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Elegie rivedute – 1934
in corsivo le varianti
Senza gloria di raggi, pe ‘l limpido aere il sole
dietro i nevosi colli, disco rovente, cala.
Razzan da lungi i vetri dell’ultime case com’occhi
torvi di bragia, contro la veniente sera.
Ecco, e le nevi, in fondo, per l’ampia chiostra diffuse,
velansi di un’ombra tremula violacea.
Triste io seguo sul terso sfuggevole piano di ghiaccio
gli sparsi a stormi pattinatori in festa.
Passanmi innanzi lievi com’ombre che il sogno rimeni;
pajon da lungi rondini in tripudio.
Volan le coppie amanti, le braccia dinanzi intrecciate,
e l’aere di risi brevi e di trilli freme
Taglia la fredda brezza sui labbri il respiro e gli accenti,
ruba le promesse facili agli amor nuovi.
Oh nell’ebrezza pura del volo, tessuti con strisci
súbiti, sul gelo, semplici idilli! Vago
ingenuo amor volante con palpito spesso dell’ali
su la neve cosí, contro il morente sole!
Pubblicata nella Nuova Antologia, 1° dicembre 1934, col titolo redazionale: Pattinatori a sera. È la V della raccolta del 1895.
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Levasi da un ospizio il rombo d’un organo e un coro
d’orfani ciechi il nuovo giorno benedicenti.
Passa un rozzon normanno pe ‘l triste viale, e il ferrato
carro sui grigi fradici sassi stride.
Nuotano nelle zane dei cavi risciacqui le foglie
ultime della siepe su la verd’acqua morta.
Solo di centenarie querci gli scheletri immani,
squallida aurora, guardano il lume tuo.
Ma taciturne e gravi, che san come nunzia tu sia
d’un sol che muto certo sarà nel giorno.
Pubblicata nella Nuova Antologia, 1° dicembre 1934, col titolo redazionale: Aurora del Nord. È la VI della raccolta del 1895.
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Cari, voi sempre il sole dell’essere nati consola;
mute costà vi sono le fantasie del fuoco,
muta la calda voce che presso al camino or m’invita
del cigolante ceppo nella funerea sera.
Ché se tremenda scosse la furia d’un turbine i vostri
tetti, fugace, e i vetri, grandine saettando,
presto il sereno tornò, rifulsero in cielo le stelle,
riecheggiâr di vita le cittadine vie,
e la placida Luna, spiando dai madidi vetri,
mite baciò dei bimbi lo sbigottito volto.
Turbina qua sui tetti continua la squallida neve
né quest’aer gravato lieto è di sole mai.
Dentro però la fiamma con suo tremulo cenno
raduna intorno gli intimi a conversare.
E la spumante birra aspetta che i canti del basso
Reno dai mesti cuori sorgano intanto a coro,
mentre dall’arsa gola del nero camino risponde
lunga la pena ignota del tenebroso vento.
Pubblicata nella Nuova Antologia, 1° dicembre 1934, col titolo redazionale: Intorno al fuoco. È la X della raccolta del 1895. La leziona originaria conta 19 distici.
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Penso: vivrà, vivranno, costei ch’ora accanto mi viene.
l’argine, il bosco là, uomini e cose, quanto
vedo a me attorno: ancora vivrà, pur quand’io
lungi di qui sarò, dove il destin mi chiami.
Volgomi a guardar l’orma del passo di lei sulla neve.
Cancelleran la tenue orma altri passi presto.
Non dalla mia memoria, però, sí presto potranno
lei cancellar d’affetti altre vicende, mai.
Pur, con la man vietando la riva contraria al guardo,
cerco veder nel fiume il mio lontano mare;
penso alla lontana mia casa, sospiro il momento
di ritornarvi; e intanto abbandonare questo
cuore dovrò che m’ama, che tacito seguemi e forse
all’abbandono pensa prossimo, anch’esso, e dentro
piange, quas’io su questo sentiero coperto di neve,
qua sola, al tonfo cupo dell’acque, mentre
rapida vien la sera, lasciarmela addietro dovessi
e proseguir perduto lungo l’ignota riva.
Pubblicata nella Nuova Antologia, 1° dicembre 1934, col titolo redazionale: Addio all’amata. È la XIV della raccolta del 1895
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Sale dal gonfio Reno la nebbia nell’umida notte,
qual di fantasmi ciechi stuolo che tenti il vuoto.
Le lunghe vie deserte, urgendosi a onde, pervade;
al tedio, quindi, pigra cedendo, posa.
E del sonno increscioso che immobile al suolo la stende
ora le buje case, tacite in fila, opprime,
i fanali veglianti, i bigi alberi nudi,
cui par che un chiuso spasimo nuovo torca.
Come a un mondo già spento, superstite voce
nunzia del tempo ignara, lugubre l’ora scocca.
Di tra l’onde dell’aer sconvolte la Luna, fuggendo,
la morta Terra, impaurita spia.
Quali braccia di naufraghi tendon le cuspidi a lei
dalla città sommersa le solitarie chiese.
Fugge la Luna. Perenne la nebbia, perenne qui regna.
Meglio acquetarsi a lei; l’anima aprirle; poi
l’irrequieta.grigia sua notte distendere piano
sopra ogni affetto e il suo sonno mortal dormire.
Da una copia dattilografata trovata tra le carte dell’Autore distinta col numero I. Revisione inedita della VII della raccolta del 1895.
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Dal soffitto di legno, commessa a tre fili di rame,
l’orrida lampa (verde teschio di rame) pende.
N’ha paura Jenny, le notti d’inverno. La madre
pregia ed ha caro invece l’ereditato arnese.
Ora abbracciate entrambe mi vengono innanzi, ridendo
l’una del teschio il riso, l’altra per gli occhi amore.
Fate, gravi memorie dei miei morti amori, che un nuovo
pallido fior non nasca tra queste nebbie; fate
che in questa casa il pianto non semini io dopo.Tiranno
mai non sarà l’amore d’ogni mio sogno: mai.
Da una copia dattilografata trovata tra le carte dell’Autore distinta col numero IV. Revisione inedita della IV della raccolta del 1895. La versione originaria conta due distici in più.
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Sí, amici: dell’alto Campidoglio alle terga
giace di Roma antica il frantumato cuore.
E la Via Sacra, esausta vena, cercando
i trionfali archi, serpe tra le rovine.
Sí: la nativa grossezza teutonica vostra
d’assottigliarsi in questa facile arguzia ha modo.
Quella che Roma fu (la finsero diva e, sedendo,
frante corone e franti scettri premea col piede)
senza neppur le strane leggende dei tempi piú buj,
ond’ebbe informe maschera di grandezza,
sorge ben altra, sopra le antiche rovine pensosa,
e c’è rimasto il papa e il re ci venne poi;
e noi le vespe siamo d’Efràimo Lessing uscenti
tronfie dalla carogna, putrida ormai, di lei.
Sí, sí; ma qui tra voi, ma dovunque io mi volga,
sento che tutto ancora pieno di Roma è il mondo.
Da una copia dattilografata trovata tra le carte dell’Autore distinta col numero VI. Revisione inedita della XI della raccolta del 1895.
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Oggi crucciosa tra un torbido incendio del cielo
la terra volse l’aride spalle al sole.
Ora precipita orrenda la notte e la volta di torve
nuvole irta con sé par che trascini. O amore,
è lontana la casa, lontano il fiume. Rimani
qua, questa notte. Vedi come lampeggia? Or tuona.
Sul petto mio nascondi la faccia, le mani agli orecchi
premi: hai paura? Qua, con me rimani, amore.
Pensa: tra i lampi e sotto il rombo dei tuoni; la pioggia
e il vento ln faccia; soli per la campagna,
prima dovremmo, nel bujo sperduti, giungere al fiume,
poi traversarlo, e tu sai gonfio com’è sul battello…
Quala tepida stanza sicura. T’aspetta tua madre?
Può mai voler la madre che la figliuola sua
a tempesta sí fiera s’esponga? La tepida stanza
t’accoglierà felice. Sola ti lascio. Solo
per la campagna andrò: dei lampi, dei tuoni io non temo,
passerò il fiume tumido, sul battello:
senza nuove di te non sarà questa notte tua madre
temi per me? qua teco vuoi che rimanga amore?
Da una copia dattilografata, con correzioni autografe, trovata tra le carte dell’Autore distinta col numero romano VIII. Revisione inedita della XIII della raccolta del 1895.
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