26. Pianto del Tevere

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Pianto del Tevere

26. Pianto del Tevere

Pubblicata nella Riviera Ligure, 1901, n. 32. Si riproduce qui il testo trovato tra le carte dell’Autore (copia dattilografata con correzioni autografe; senza data).

Non lo vedrete piú com’io lo vidi
per Roma, un giorno, il Tevere passare
tra i naturali suoi scoscesi lidi:
quasi fin qua,
a preservarlo anche dall’ombre tetre
delle case papali su le pietre
delle rovine, e fargli scorta al mare,
la campagna già corsa, la natura
libera, s’allungasse entro le mura
della Città.

Una prigion di grige dighe e grevi
ponti or l’incassa,
che le svolte inarena quando piú
l’acqua s’abbassa.
E secco è il braccio con cui prima quella
che dei Due Ponti l’isoletta fu,
cingeva come fosse la sua bella.

Torvo ogni flutto, urtando nei piloni,
torcesi ed apre un gorgo minaccioso,
come un can che digrigni. Dai covoni
tolti al Campo di Marte egli se l’era
cresciuta a poco a poco, industrioso,
quell’isoletta,
a lei recando con allegra fretta
la cuora nera,
ciottoli, malta, quanto gli avveniva
di rubare dai campi dell’Etruria
nativa in giú, passando via di furia.

Triste ora il tempo delle piogge aspetta,
per riaverla, e il mese che dimoja.
Quel braccio allora che un renajo è fatto
e ancora ondeggia qual se l’acqua viva
si fusse in rena raddensata a un tratto,
ecco s’avviva,
e il fiume gonfio, con terribil gioja,
l’isola che gli han tolta si riprende.
Mugliando e pieno di rapina scende:
par che ogni onda s’inciti a superare,
sú sú, gli orli degli argini oppressori;
scappa per sotterranee vie, si mostra
al Pantheon: “Mi vedi, avanzo sacro
di Roma nostra?
sono ancor qua:
Roma ha bisogno d’un mio gran lavacro!”

E il fiume anela di diventar mare
su la Città.


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