Stoccolma, 10 Dicembre 1934. “For his bold and ingenious revival of dramatic and scenic art”. Articoli dell’epoca (in formato PDF): |
Nino Borsellino – Testo di catalogo
Il 9 novembre 1934 Luigi Pirandello ricevette a Roma il telegramma con cui Per Hallström, segretario permanente dell’Accademia di Svezia, gli comunicava l’avvenuta assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura.
La sua casa di via Antonio Bosio, una traversa della Nomentana, fu invasa quello stesso giorno, racconta Gaspare Giudice nella sua bella biografia, da giornalisti e fotografi, e lo scrittore dovette adattarsi a mettersi in posa curvo sulla macchina da scrivere dove batté su un foglio una sola ripetuta esclamazione: «pagliacciate! pagliacciate!…» (Giudice 1963, p. 531).
Era un modo tipicamente pirandelliano di irridere a se stesso e al rituale delle interviste, a cui peraltro spesso consentiva o doveva consentire, come è ovvio Quando si è qualcuno.
Nella commedia rappresentata con quel titolo in Argentina l’anno prima aveva tramato la beffa di un vecchio scrittore che invano tenta di cancellare i più resistenti stereotipi della sua fama letteraria.
E ora, senza sottrarsi agli obblighi della notorietà, nascondeva con uno scherzo il disagio della sua esibizione, lasciando il foglio dattiloscritto a futura memoria.
Non intendeva né poteva, certo, beffarsi di un prestigioso riconoscimento che consacrava la sua fama internazionale giunta ormai al culmine, tanto più in quell’anno che fu caratterizzato da un esordio non proprio esaltante, presto però pienamente riscattato da una serie di successi personali.
Per la sua novità di stagione, La favola del figlio cambiato, dramma in versi con musiche di Gian Francesco Malipiero, c’erano state reazioni contrastanti e perfino tumultuose.
Dopo la prima a Braunschweig e Darmstadt in Germania, la messinscena in marzo al Teatro dell’Opera di Roma provocò una duplice opposizione: tanto di un folto pubblico di fascisti, che vi videro una denigrazione farsesca della sovranità regale e dell’autorità di regime, quanto di un gruppo di spettatori antifascisti che fischiarono la rappresentazione per mascherare la loro protesta contro la presenza di Mussolini in teatro.
Vietate le repliche per decisione dall’alto, la Favola ebbe una diversa ripresa. Fu incorporata nell’ultimo e incompiuto capolavoro pirandelliano, I Giganti della montagna, come l’allegoria di quell’insuccesso che celebra, tuttavia, il «mito dell’arte».
Quel testo riesumato dalla grande attrice Ilse come un messaggio di poesia resterà sacrificato all’incomprensione e al furore della società di massa, circense, inestetica. Ma esprimeva nel sacrificio un’estrema difesa del teatro di poesia.
Proprio il tema del primato estetico e insieme etico e civile del teatro animò nell’estate dello stesso anno i preparativi di Pirandello e dei suoi collaboratori, primo fra tutti Silvio D’Amico, del più grande incontro mai realizzato tra autori registi e architetti teatrali di tutto il mondo: il convegno internazionale su “Il teatro drammatico” della Fondazione Alessandro Volta dell’Accademia d’Italia, aperto solennemente in Campidoglio l’8 ottobre sotto la sua presidenza e con una sua allarmata invocazione: «Il teatro non può morire». Infatti, era in crisi. Il pubblico era stato distratto dal palcoscenico soprattutto dall’attrazione esercitata dallo schermo cinematografico, più che dalle tante programmazioni di spettacoli di massa che la propaganda totalitaria promuoveva, con esiti non esaltanti del resto, e la cultura di regime assecondava, con adepti tra gli stessi letterati e teatranti di fede pirandelliana. Il convegno non poteva riparare a questo squilibrio. Rieducare al teatro era un compito realizzabile solo col consenso di un potere al quale lo scrittore scandalosamente all’indomani del delitto Matteotti aveva data la sua adesione illudendosi che il creatore di uno stato forte, non reso inerte dalle lotte partitiche e dalle divisioni parlamentari, potesse imporre l’istituzione di un Teatro Nazionale. Fu un’illusione appunto, alimentata da un dittatore che evitava di provocare ripulse o soltanto sentimenti di insofferenza nel ceto intellettuale e, anzi, cercava personalmente e con accorte mediazioni di non apparire un tiranno repressivo.
Nell’occasione del convegno il duce fu anche conciliante, se è sua o comunque di suo pieno gradimento l’idea del gran finale che si celebrò nel reciproco ossequio tra due maestri avversi, sancito dalla rappresentazione al Teatro Argentina della Figlia di Iorio di Gabriele D’Annunzio con regia dello stesso Pirandello, interpretazione della sua prediletta attrice, Marta Abba, e del primo Aligi di trent’anni prima, il grande attore, per fama e ormai anche per età, Ruggero Ruggeri.
La cerimonia dell’assegnazione del Nobel (il 10 dicembre 1934) fu anticipata da una serie di festeggiamenti a Parigi e a Londra e di nuovo a Parigi, da dove lo scrittore raggiunse il 9 dicembre Stoccolma. L’arte di Pirandello oggi è misurata su tutto il vasto territorio della sua creatività letteraria, vale a dire, del narratore dell’immane corpus delle Novelle per un anno e dei sette romanzi – L’esclusa, Il turno, Il fu Mattia Pascal, I vecchi e i giovani, I quaderni di Serafino Gubbio operatore, Suo marito, Uno, nessuno e centomila – un universo di trame e personaggi parallelo a quello del teatro, a sua volta esteso quanto o più di quello narrativo e ambiguamente caratterizzato da un titolo onnicomprensivo, Maschere nude: un ossimoro, una figura retorica dell’impossibilità, che denuncia l’opposizione di Vita e Forma, termini della più vulgata condensazione di un relativismo poi passata a esemplificare un filosofema proverbiale del pirandellismo, ovvero del concettualismo pirandelliano. E si aggiunga molto altro a quella vasta produzione: una pratica di poeta non circoscritta solo agli anni giovanili, una competenza di linguista dialettale valorizzata con originale espressività nei fervidi copioni siciliani, una filosofia dell’arte, diffusa con una varia pubblicistica e diffusa nel fondamentale saggio su L’umorismo, il breviario di teoria e poetica a cui Pirandello volle sempre riferire, senza condizionarla con rigide applicazioni, la sua molteplice e sempre sorprendente esperienza di scrittore.
La modernità dell’opera pirandelliana – modernità perenne tuttora percepibile di là dalla grande stagione artistica del primo Novecento – è un’eredità indivisibile, se non con pochi scarti, che oggi si trasmette non solo con la lettura e la messinscena teatrale, ma anche rigenerandosi nei nuovi mezzi espressivi, proprio con quelli temuti, eppure sempre assecondati da un Pirandello in funzione di sceneggiatore, della invadente cinematografia, e con quelli elettronici, a suo tempo appena intuibili, della televisione. Ma fin quando lo scrittore fu in vita, fino al dicembre del 1936, il suo «ardito e geniale revival dell’arte drammatica e scenica», il merito che gli attribuisce la motivazione del Nobel, era lo stesso che universalmente gli veniva attribuito e con il quale si indicava una inedita congiunzione di creazione e sperimentazione. Il teatro, linguaggio multiplo, verbale mimico scenico, rendeva più evidente quell’unità, allora e tuttora immediatamente percepita come un evento sconvolgente che si realizza mettendo in relazione palcoscenico e pubblico, abbattendo la quarta parete, la separazione convenzionale dei due luoghi teatrali. In confronto, il testo scritto resta un palcoscenico privato, semmai virtuale, trasformabile in performance teatrale, come fa lo stesso narratore con molte sue novelle e come faranno altri anche con i romanzi rielaborati in drammaturgie sceniche e filmiche. Da qui le ragioni del primato storico della sua drammaturgia.
Pirandello – sembrerà paradossale – diffidò sempre del teatro, non come scrittura ma come esecuzione. Il personaggio, la sua creatura primaria, autonoma rispetto allo stesso suo creatore, rischiava a suo parere di essere tradito dall’attore, che è un calco artificiale della persona e della vita da cui il suo demiurgo, l’autore, attinge, e la messinscena è una sua innaturale mimesi. Ma è l’unica, e va sperimentata. Per questo, Pirandello fa uscire dal romanzo che aveva abbozzato con lo stesso titolo, Sei personaggi in cerca d’autore, i suoi fantasmi narrativi e li manda a teatro, a provocare una inconcepibile messinscena che abolisca le usuali mediazioni degli interpreti e di una regia che pure tenta di ordinare il caos dell’esistenza: condizione prevista e programmata per una «commedia da fare». La trilogia del teatro-nel-teatro, inaugurata dai Sei personaggi, si completa con altri eventi: il contrasto tra la realtà vissuta e la verosimiglianza scenica che vorrebbe riprodurla in Ciascuno a suo modo, il rifiuto della sostituzione della regia-magia alla parola evocatrice in Questa sera si recita a soggetto. E tutta insieme conferma la nascita di una nuova epoca teatrale.
Il discorso di presentazione del segretario permanente dell’Accademia di Svezia si limita a ricordare l’opera del narratore come background di quella drammatica e mette capo, dopo una dettagliata ricognizione tra i capolavori delle Maschere nude, ai Sei personaggi consacrandone l’assoluto valore artistico: «L’esuberante manifestazione di un sentire appassionato e di un’attività intellettuale di superiore caratura, carica di poesia, costituisce la vera ispirazione del genio» (Hallström, in Nobel Lectures 1969). Hallström coglie nella drammaturgia pirandelliana due elementi essenziali non da tutti riconosciuti: l’idea della certezza illusoria della personalità, dell’Io, per dirla con una terminologia psicanalitica che Pirandello doppiava col termine più tradizionale di “coscienza”, e l’inveramento della stessa idea come immagine strappata alla vita e divenuta sostanza creativa.
Alla vita prima che all’arte Pirandello riconduce nel suo discorso accademico le sue più profonde motivazioni di scrittore: «Sono stato un buon allievo; un buon allievo non alla scuola, ma nella vita; un buon allievo che ha cominciato con un’intera buona fede tutto ciò che apprendeva… L’attenzione continua, e l’intima serietà con le quali seguii questo insegnamento, sono testimonianza di un umile e amoroso rispetto, assolutamente necessario per accumulare amare illusioni, esperienze crudeli, ferite terribili, e tutti questi errori dell’innocenza hanno finito per fare di me un essere, come è giusto che sia un artista, del tutto inadatto alla vita, e soltanto adatto a pensare e sentire…» (Giudice 1963, pp. 531-532). Aveva più volte ricordato in pubblico e in privato: «La vita o si vive o si scrive». Avrebbe potuto affermare lo stesso per la sua scelta politica, dalla quale la sua opera esce indenne e semmai forte di umorismo disgregante. Per questo egli si potè professare apolitico, e avrebbe potuto rivendicare pure in questo ambito della sua esperienza umana un’innocenza che Massimo Bontempelli chiamò «candore». Anche Corrado Alvaro lo considerava un candido, un maestro senza ostentazioni di superiorità. Fu Alvaro a raccogliere un’indiscrezione sull’assegnazione del Nobel. Il duce non l’avrebbe gradita. Ambiva, non si sa per quali meriti, a ottenere il Premio per la Pace e temeva che quello per la Letteratura assegnato a un italiano, peraltro antieroico a differenza dell’ultimo vate D’Annunzio, non lo favorisse. Il retroscena della decisione accademica testimonia però di una candidatura proposta autorevolmente da Guglielmo Marconi, e non è credibile che lo scienziato, a sua volta Nobel, se ne facesse garante senza un più autorevole consenso preventivo. Pirandello vinse senza aver fatto anticamera in gare precedenti e sorpassò le candidature di Valéry e Chesterton. Presenziò in marsina, come da consuetudine, alla manifestazione e al banchetto pronunciò un discorso in francese. Ma la marsina gli andava stretta, come a un dimesso personaggio di una sua novella. L’eco del trionfo comportò altri festeggiamenti, soprattutto fuori d’Italia, ai quali egli partecipava senza troppo gloriarsene. Si scrisse nelle cronache del ’35 che lo scrittore accentuava il suo semplice, disadorno stile di vita. Conservò pergamena e fotografie dell’evento, ma la medaglia dell’Accademia la donò alla campagna fascista dell’oro alla patria. Aspirava a essere osservato non in maschera, ma in una sorta di nudità spirituale, quella nudità che la morte avrebbe dovuto rivelare, come aveva lasciato scritto nelle sue volontà testamentarie. Volle che il suo corpo fosse avvolto nudo in un lenzuolo, «niente fiori sul letto e nessun cero acceso». Poi un «carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo», insiste. Infine il corpo bruciato e, «appena arso, sia lasciato disperdere… Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui» (Pirandello 1960, p. 1289). Nella campagna del Caos, sotto un pino anch’esso bruciato che tuttavia la protegge.
Letteratura citata
Giudice 1963: G. Giudice, Luigi Pirandello, Torino 1963.
Hallström, in Nobel Lectures 1969: P. Hallström, Luigi Pirandello. The Nobel Prize in Literature 1934, in Nobel Lectures. Literature 1901-1967, Amsterdam 1969.
Pirandello 1960: L. Pirandello, Mie ultime volontà da rispettare, in Saggi, poesie, scritti varii, a cura di M. Lo Vecchio-Musti, Milano 1960.
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Dichiarazione al banchetto per il conferimento del premio Nobel Municipio di Stoccolma, 10 dicembre 1934 È con immensa soddisfazione che esprimo la mia rispettosa gratitudine alle Vostre Maestà per avere graziosamente onorato questo banchetto con la Loro presenza. Mi sia concesso di aggiungere l’espressione della mia più viva gratitudine per il caloroso benvenuto che mi è stato riservato, e per il ricevimento di questa sera, degno epilogo della solenne cerimonia di oggi, durante la quale ho avuto l’onore incomparabile di ricevere il premio Nobel per la letteratura del 1934 dalle auguste mani di Sua Maestà il Re. Vorrei anche esprimere il mio profondo rispetto e la mia sincera gratitudine all’Illustre Accademia Reale di Svezia per il suo illuminato giudizio, che corona la mia lunga carriera letteraria. Per riuscire nelle mie fatiche letterarie ho dovuto frequentare la scuola della vita. Questa scuola, inutile per certe menti brillanti, è l’unica cosa che può aiutare una mente come la mia: attenta, concentrata, paziente, inizialmente del tutto simile a quella di un bambino. Uno scolaro docile, se non con gli insegnanti, di sicuro con la vita, uno scolaro che non verrebbe mai meno alla sua totale fede e fiducia in ciò che ha imparato. Questa fede nasce dalla semplicità di fondo della mia natura. Sentivo il bisogno di credere all’apparenza della vita senza alcuna riserva o dubbio. L’attenzione costante e la sincerità assoluta con cui ho imparato e meditato questa lezione hanno palesato un’umiltà, un amore e un rispetto della vita indispensabili per assorbire delusioni amare, esperienze dolorose, ferite terribili, e tutti gli errori dell’innocenza che donano profondità e valore alle nostre esistenze. Tale educazione della mente, conquistata a caro prezzo, mi ha permesso di crescere e, nel contempo, di rimanere me stesso. Evolvendosi, il mio talento più vero mi ha reso del tutto incapace di vivere, come si conviene a un vero artista, capace soltanto di pensieri e di sentimenti: pensieri perché sentivo, e sentimenti perché pensavo. Di fatto, nell’illusione di creare me stesso, ho creato solo quello che sentivo e che riuscivo a credere. Provo gratitudine infinita, gioia, orgoglio al pensiero che questa creazione sia stata ritenuta degna del premio prestigioso con il quale mi onorate. Mi piacerebbe credere che questo premio sia stato conferito non tanto alla perizia dello scrittore, che è sempre irrilevante, quanto alla sincerità umana del mio lavoro. |
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