Acqua amara – Audio lettura 2

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Legge Gaetano Marino
«Dunque, signor mio, tenga bene a mente questo: che una donna desidera proprio tal quale come noi.»

Prime pubblicazioni: Il Ventesimo, 15 e 22 ottobre 1905, poi in La vita nuda, Treves 1910.

Acqua amara audiolibro
Jules Bastien-Lepage, Contadini a riposo, 1877

Acqua amara

Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)

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           Poca gente, quella mattina, nel parco attorno alle Terme. La stagione balneare era ormai per finire.

             In due sediletti vicini, in un crocicchio sotto gli alti platani, stavano un giovanotto pallido, anzi giallo, magro da far pietà dentro l’abito nuovo, chiaro, le cui pieghe, per esser troppo ampio, ancora fresche della stiratura, cascavano tutte a zig-zag, e un omaccione su la cinquantina, con un abituccio di teletta tutto raggrinzito dove la pinguedine enorme non lo stirava fino a farlo scoppiare, e un vecchio panama sformato sul testone raso.

             Reggevano entrambi per il manico i bicchieri ancor pieni della tepida e greve acqua alcalina presa or ora alla fonte.

             L’uomo grasso, quasi intronato ancora dagli strepitosi ronfi che aveva dovuto tirar col naso durante la notte, socchiudeva di tanto in tanto nel faccione da padre abate satollo e pago gli occhi imbambolati dal sonno. Il giovanotto magro, all’aria frizzante della mattina, sentiva freddo e aveva perfino qualche brivido.

             Né l’uno né l’altro sapevano risolversi a bere e pareva che ciascuno aspettasse dall’altro l’esempio. Alla fine, dopo il primo sorso, si guardarono coi volti contratti dalla medesima espressione di nausea.

             – Il fegato, eh? – domandò piano, a un tratto, l’uomo grasso al giovanotto, risedendosi. – Colichette epatiche, eh? Lei ha moglie, mi figuro…

             –    No, perché? – domandò a sua volta il giovinotto con un penoso raggrinzamento di tutta la faccia, che voleva esser sorriso.

             –    Mi pareva, così all’aria… – sospirò l’altro. – Ma se non ha moglie, stia pur tranquillo: lei guarirà!

             Il giovinotto tornò a sorridere come prima.

             –    Lei soffre forse di fegato? – domando poi, argutamente.

             –    No no, niente più moglie, io! – s’affrettò a rispondere con serietà l’uomo grasso. – Soffrivo di fegato; ma grazie a Dio, mi sono liberato della moglie; son guarito. Vengo qua, da tredici anni ormai, per atto di gratitudine. Scusi, quand’è arrivato lei?

             –    Ieri sera, alle sei, – disse il giovanotto.

             –    Ah, per questo! – esclamò l’altro, socchiudendo gli occhi e tentennando il testone. – Se fosse arrivato di mattina, già mi conoscerebbe.

             –    Io… la conoscerei?

             –    Ma sì, come mi conoscono tutti, qua. Sono famoso! Guardi, alla Piazza dell’Arena, in tutti gli Alberghi, in tutte le Pensioni, al Circolo, al Caffè da Pedoca, in farmacia, da tredici anni a questa parte, stagione per stagione, non si parla che di me. Io lo so e ne godo e ci vengo apposta. Dov’è sceso lei? Da Rori? Bravo. Stia pur sicuro che oggi, a tavola da Rori, le narreranno la mia storia. Ci prendo avanti, se permette, e gliela narro io, filo filo.

             Così dicendo, si tirò su faticosamente dal suo sedile e andò a quello del giovinotto, che gli fece posto, con la faccetta gialla tutta strizzata per la contentezza.

             – Prima di tutto, per intenderci, qua mi chiamano II marito della dottoressa. Cambiè mi chiamo. Di nome, Bernardo. Bernardone, perché son grosso. Beva. Bevo anch’io.

             Bevvero. Fecero una nuova smorfia di disgusto, che vollero cangiar subito in un sorriso, guardandosi teneramente. E Cambiè riprese:

             – Lei è giovanissimo e patituccio sul serio. Queste confidenze sviscerate che le farò, le potranno servire più di quest’acquaccia qua, che è amara, ma, in compenso, non giova a nulla, creda pure. Ce la danno a bere, in tutti i sensi, e noi la beviamo perché è cattiva. Se fosse buona… Ma no, basta: perché lei fa la cura, e le conviene aver fiducia.

             Deve sapere che sentivo dire matrimonio e, con rispetto parlando, mi si rompeva lo stomaco, proprio mi… mi veniva di… sissignore. Vedevo un corteo nuziale? sapevo che un amico andava a nozze? Lo stesso effetto. Ma che vuole da noi, sciagurati mortali? Spunta una macchiolina nel sole? un subisso di cataclismi. Un re si alza con la lingua sporca? guerre e sterminii senza fine. Un vulcano ci ha il singhiozzo? terremoti, catastrofi, un’ecatombe …

             A Napoli, al tempo mio, ci scoppiò il colera: quel gran colera di circa vent’anni fa, di cui lei, se non si ricorda, avrà certo sentito parlare.

             Mio padre, povero impiegato, con la bella fortuna che lo perseguitava, naturalmente si trovò a Napoli, l’anno del colera. Io, che avevo già trent’anni e vi avevo trovato un buon collocamento, avevo preso a pigione un quartierino da scapolo, non molto lontano da casa mia. Stavo in famiglia, e lì tenevo una ragazza che m’era piovuta come dal cielo.

             Carlotta. Si chiamava così. Ed era figlia d’un… non c’è niente di male, sa! professioni, – figlia d’uno strozzino. Prete spogliato.

             Era scappata di casa per certi litigi con la madraccia e un fratellino farabutto, che non starò a raccontarle. Pareva bonina, lei; ed era forse, allora; ma, capirà: amante, poco ci sofisticavo.

             Scusi, è religioso lei? Così così. Forse più no che sì. Come me. Mia madre, invece, caro signore, religiosissima. Povera donna, soffriva molto di quella mia relazione per lei peccaminosa. Sapeva che quella ragazza, prima che mia, non era stata d’altri. Scoppiato il colera, atterrita dalla grande moria e convinta fermamente che dovessimo tutti morire, io sopra tutti, ch’ero, secondo lei, in peccato mortale, per placare l’ira divina, pretese da me il sacrifizio che sposassi, almeno in chiesa solamente, quella ragazza.

             Creda pure che non l’avrei mai fatto, se Carlotta non fosse stata colpita dal male. Dovevo salvarle l’anima, almeno: l’avevo promesso a mia madre. Corsi a chiamare un prete e la sposai. Ma che fu? mano santa? miracolo? Pareva morta, guarì!

             Mia madre, per spirito di carità, anzi di sacrifizio, non ostante la tremarella, aveva voluto assistere alla cerimonia, e poi rimanere lì presso al letto della colpita.

             Sembrava che il colera fosse venuto a Napoli per me, per castigar me del peccato mortale, e che dovesse passare con la guarigione di Carlotta, tanto impegno, tanto zelo mise mia madre a curarla. Appena l’ebbe salvata, vedendo che lì, in quel quartierino, mancavano per la convalescente tutti i comodi, volle anche portarsela a casa, non ostante la mia opposizione.

             Capirà bene che, entrata, Carlotta non ne uscì se non mia sposa legittima di lì a poco, appena cessata la moria.

             E ribeviamo, caro signore!

             Per fortuna, a Carlotta durante l’epidemia erano morti padre, madre e fratelli. Fortuna e disgrazia, perché, unica superstite della famiglia, ereditò trentotto o quarantamila lire, frutto della nobile professione paterna.

             Moglie e con la dote, che vide, signor mio? cambiò da un giorno all’altro, da così a così.

             Ora senta. Sarà che io mi trovo in corpo un certo spiritaccio… come dire? fi… filosofesco, che magari a lei potrà sembrare strambo; ma mi lasci dire.

             Crede lei che ci siano due soli generi, il maschile e il femminile?

             Nossignore.

             La moglie è un genere a parte; come il marito, un genere a parte.

             E, quanto ai generi, la donna, col matrimonio, ci guadagna sempre. Avanza! Entra cioè a partecipar di tanto del genere mascolino, di quanto l’uomo, necessariamente, ne scapita. E ne scapita molto, creda a me.

             Se mi venisse la malinconia di comporre una grammatichetta ragionata come dico io, vorrei mettere per regola che si debba dire: il moglie; e, per conseguenza, la marito.

             Lei ride? Ma per la moglie, caro signore, il marito non è più uomo. Tanto vero, che non si cura più di piacergli.

             «Con te non c’è più sugo», pensa la moglie. «Tu già mi conosci.»

             Ma pure, se il marito è così dabbenaccio da rinzelarsi, vedendola per esempio a letto come una diavola, coi capelli incartocciati, col viso impiastricciato, e via dicendo:

             –    Ma io lo faccio per te! – è capace di rispondergli lei.

             –    Per me?

             –    Sicuro. Per non farti sfigurare. Ti piacerebbe che la gente, vedendoci per via, dicesse: «Oh guarda un po’ che moglie è andata a scegliersi quel pover uomo»?

             E il marito, che – gliel’assicuro – non è più uomo, si sta zitto; quand’invece dovrebbe gridare:

             «Ma me lo dico io da me, cara, che moglie sono andato a scegliermi, nel vederti così, adesso, accanto a me! Ah, tu mi ti mostri brutta per casa e a letto, perché gli altri poi, per via, possano esclamare: “Oh guarda che bella moglie ha quel pover uomo”? E mi debbono invidiare per giunta? Ma grazie, grazie, cara, di quest’invidia per me, che si traduce, naturalmente, in un desiderio di te. Tu vuoi esser desiderata perché io sia invidiato? Quanto sei buona! Ma più buono sono io che t’ho sposata».

             E il dialogo potrebbe seguitare. Perché c’è il caso, sa? che la moglie abbia

             anche l’impudenza incosciente di domandare al marito se, acconciata adesso e parata per uscire a passeggio, gli pare che stia bene.

             Il marito dovrebbe risponderle:

             «Ma sai, cara? i gusti son tanti. A me, come a me, già te l’ho detto, codesti capelli pettinati così non mi garbano. A chi vuoi piacere? Bisognerebbe che tu me lo dicessi, per saperti rispondere. A nessuno? proprio a nessuno? Ma allora, benedetta te, nessuno per nessuno, cerca di piacere a tuo marito, che almeno è uno!».

             Caro signore, a una tale risposta la moglie guarderebbe il marito quasi per compassione, poi farebbe una spallucciata, come a dire:

             «Ma tu che c’entri?».

             E avrebbe ragione. Le donne non possono farne a meno: per istinto, vogliono piacere. Han bisogno d’esser desiderate, le donne.

             Ora, capirà, un marito non può più desiderar la moglie che ha giorno e notte con sé. Non può desiderarla, intendo, com’ella vorrebbe esser desiderata.

             Già, come la moglie nel marito non vede più l’uomo, così l’uomo nella moglie, a lungo andare, non vede più la donna.

             L’uomo, più filosofo per natura, ci passa sopra; la donna, invece, se ne offende; e perciò il marito le diventa presto increscioso e spesso insopportabile.

             Essa deve fare il comodo suo, e il marito no.

             Ma qualunque cosa egli facesse, creda pure, non andrebbe mai bene per lei, perché l’amore, quel tale amore di cui ella ha bisogno, il marito, solamente perché marito, non può più darglielo. Più che amore è una cert’aura di ammirazione di cui ella vuol sentirsi avviluppata. Ora vada lei ad ammirarla per casa coi diavoletti in capo, senza busto, in ciabatte, e oggi, poniamo, col mal di pancia e domani col mal di denti. Quella cert’aura può spirar fuori, dagli occhi degli uomini che non sanno, e dei quali essa, senza parere, con arte sopraffina, ha voluto e saputo attirare e fermare gli sguardi per inebriarsene deliziosamente. Se è una moglie onesta, questo le basta. Le parlo adesso delle mogli oneste, io, intendiamoci, anzi delle intemerate addirittura. Delle altre non c’è più sugo a parlarne.

             Mi consenta un’altra piccola riflessione. Noi uomini abbiamo preso il vezzo di dire che la donna è un essere incomprensibile. Signor mio, la donna, invece, è tal quale come noi, ma non può né mostrarlo, né dirlo, perché sa, prima di tutto, che la società non glielo consente, recando a colpa a lei quel che invece reputa naturale per l’uomo; e poi perché sa che non farebbe piacere agli uomini, se lo mostrasse e lo dicesse. Ecco spiegato l’enimma. Chi ha avuto come me la disgrazia d’intoppare in una moglie senza peli sulla lingua, lo sa bene.

             E diamo ancora una bevutina. Coraggio!

             Non era così dapprima, Carlotta. Diventò così subito dopo il matrimonio, appena cioè si sentì a posto e s’accorse ch’io cominciai naturalmente a vedere in lei non soltanto il piacere, ma anche quella bruttissima cosa che è il dovere.

             Io dovevo rispettarla, adesso, no? Era mia moglie! Ebbene, forse lei non voleva essere rispettata. Chi sa perché, il vedermi diventare di punto in bianco un marito esemplare, le diede terribilmente ai nervi.

             Cominciò per noi una vita d’inferno. Lei, sempre ingrugnata, spinosa, irrequieta; io, paziente, un po’ per paura, un po’ per la coscienza d’aver commesso la più grossa delle bestialità e di doverne piangere le conseguenze. Le andavo appressò come un cagnolino. E facevo peggio! Per quanto mi ci scapassi, non riuscivo però a indovinare, che diamine volesse mia moglie. Ma avrei sfidato chiunque a indovinarlo! Sa che voleva? Voleva esser nata uomo, mia moglie. E se la pigliava con me perché era nata femmina. – Uomo, – diceva, – e magari cieco d’un occhio!

             Un giorno le domandai:

             –    Ma sentiamo un po’, che avresti fatto, se fossi nata uomo? Mi rispose, sbarrando tanto d’occhi:

             –    Il mascalzone!

             –    Brava!

             –    E moglie, niente, sai! Non l’avrei presa.

             –    Grazie, cara.

             –    Oh, puoi esserne più che sicuro!

             –   E ti saresti spassato? Dunque tu credi che con le donne ci si possa spassare?

             Mia moglie mi guardò nel fondo degli occhi.

             –   Lo domandi a me? – mi disse. – Tu forse non lo sai? Io non avrei preso moglie anche per non far prigioniera una povera donna.

             – Ah, – esclamai. – Prigioniera ti senti? Elei:

             –    Mi sento? E che sono? che sono stata sempre, da che vivo? Io non conosco che te. Quando mai ho goduto io?

             –    Avresti voluto conoscer altri?

             –    Ma certo! ma precisamente come te, che ne hai conosciute tante prima e chi sa quante dopo!

             Dunque, signor mio, tenga bene a mente questo: che una donna desidera proprio tal quale come noi. Lei, per modo d’esempio, vede una bella donna, la segue con gli occhi, se la immagina tutta, e col pensiero la abbraccia, senza dirne nulla, naturalmente, a sua moglie che le cammina accanto? Nel frattempo, sua moglie vede un bell’uomo, lo segue con gli occhi, se lo immagina tutto, e col pensiero lo abbraccia, senza dirne nulla a lei, naturalmente.

             Niente di straordinario in questo; ma creda pure che non fa punto piacere il supporre questa cosa ovvia e comunissima nella propria moglie, prigioniera col corpo, non con l’anima. E il corpo stesso! Dica un po’: non abbiamo noi uomini la coscienza che, avendo un’opportunità, non sapremmo affatto resistere?

             Ebbene, s’immagini che è proprio lo stesso per la donna. Cascano, cascano che è un piacere, con la stessa facilità, se loro vien fatto, se trovano cioè un uomo risoluto, di cui si possan fidare. Me l’ha lasciato intender bene mia moglie, parlando – s’intende – delle altre.

             E vengo al caso mio.

             Naturalmente, dopo un anno di matrimonio, m’ammalai di fegato.

             Per sei anni di fila, cure inutili, che fecero strazio del mio povero corpo, ridotto in uno stato da far pietà finanche agli altri ammalati del mio stesso male.

             Il rimedio dovevo trovarlo qua.

             Ci venni con mia moglie e, nei primi giorni, alloggiai da Rori, dove ora è lei. Ordinai, appena arrivato, che mi si chiamasse un medico per farmi visitare e prescrivere quanti bicchieri al giorno avrei dovuto bere, o se mi sarebbero convenute più le docce o i bagni d’acqua sulfurea.

             Mi si presentò un bel giovane, bruno, alto, aitante della persona, dall’aria marziale, tutto vestito di nero. Seppi poco dopo che era stalo, difatti, nell’esercito, medico militare, tenente medico; che a Rovigo aveva contratto una relazione con la figlia d’un tipografo; che ne aveva avuto una bambina, e che, costretto a sposare, s’era dimesso ed era venuto qua in condotta. Otto mesi dopo questo suo grande sacrifizio, gli erano morte quasi contemporaneamente moglie e figliuola. Erano già passati circa tre anni dalla doppia sciagura, ed egli vestiva ancora di nero,” come un bellissimo corvo.

             Faceva furore, capirà, con quel sacrifizio delle dimissioni per amore, così mal ricompensato dalla sorte; con quelle due disgrazie che gli si leggevano ancora scolpite in tutta la persona, impostata che neanche Carlomagno. Tutte

             le donne, a lasciarle fare, avrebbero voluto consolarlo. Egli lo sapeva e si mostrava sdegnoso.

             Dunque venne da me; mi visitò ben bene, palpandomi tutto; mi ripetè press’a poco quel che già tant’altri medici mi avevano detto, e infine mi prescrisse la cura: tre mezzi bicchieri, di questi mezzani, pei primi giorni, poi tre interi, e un giorno bagno, un giorno doccia. Stava per andarsene, quando finse d’accorgersi della presenza di mia moglie.

             –    Anche la signora? – domandò, guardandola freddamente.

             –    No no, – negò subito mia moglie con un viso lungo lungo e le sopracciglia sbalzate fino all’attaccatura dei capelli.

             –    Eppure, permette? – fece lui.

             Le si accostò, le sollevò con delicatezza il mento con una mano, e con l’indice dell’altra le rovesciò appena una palpebra.

             – Un po’ anemica, – disse.

             Mia moglie mi guardò, pallidissima, come se quella diagnosi a bruciapelo la avesse lì per lì anemizzata. E con un risolino-nervoso su le labbra, alzò le spalle, disse:

             –    Ma io non mi sento nulla… Il medico s’inchinò, serio:

             –    Meglio così.

             E andò via con molta dignità.

             Fosse l’acqua o il bagno o la doccia, o piuttosto, com’io credo, la bella aria che si gode qua e la dolcezza della campagna toscana, il fatto è che mi sentii subito meglio; tanto che decisi di fermarmi per un mese o due; e, per stare con maggior libertà, presi a pigione un appartamentino presso la Pensione, un po’ più giù, da Coli, che ha un bel poggiolo donde si scopre tutta la vallata coi due laghetti di Chiusi e di Montepulciano.

             Ma – non so se lei lo ha già supposto – cominciò a sentirsi male mia moglie.

             Non diceva anemia, perché lo aveva detto il medico; diceva che si sentiva una certa stanchezza al cuore e come un peso sul petto che le tratteneva il respiro.

             E allora io, con l’aria più ingenua che potei:

             – Vuoi farti visitare anche tu, cara?

             Si stizzì fieramente, com’io prevedevo, e rifiutò.

             Il male, si capisce, crebbe di giorno in giorno, crebbe quanto più lei s’ostinò nel rifiuto. Io, duro, non le dissi più nulla. Finché lei stessa, un giorno, non potendone più, mi disse che voleva la visita, ma non di quel medico, no, recisamente no; dell’altro medico condotto (ce n’erano due, allora): dal dottor Beni voleva farsi visitare, ch’era un vecchiotto ispido, asmatico, quasi cieco, già mezzo giubilato, ora giubilato del tutto, all’altro mondo.

             –   Ma via! – esclamai. – Chi chiama più il dottor Berri? E sarebbe poi uno sgarbo immeritato al dottor Loero, che s’è dimostrato sempre così premuroso e cortese con noi !

             Di fatti, ogni giorno, qua alle Terme, vedendomi scendere dalla vettura con mia moglie, il dottor Loero ci si faceva innanzi con quella impostatura altera e compunta; si congratulava con me della rapida miglioria; m’accompagnava alla fonte e poi su e giù per questi vialetti del parco, non mancando ai debiti riguardi verso mia moglie, ma curandosi pochissimo, nei primi giorni, di lei, che ne gonfiava, s’intende, in silenzio.

             Da una settimana, però, avevano preso a battagliar fra loro su l’eterna questione degli uomini e delle donne, dell’uomo che è prepotente, della donna che è vittima, della società che è ingiusta, ecc. ecc.

             Creda, signor mio, non posso più sentirne parlare, di queste baggianate. In sette anni di matrimonio, fra me e mia moglie non si parlò mai d’altro.

             Le confesso tuttavia che in quella settimana gongolai nel sentir ripetere al dottor Loero con molta compostezza le mie stesse argomentazioni, e col pepe e col sale dell’autorità scientifica. Mia moglie, a me, mi caricava d’insulti; col dottor Loero, invece, doveva rodere il freno della convenienza; ma della bile che non poteva sputare, insaporava ben bene le parole.

             Speravo, con questo, che il mal di cuore le passasse. Ma che! Come le ho detto, le crebbe di giorno in giorno. Segno, non le pare? ch’ella voleva convincere con altri argomenti l’avversario. E guardi un po’ che razza di parte tocca talvolta di rappresentare a un povero marito! Sapevo benissimo ch’ella voleva esser visitata dal dottor Loero e ch’era tutta una commedia l’antipatia che questi le faceva, una commedia la pretesa d’esser visitata invece da quel vecchio asmatico e rimbecillito, come una commedia era quel suo mal di cuore. Eppure dovetti fingere di credere sul serio a tutt’e tre le cose e sudare una camicia per indurla a far quello che lei, in fondo, desiderava.

             Caro signore, quando mia moglie, senza busto – s’intende – si stese sul letto e lui, il dottore, la guardò negli occhi nel chinarsi per posarle l’orecchio sulla mammella, io la vidi quasi mancare, quasi disfarsi; le vidi negli occhi e nel volto quel tale turbamento… quel tale tremore, che… – lei m’intende bene. La conoscevo e non potevo sbagliare.

             Poteva bastare, no? Una moglie rimane onestissima, illibata, inammendabile, dopo una visita come quella; visita medica, c’è poco da dire, sotto gli occhi del marito. E va bene! Che bisogno c’era, domando io, di venirmi a cantar sul muso quel che già sapevo dentro di me e avevo visto con gli occhi miei e quasi toccato con mano?

             Su, su. Coraggio. Ribeviamo. Ribeviamo.

             Me ne stavo una sera sul poggiolo a contemplare il magnifico spettacolo dell’ampia vallata sotto la luna.

             Mia moglie s’era già messa a letto.

             Lei mi vede così grasso e forse non mi suppone capace di commuovermi a uno spettacolo di natura. Ma creda che ho un’anima piuttosto mingherlina. Un’animuccia coi capelli biondi ho, e col visino dolce dolce, diafano e affilato e gli occhi color di cielo. Un’animuccia insomma che pare un’inglesina, quando, nel silenzio, nella solitudine, s’affaccia alle finestre di questi miei occhiacci di bue, e s’intenerisce alla vista della luna e allo scampanellio che fanno i grilli sparsi per la campagna.

             Gli uomini, di giorno, nelle città, e i grilli non si danno requie la notte nelle campagne. Bella professione, quella del grillo!

             – Che fai?

             –    Canto.

             –    E perché canti?

             Non lo sa nemmeno lui. Canta. E tutte le stelle tremano nel cielo. Lei le guarda. Bella professione, anche quella delle stelle! Che stanno a farci lassù! Niente. Guardano anche loro nel vuoto e par che n’abbiano un brivido continuo. E sapesse quanto mi piace il gufo che, in mezzo a tanta dolcezza, si mette a singhiozzare da lontano, angosciato. Ci piange lui, dalla dolcezza.

             Basta. Guardavo commosso, come le ho detto, quello spettacolo, ma già sentivo un po’ di fresco (eran passate le undici) e stavo per ritirarmi: quando udii picchiar forte e a lungo all’uscio di strada. Chi poteva essere a quell’ora?

             Il dottor Loero.

             In uno stato, signor mio, da far compassione finanche alle pietre.

             Ubriaco fradicio.

             Erano venuti da Firenze, da Perugia e da Roma cinque o sei medici, per la cura dell’acqua, ed egli, col farmacista, aveva pensato bene di dare una cena ai colleghi, nell’Ospedaletto della Croce Verde, dietro la Collegiata, lì vicino a Rori.

             Allegra, come lei può immaginare, una cenetta all’ospedale! E altro che cura d’acqua! s’erano ubriacati tutti come tanti… non diciamo majali, perché i majali, poveracci, non hanno veramente quest’abitudine.

             Che idea gli era balenata, nel vino, di venire a inquietar me, ch’ero quella sera, come le ho detto, tutto chiaro di luna?

             Barcollava, e dovetti sorreggerlo fino al poggiolo. Lì m’abbracciò stretto stretto e mi disse che mi voleva bene, un bene da fratello, e che tutta la sera aveva parlato di me coi colleghi, del mio fegato e del mio stomaco rovinati, che gli stavano a cuore, tanto a cuore che, passando innanzi alla mia porta, non aveva voluto trascurare di farmi una visitina, temendo che il giorno appresso non sarebbe potuto andare alle Terme, perché – non si sarebbe detto, veh! – ma aveva proprio bevuto un pochino. Io a ringraziarlo, si figuri, e a esortarlo ad andarsene a casa, che era già tardi… Niente! Volle una seggiola per mettersi a sedere sul poggiolo, e cominciò a parlarmi di mia moglie, che gli piaceva tanto, e voleva che andassi a destarla, perché con lui ci stava, la signora Carlottina, oh se ci stava! e come! e come! Bella puledra ombrosa, che sparava calci per amore, per farsi carezzare…

             E via di questo passo, sghignazzando e tentando con gli occhi, che gli si chiudevano soli, certi furbeschi ammiccamenti.

             Mi dica lei che potevo fargli, in quello stato. Schiaffeggiare un ubriaco che non si reggeva in piedi? Mia moglie, che s’era svegliata, me lo gridò rabbiosamente tre o quattro volte dal letto. Anche a me la volontà di schiaffeggiarlo era scesa alle mani: ma chi sa che impressione avrebbe fatto uno schiaffo a quel povero giovine che, nella beata incoscienza del vino, aveva perduto ogni nozione sociale e civile e gridava in faccia la verità allegramente. Lo afferrai e lo tirai su dalla seggiola: una certa scrollatina non potei far a meno di dargliela, ma fu lì lì per cascare e dovetti aver cura del suo stato fino alla porta; là… sì, gli diedi un piccolo spintone e lo mandai a ruzzolare per la strada.

             Quando entrai in camera da letto, trovai mia moglie con un diavolo per capello: frenetica addirittura. S’era levata da letto. Mi assaltò con ingiurie sanguinose; mi disse che se fossi stato un altro uomo, avrei dovuto pestarmi sotto i piedi quel mascalzone e poi buttarlo dal poggiolo; che ero un uomo di cartapesta, senza sangue nelle vene, senza rossore in faccia, incapace di difendere la rispettabilità della moglie, e capacissimo invece di far tanto di cappello al primo venuto che…

             Non la lasciai finire; levai una mano; le gridai che badasse bene: lo schiaffo che avrei dovuto dare a colui, se non fosse stato ubriaco, l’avrei appioppato a lei, se non taceva. Non tacque, si figuri! Dal furore passò al dileggio. Ma sicuro che m’era facilissimo fare il gradasso con lei, schiaffeggiare una donna, dopo aver accolto e accompagnato coi debiti riguardi fino alla porta uno che era venuto a insultarmi fino a casa. Ma perché, perché non ero andato a destarla subito? Anzi perché non glielo avevo introdotto in camera e pregato di mettersi a letto con lei?

             – Tu lo sfiderai! – mi gridò in fine, fuori di sé. – Tu lo sfiderai domani, e guaj a te se non lo fai !

             A sentirsi dire certe cose da una donna, qualunque uomo si ribella. M’ero già spogliato e messo a letto. Le dissi che la smettesse una buona volta e mi lasciasse dormire in pace: non avrei sfidato nessuno, anche per non dare a lei questa soddisfazione.

             Ma durante la notte, tra me e me, ci pensai molto. Non sapevo e non so di cavalleria, se un gentiluomo debba raccogliere l’insulto e la provocazione di un ubriaco che non sa quel che si dica. La mattina dopo, ero sul punto di recarmi a prender consiglio da un maggiore in ritiro che avevo conosciuto alle Terme, quando questo stesso maggiore, in compagnia di un altro signore del paese, venne a chiedermi lui soddisfazione a nome del dottor Loero. Già! per il modo come lo avevo messo alla porta la sera precedente. Pare che, al mio spintone, cadendo, si fosse ferito al naso.

             – Ma se era ubriaco! – gridai a quei signori.

             Tanto peggio per me. Dovevo usargli un certo riguardo. Io capisce? E per miracolo mia moglie non mi aveva mangiato perché non lo avevo buttato giù dal poggiolo!

             Basta. Voglio andar per le leste. Accettai la sfida; ma mia moglie mi sghignò sul muso e, senza por tempo in mezzo, cominciò a preparar le sue robe. Voleva partir subito; andarsene, senza aspettar l’esito del duello, che pure sapeva a condizioni gravissime.

             Da che ero in ballo, volevo ballare. Le impose lui, le condizioni: alla pistola. Benissimo! Ma io pretesi allora, che si facesse a quindici passi. E scrissi una lettera, alla vigilia, che mi fa crepar dalle risa ogni qual volta la rileggo. Lei non può figurarsi che sorta di scempiaggini vengano in mente a un pover uomo in siffatti frangenti.

             Non avevo mai maneggiato armi. Le giuro che, istintivamente, chiudevo gli occhi, sparando. Il duello si fece su alla Faggeta. I due primi colpi andarono a vuoto; al terzo… no, il terzo andò pure a vuoto; fu al quarto; al quarto colpo veda un po’ che testa dura, quella del dottore! – la palla ci vide per me e andò a bollarlo in fronte, ma non gl’intacco l’osso, gli strisciò sotto la cute capelluta e gli riuscì di dietro, dalla nuca.

             Lì per lì parve morto. Accorremmo tutti; anch’io; ma uno dei miei padrini mi consigliò d’allontanarmi, di salire in vettura e scappare per la via di Chiusi.

             Scappai.

             Il giorno dopo venni a sapere di che si trattava; e un’altra cosa venni a sapere, che mi riempì di gioja e di rammarico a un tempo: di gioja per me, di rammarico per il mio avversario, il quale, dopo una palla in fronte, pover uomo, non se la meritava davvero.

             Riaprendo gli occhi, nell’Ospedaletto della Croce Verde, il dottor Loero si vide innanzi un bellissimo spettacolo: mia moglie, accorsa al suo capezzale per assisterlo!

             Della ferita guarì in una quindicina di giorni: di mia moglie, caro signore, non è più guarito.

             Vogliamo andare per il secondo bicchiere?

Acqua amara – Audio lettura 1 – Legge Enrica Giampieretti
Acqua amara – Audio lettura 2 – Gaetano Marino
Acqua amara – Audio lettura 3 – Legge Valter Zanardi
Acqua amara – Audio lettura 4 – Legge Giuseppe Tizza

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