Alberi cittadini – Audio lettura 3

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Legge Giuseppe Tizza
«In tutte le stagioni, all’ora del tramonto, quell’albero si popolava d’una mi­riade di passeri, che pareva dessero convegno da tutti i tetti della città. Più d’ali che di foglie palpitavano allora quei rami; pareva che ogni foglia avesse voce, che tutto l’albero cantasse fremebondo.»

Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 4 marzo 1900.

Alberi cittadini
Walter Trecchi, Antropico naturale XLIV. Dal sito dell’Autore.

Alberi cittadini

Voce di Giuseppe Tizza

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             Che noia dev’esser la vostra, poveri alberi appajati in fila lungo i viali della città e anche talvolta lungo le vie lastricate, di qua e di là su i marciapiedi, o sorgenti solitari fra piante nane dentro qualche vasto atrio silenzioso d’antico palazzo o in qualche cortile!

             Ne conosco alcuni, in fondo a una delle vie più larghe e più popolate di Roma, che fan veramente pietà. Son venuti su miseri e squallidi, ed han quasi un’aria smarrita, paurosa, come se chiedessero che stieno a farci lì, fra tanta gente affaccendata, in mezzo al fragoroso tramestio della vita cittadina. Con che mesta meraviglia, i poveretti, si vedon rispecchiati nelle splendide vetrine delle botteghe! E par che loro stessi si commiserino, scotendo lentamente i rami a qualche soffio di vento.

             Ogni qual volta passo per quella via, guardando quegli alberetti, penso ai tanti e tanti infelici che, attratti dal miraggio della città, hanno abbandonato le loro campagne e son venuti qui a intristirsi, a smarrirsi nel laberinto d’una vita che non è per loro. E immaginando il pentimento amaro e sconsolato di questi infelici e il rimpianto della terra lontana, della vita semplice e buona che vi traevano un giorno, prima che la maledetta tentazione la recasse loro a di­spetto accendendo le lusinghe d’altra fortuna; immagino anche di qual viva e spontanea letizia di germoglio si animerebbero all’aperto questi miseri alberetti; come brillerebbero le loro foglie e come si stenderebbero ad abbracciar l’aria pura questi rami aggranchiti, attediati.

             Ecco: il breve cerchio che il lastrico della via lascia attorno al tronco, è tutta la loro campagna; per esso la terra beve a stento l’acqua del cielo e respira. Questo breve cerchio è pur talvolta coperto da una grata di ferro, per una pro­tezione che può anche sembrare maggior crudeltà: i poveri alberi allora par che vengan su da una carcere, condannati a star lì; e dormono e sognano tristi, scotendosi di tanto in tanto, quasi per brivido di commozione, alle notizie che il vento lieve reca loro da lontano, dai campi già rinascenti al sorriso del nuovo aprile.

             Ah, lo sentono anch’essi, i poveri alberi della città: sentono anch’essi un non so che nell’aria ilare e fresca. Sotto il duro lastrico opprimente, alberi in esilio, la terra vi parla del rinnovato amor del sole, e voi fremendo l’ascoltate, beati nel pensiero ch’ella non si è dimenticata di voi lontani, di voi sperduti fra il trambusto della città. Sotto le case innumerevoli che la schiacciano, sotto le selci calpestate di continuo dagli uomini irrequieti, ella vive, vive, e voi sen­tite con le radici l’ardore di questa sua novella vita che non sa tenersi nascosta e schiuma quasi di tra le selci in tenui fili d’erba. Ah, voi forse, mirando quei verdi ciuffi timidi, concepite la folle speranza che la terra voglia far le vostre vendette, invader la città per riscattarvi; e vedete in sogno quei ciuffi crescere, e la via diventare un prato e la città campagna!

             Sì, ma che fanno intanto quegli stradini accosciati, curvi sul selciato? che ra­schiano? – Lo domandate a un passero che dai tetti è venuto a posarsi su voi; e il passero garrulo e pettegolo vi risponde sghignando:

             – E non vedete? Son barbieri: fan la barba alla via.

             Ma più triste ancora è la sorte di altri alberi cittadini, che non debbon sol­tanto scortare, in ordinata processione lungo i marciapiedi delle vie, le insulse e laide nostre vanità; ma che, in ordine più serrato, fondendo le varie corone, son costretti a formare quasi un portico vegetale.

             Le cesoje del giardiniere han pareggiato simmetricamente le cime di questi alberi e internamente hanno imposto ai rami la curva d’una galleria e, ai lati, gli archi d’un loggiato.

             Così svisati, con sapiente barbarie mutilati, a chi posson più davvero parer belli e far piacere questi alberi? Confesso che a me danno un senso di ribrezzo, come se mi offrissero uno spettacolo di perpetua tortura. E mi vien voglia di gridare: «Ma costruite di pietra i vostri portici! Questi son esseri vivi, che sof­frono e fan soffrire: è crudele impedir loro così la viva spontaneità del germo­glio, l’espansione della vita!».

             E non sapete, o giardinieri d’Italia, che la pena di morte è abolita fra noi? Per chi osi alzar la testa oltre le corde livellatrici delle leggi, che stanno a un palmo dal fango, rete protettrice dei nani, non c’è più il boja che gliela tagli. Or perché quella povera fronda che voglia spingersi un po’ oltre la linea im­posta dalle vostre forbici dev’essere decapitata?

             Per quegli alberi, o giardinieri, il vostro mestiere è ancor quello del boja!

             E so d’un albero nato, non si sa come, in un angusto sudicio cortile presso una brutta via affollata di vecchie case. Quel povero albero s’era levato dritto dritto sul magro stelo cinereo, con evidente sforzo, con evidente pena, quasi angosciato nel desiderio di vedere il sole e l’aria libera dalla paura di non avere in sé tanto rigoglio da arrivare oltre i tetti delle case che lo circondavano. E finalmente c’era arrivato!

             Come brillavan felici le frondi della cima, e quanta invidia destavano in quelle che stavan giù senz’aria, senza sole! Anche nella morte, nello staccarsi dai rami in autunno, le foglie di lassù eran più felici: volavan via col vento in alto, cadevan su i tetti, vedevano il cielo ancora; mentre le povere foglie basse morivan nel fango della via, calpestate.

             In tutte le stagioni, all’ora del tramonto, quell’albero si popolava d’una mi­riade di passeri, che pareva dessero convegno da tutti i tetti della città. Più d’ali che di foglie palpitavano allora quei rami; pareva che ogni foglia avesse voce, che tutto l’albero cantasse fremebondo.

             Dalle finestre delle case i bambini assistevano, sorridendo storditi, a quel passerajo fitto, continuo, assordante. Talvolta, un vecchietto si affacciava a una finestra e batteva due volte le mani: allora, d’un tratto, come per incanto, tutto l’albero taceva, esanime. Di lì a poco però, lo sbaldore ricominciava: ogni passero tornava a inebriarsi del proprio gridio e di quello degli altri e il concento diveniva man mano più fitto, più assordante di prima.

             Ora avvenne che il proprietario della casa, entro al cui cortile l’albero era cresciuto, un bel giorno pensò di alzar tutto in giro le mura per fabbricare un altro piano. E allora l’albero che con tanto stento s’era guadagnata la libertà del sole, dell’aria aperta, piegò avvilito la cima, si curvò sul tronco.

             «Su! su!» pareva gli gridassero dalle grondaje i passeri che abitavan su quel tetto, e spiccavano il volo per incitarlo più davvicino a rizzarsi: «Su! su!». E forse anche loro ripetevano al vecchio albero quelle solite frasi, quegli inutili consigli, quei vani ammonimenti che soglion darsi ai caduti, a gli sconsolati: «Fatti coraggio! non bisogna avvilirsi! raccogli le forze! rialzati!».

             Ma il vecchio albero non aveva ormai più forza di rigoglio: aveva stentato tanto per arrivare fin lassù, a quell’altezza: più su, ormai, non poteva più an­dare. Meglio morire.

             Ancora sul tramonto si raccoglievan su lui a mille a mille i passeri a far sbaldore. Ma non più l’albero pareva cantasse tutto. I passeri vivevano: l’al­bero era morto, piegato su se stesso. E invano quelli col loro gridio tentavano di richiamarlo in vita.

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