««« Raccolta “Poesie sparse” (1890/1933)
32. Esame
Da Nuova Antologia, 1° settembre 1906.
1
Che so di me? So quel che il tempo vuole
e tanto gli altri vogliono ch’io sappia.
— «Ti tengo! Ed il mio nodo non si scappia
mi grida il tempo: — Tu farai parole.
Sfuggi all’ozio? La noja t’accalappia!»
Oh violente smanie, rabbioso
affanno tra le futili catene,
in cui le forze logoro! Mi viene
spesso dai vecchi il mònito amoroso:
— «Figliuolo, è sempre tempo di far bene!…
Soltanto a chi fa ben la vita piace!» —
Sí; ma ben altri al giovenil mio foco
incentivi ben altri, o vecchi, invoco.
Oltraggio sembra l’umiltà, la pace,
a me cui tutto appar misero e poco.
2
Pure, il bene, io lo fo. Nel farlo, sento
che fo bene. Da un tenero tremore
n’ho prova, entro di me. Sollevo un mento,
chiudo una man con l’obolo, ed al cuore
altrui, do, quanto posso, esaudimento.
Del mal che temo d’aver fatto, spesso
mi dolgo e pento. Non di men talvolta
scusarmi tenta o l’amor proprio stesso
o la ragion del caso. Il cuore ascolta
la scusa e poi dimentica, rimesso.
Questo è di tutti. Ma chi in petto viva
e costante del ben tiene e del male
la norma? Chi non cangia estimativa
come volgano i casi? E il ben che vale,
se il cuore a concepir Dio non arriva?
3
Io fui tratto con urti violenti
alle terga, cosí, fuor d’ogni via,
bendato. E tanti insiem con me. Lamenti,
bestemmie udii nel bujo mio, la mia
anima intese altre anime dolenti.
Solo! E gli altri ove sono? Io dove sono?
E che mi giova che mi sia caduta
la benda a un tratto qui? Non luce o suono
qui, ma piú bujo entro la notte muta.
Contro chi l’ira o a chi chieder perdono?
M’apparirai tu qui, tremendo Iddio?
qui la paura mi farà cadere
su i ginocchi, prostrato? e il senno mio
vacillerà? qui tutte le chimere
mi tenteranno dal rimosso oblio?
4
Navi ho veduto per lontani mari
sul tramonto salpar lente dal porto.
Ho salutato anch’ io remoti fari,
passando, e so che sian pena e sconforto
nel lasciare la patria e i propri carî
Ho udito il vento piangermi tre anni
dall’arsa gola di stranier camino,
la solitudin mia pianger, gli affanni
senza conforti e il vario mio destino,
fabbricator di dolorosi inganni.
Ho raggiunto desíi lunghi, e le lotte
mi piacquero per loro, o mi fur dure.
Molte speranze dalla sorte rotte
m’ebbi anzi tempo o spente dalle cure,
ladre del sonno, furie della notte.
Ho provato l’amor docile e puro,
le fantastiche febbri del desio
insodisfatto, l’odio d’un sicuro
tradimento, le smanie e poi l’oblio;
stanco ora e mesto, ora ostinato e duro.
Seppi come spontaneo ai mesti nasce
bisogno di mentir nel petto oppresso.
Mi fu dolce sentir salde le fasce
su la ferita e star molle e dimesso
dopo un malor, senza desíi né ambasce.
E lente le speranze, e ognor seguace
a ogni goduto ben lo sdegno; pure
la sete sempre d’altri beni, e pace
mai; fatto un passo, altri bisogni, e cure
vane per un’idea sempre fallace.
Una greve paura indefinita
ora m’ha vinto ed una smaniosa noja.
Ove andar? qual sogno a sé m’invita?
Già molto errai, già so forse ogni cosa.
Or dunque, e dopo? È tutta qui la vita?
Ov’è la vita? Questa ch’io provai
tant’anni mossa da varia fortuna?
E cosí triste m’ha lasciato? e ormai
se gli occhi avran qualche stupor, nessuna
meraviglia avrà l’anima piú mai?
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