aspetta, – riprese il campiere. – Torna prima da tuo padre e digli che ho da parlargli a nome del padrone. Va’ !

             Carmine apri le braccia e tornò indietro. Il campiere allora chiamò a sé la piccina che guardava con tanto d’occhi, non sapendo che pensare di tutto quel mistero, come mai non fosse festa per tutti l’arrivo dello zio prete; se la prese tra le gambe e borbottò con un tristo sorriso sotto i baffi:

             – Tu sta’ qua, carina, non entrare. Sei piccina anche tu, e… non si sa mai! Poco dopo Carmine ritornò, seguito dai due fratelli.

             – Adesso viene, – annunziò al campiere; ed entrò coi fratelli nell’ampia stanza terrena, umida e affumicata.

             In un lato, era la mangiatoja per le bestie: un asino vi tritava pazientemente la sua razione di paglia. Nel lato opposto, era un gran letto, dai trespoli di ferro non bene in equilibrio su l’acciottolato della stanza in pendio: vi si buttavano a dormire i tre fratelli, non mai tutti insieme, giacché ora l’uno ora l’altro passava la notte all’aperto, di guardia. Il resto della stanza era ingombro d’attrezzi rurali. Una scaletta di legno conduceva alla camera a solajo, dove dormivano i due vecchi e l’orfana.

             Giovanni, seduto sulle tavole del letto, stava col busto ripiegato sulle materasse abballinate e con la testa affondata tra le braccia. La vecchia madre teneva gli occhi fissi su lui e piangeva, piangeva senza fine, in silenzio, come se tutto il cuore, tutta la vita che le restava volesse sciogliere e disfare in quelle lagrime.

             Sentendo entrar gente, il prete alzò il capo e lanciò un’occhiata bieca, poi raffondò la testa tra le braccia. I tre fratelli gì’intravidero così il volto cangiato, pallido tra la barba ispidamente cresciuta: lo mirarono un pezzo con un senso di ribrezzo e di pietà insieme, gli videro la tonaca qua e là strappata; poi, abbassando gli occhi, notarono che gli mancava la fibbia d’argento a una scarpa.

             La vecchia madre, vedendo gli altri tre figliuoli, ruppe in singhiozzi e si coprì il volto con le mani.

             – Ma’, zitta, ma’ ! – le disse Carmine, con voce grossa; e sedette su la cassapanca presso il letto, insieme con gli altri fratelli, in attesa del padre, taciturni.

             Avevano tutt’e tre la faccia gialla, tutt’e tre con le berrette a calza, nere, ripiegate indietro sul capo, e tutt’e tre, sedendo in fila, avevano preso lo stesso atteggiamento.

             Finalmente, il vecchio comparve nella corte, curvo, con le mani dietro le reni, guardando a terra. Portava in capo anche lui una berretta simile a quella dei figliuoli, ma inverdita e sforacchiata. Aveva i capelli cresciuti e la barba non più rifatta da un mese.

             – Siròli, allegro! – esclamò il campiere del Lobruno, scostando la bambina e alzandosi per venire incontro al vecchio. – Allegro, vi dico! Tutto accomodato.

             Il vecchio Siròli fisse gli occhi, ancora vivi e come induriti nello spasimo, negli occhi del campiere, senza dir nulla, come se non avesse inteso o compreso.

             Quegli allora, ch’era un omaccione gagliardo, dal torace enorme, dal volto sanguigno, gli posò una mano su la spalla con aria di protezione, spavalda e un po’ canzonatoria, e ripetè:

             – Tutto accomodato: sanato, sanato, sarebbe meglio dire! – E rise sguajatamente; poi, riprendendosi: – Quando si ha la fortuna d’aver padroni che ci vogliono bene per la nostra devozione e per la nostra onestà, certe… sciocchezzole, via, si riparano. Cose da piccini, in fin dei conti, mi spiego? Senza conseguenze. Io però non ho voluto che questa innocente entrasse là: ho fatto bene?

             Il vecchio si contenne: fremeva.

             –    Che avete da dirmi, insomma? – gli domandò. Il campiere gli tolse la mano dalla spalla, se la recò insieme con l’altra dietro la schiena, sporse il torace, alzò il capo per guardare il vecchio dall’alto e sbuffò:

             –    Eccomi qua. Il padrone, prima di tutto per rispetto all’abito che indossa indegnamente vostro figlio, poi anche per carità di voi, tanto ha fatto, tanto ha detto, che è riuscito a indurre i parenti di quei poveri piccini, a desistere dalla querela già sporta. La perizia medica risulta… favorevole. Ora vostro figlio partirà per Acireale.

             Il vecchio Siròli, che aveva ascoltato fin qui guardando in terra, levò il capo:

             –    Per Acireale?

             –    Gnorsì. Il nostro vescovo s’è messo d’accordo col vescovo di là.

             –    D’accordo? – domandò nuovamente il vecchio. – D’accordo, su che?

             –    Su… su la frittata, perdio, non capite? – esclamò quegli spazientito. – Chiudono gli occhi, insomma, e non se ne parla più

             Il vecchio strinse le pugna, impallidì, mormorò:

             –    Questo fa il vescovo?

             –    Questo e più, – rispose il campiere. – Vostro figlio starà un anno o due ad Acireale, in espiazione, finché qua non si parlerà più del fatto. Poi ritornerà e riavrà la messa, non dubitate.

             –    Lui! – gridò allora il Siròli, accennando con la mano verso casa. – Lui, toccare ancora con quelle mani sporcate, l’ostia consacrata?

             Il campiere scosse allegramente le spalle.

             –    Se Monsignore perdona…

             –    Monsignore; ma io no! – rispose pronto il vecchio, indignato, percotendosi il petto cavo con la mano deforme, spalmata. – Venite a vedere!

             Entrò nella stanza terrena, corse al letto su cui il prete stava buttato nella stessa positura, lo afferrò per un braccio e lo tirò su con uno strappo violento:

             – Va’ su, porco! Spogliati!

             Il prete, in mezzo alla stanza, con la tonaca tutta rabbuffata su le terga, i fusoli delle gambe scoperti, si nascose il volto tra le braccia alzate. I tre fratelli e la madre, rimasti seduti, guardavano costernati ora Giovanni, ora il padre, che non avevano mai visto così. Il campiere assisteva alla scena dalla soglia.

             – Va’ su e spogliati! – ripetè il vecchio.

             E, così dicendo, lo cacciò a spintoni su per la scaletta di legno. Poi si voltò alla moglie che singhiozzava forte e le impose di star zitta. La vecchia, d’un tratto, soffocò i singhiozzi, chinando più volte il capo in segno d’obbedienza. Era la prima volta, quella, che il marito le parlava così, a voce alta.

             Il campiere, dalla soglia, urtato, scrollò le spalle e borbottò:

             –    Ma perché, vecchio stolido, se tutto è accomodato?

             –    Voi, silenzio! – gridò il vecchio, movendogli incontro. – Andrete a riferire a Monsignore.

             Salì lentamente la scaletta di legno. Giovanni, lassù, s’era tolta la tonaca ed era rimasto in maniche di camicia, col panciotto e i calzoni corti, seduto presso il letto del padre. Subito si nascose il volto con le mani. Il vecchio stette a guardarlo un tratto; poi gli ordinò:

             –   Strappati cotesta fibbia dalla scarpa!

             Quello si chinò per obbedire. Il padre allora gli s’appressò, gli vide la calotta ancora in capo, gliela strappò insieme con un ciuffetto di capelli. Giovanni balzò in piedi, inferocito. Ma il vecchio, alzando terribilmente una mano, gl’indico la scala:

             –   Giù! Aspetta. Lì c’è una zappa. E ti faccio grazia, perché neanche di questo saresti più degno. Zappano i tuoi fratelli e tu non puoi stare accanto a loro. Anche la tua fatica sarà maledetta da Dio!

             Rimasto solo, prese la tonaca, la spazzolò, la ripiegò diligentemente, la baciò; raccattò da terra la fibbia d’argento e la baciò; la calotta e la baciò; poi si recò ad aprire una vecchia e lunga cassapanca d’abete che pareva una bara, dov’erano religiosamente conservati gli abiti dei tre figliuoli morti, e, facendovi su con la mano il segno della croce, vi conservò anche questi altri, del figlio sacerdote – morto.

             Richiuse la cassapanca, vi si pose a sedere, nascose il volto tra le mani, e scoppiò in un pianto dirotto.

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