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Zafferanetta – Audio lettura 4

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Legge Giuseppe Tizza
«No, non era gelosia. Un altro sentimento era, duro rodente indefinibile, quello che Norina provava e da cui si sentiva svoltare il cuore in petto: rabbia fredda, invidia, dispetto, schifo e pietà insieme, nel vederlo già padre, lì, sotto gli occhi suoi, di quella scimmietta.»

Prima pubblicazione: Corriere della Sera, 27 maggio 1911, poi in Terzetti, Treves, Milano 1912

Zafferanetta audiolibro 4
Bob Graham, Little Girl with Braids.

Zafferanetta

Legge Giuseppe Tizza

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             Sirio Bruzzi corse esultante in camera della madre, agitando la lettera del cugino arrivata or ora, datata da Banana su la foce del Congo.

             – La porterà, mamma! Ah, «mimmomammina» mia, come sono felice! La mia Titti! la mia Titti! «Giongo» risale il fiume, lo «steamer» è in partenza! Povero Giongo mio! caro mio piccolo Gionghicello! deve andare per… non so più dove per qual diavolo di pasticcio burocratico; uno dei soliti! Tra una quarantina di giorni sarà a Mesània; forse c’è già, a quest’ora; corre a Mokàla; prende la mia Titti, e ritorna, ritorna anche lui per sempre! Su, va’, mamma, va’ ad annunziarlo alla zia Nena! chi sa come ne sarà contenta anche lei! Io scappo da Nora. Uscendo dalla zia, vieni da «Nianò» anche tu, a pigliarmi, eh? t’aspetto!

             Si chinò a baciare la mamma e scappò via, con quella lettera in mano.

             La povera signora Bruzzi restò un pezzo stordita, come le soleva avvenire a ogni nuovo assalto di quel benedetto figliuolo. Ma il sorriso lieto, provocato dall’esultanza di lui, a poco a poco le s’illanguidì sulle pallide labbra.

             Pensò che Norina, la fidanzata a cui Sirio era corso a far leggere quella lettera, non poteva certo in cuor suo esultare come lui per la notizia ch’essa recava; ne doveva anzi provare afflizione, e tanto più forte, quanto più viva avrebbe veduto ridere e gridare la gioja di lui. Non era questa gioja a costo d’un suo sacrifizio? Sì, Norina vi s’era rassegnata; ma non per questo Sirio avrebbe dovuto darle ora spettacolo di quella gioja, e quasi pretendere che ne partecipasse. Ah, benedetto figliuolo, proprio non ragionava più!

             Quando mai però, a dir vero, aveva ragionato il suo Sirio?

             Del padre, morto giovine e tragicamente in duello, aveva preso la furia di gettarsi alle più rischiose avventure. Pareva avesse dentro, per anima, una bufera: investiva e scompigliava tutto. Quando non poteva altro, storpiava i nomi, ruzzolava frasi sconclusionate, parole inconcludenti; s’abbaruffava con le sillabe di esse, faceva far loro capitomboli: Nora, Nianò, Rorina, Elinanò.

             Non sapeva più lei stessa, la signora Bruzzi, come avesse fatto a condurlo sano e salvo dall’infanzia alla giovinezza. Lo aveva fatto arrestare una prima volta, quando le era scappato di casa, giovinetto, per correre in Grecia a raggiungere la spedizione garibaldina; poi, una seconda volta, già in partenza per l’Africa, in difesa dei Boeri. Alla fine, per il Congo, aveva dovuto chiudere gli occhi e chinare la testa.

             Sirio era già maggiorenne.

             Finiti insieme col cugino Lelli i sei mesi d’ufficiale di complemento, tutti e due erano andati nel Belgio a fare il corso coloniale e s’erano arruolati nella milizia dello Stato libero del Congo. Dopo sei anni le era ritornato in licenza, irriconoscibile: pieno di piaghe e con la dissenteria; e, sissignori, appena rimesso in piedi, voleva ritornarci. E sarebbe ritornato; i pianti, gli scongiuri, il pensiero di lei che, già vecchia, malata di cuore, ne sarebbe morta certamente, non avrebbero avuto potere di trattenerlo, se, a Nocera, dove lo aveva condotto a villeggiare e per la cura delle acque, non le fosse venuta in ajuto quella buona Norina, Norina Rua, col fascino della sua grazia e della sua musica.

             Appena s’era accorta che quella signorina Rua riusciva a far breccia nel cuore di lui, le s’era messa attorno, quasi a covare la passione nascente.

             Approssimandosi man mano il termine della licenza, Sirio, nel sentirsi già legato dall’amore, aveva cominciato a dare in ismanie, a cadere in cupe malinconie, finché una sera se l’era visto entrare in camera disperato; s’era messo a piangere, a piangere come un bambino; era innamorato, straziato dal rimorso d’aver turbato il cuore di quella cara fanciulla con vane lusinghe; e doveva partire, partire per forza.

             – Ma perché?

             Ah, perché… Aveva laggiù, nel «settore» di Mokàla, di cui era capo, una figliuola di cinque anni, nata da una giovinetta negra, che un giorno gli si era presentata, fuggiasca da un villaggio lontano; era stata con lui circa due anni e poi era sparita, durante una sua escursione nella foresta, abbandonando la bimba.

             Ebbene: egli amava più di se stesso quella sua creaturina, quel fiore selvaggio della sua vita avventurosa; nessun altro amore avrebbe potuto vincere quello.

             E, seguitando a piangere, le aveva parlato di tutte le cure, di tutti gli stenti per allevare quella piccina abbandonata, che per cinque anni aveva riempito la solitudine atroce della sua vita laggiù. Non poteva più distaccarsene: doveva partire, ritornare a lei.

             A un solo patto avrebbe potuto rimanere, che cioè il cugino Lelli, il quale tra qualche mese doveva ritornare in Italia, in licenza anche lui, gli portasse la sua Titti, e che la signorina Rua… Ma come sperare che ella volesse accettarlo più, ora, con quella bambina?

             Aveva accettato, la signorina Rua. Era andata lei, la mamma, a scongiurarla, e Norina aveva accettato, non ostante che la zia, l’unica parente ch’ella avesse, con molte e sagge considerazioni avesse voluto indurla almeno a riflettere bene, prima di dire di sì, alla gravità e alle conseguenze di quel sacrifizio. Senza dubbio, era una prova di bontà e di costanza, quell’affetto per la piccina; l’unica prova, a dir vero, che potesse dare un certo affidamento; perché il giovine, via, onesto sì, ma scapato, impetuoso, disordinato…

             Ah che sgraffi avrebbe voluto allungare la signora Bruzzi sulla faccia di cartapecora di quella vecchia mummia con gli occhiali! Tanto più lunghi e profondi, quanto più in cuor suo riconosceva saggi veramente quei consigli e quelle considerazioni.

             Ma la Norina, per fortuna, era innamorata davvero.

             Certo ormai che la piccina sarebbe presto arrivata col cugino, Sirio volle affrettare le nozze.

             La tempestosa impazienza di far sua Norina, trattenuta a stento finora dal timore di possibili difficoltà che il cugino avrebbe potuto accampare, si scatenò al solito in una furia così veemente, che Norina, pur felice di sentirsi rapita in essa come un turbine, n’ebbe quasi sgomento. Chiuse gli occhi e vi si abbandonò.

             Sirio s’era proposto di dedicarsi ora all’agricoltura.

             Voleva prendere in affitto una tenuta della campagna romana e bonificarla. Là, nel suo settore, a Mokàla, aveva bene imparato il governo colonico dei negri; qua, invece dei negri, avrebbe governato la gente di Sabina.

             Aspettava che cadesse un po’ il primo impeto d’amore, e un’altra cosa aspettava, con una irrequietezza, che sua madre avrebbe voluto vedere almeno un po’ dissimulata.

             – Quando arriva? quando arriva?

             E moveva, convulso, tutte le dieci dita delle mani per aria, o se le faceva scattare come in galoppo su la fronte, sul naso, sul mento, fino a sgraffiarsi; e sbuffava, e correva a strappar dal naso alla zia gli occhiali, o ad abbracciare forte forte la madre, fin quasi a soffocarla, o a stringere le braccia alla mogliettina, gridandole frenetico, man mano che stringeva vieppiù e la sollevava da terra:

             –    Nianò, Nianò, Nianò, naso di madreperla, pettine di tartaruga, pampina di vite!

             –    Lascia… no! ahi! cattivo… guarda, i lividi… – gemeva Norina.

             –    E quest’è niente! Vedrai! – le gridava egli allora. – Tu zapperai, io zapperò. Gente della Sabina, udite il bando! Sirio Bruzzi, «bungiu» congolese, bonificatore della campagna romana! Re d’un placido mondo, d’una landa infinita, a un popolo fecondo voglio donar la vita! Tu canterai sul tuo liuto, in sonni placidi io dormirò.

             E si buttava a dormire sul canapè.

             Ancora Norina non era riuscita a farsi raccontare le sue imprese coloniali, ad avere una descrizione dei luoghi ov’era stato. Sul più bello del racconto, mentre descriveva il gran fiume selvaggio, o la vita dei villaggi tra le palme e le banane, o la corsa delle piroghe su le rapide, o la traversata delle paludi entro la foresta senza fine, o la caccia all’elefante e al leopardo, tranquillamente, nel vederla tutta intenta ad ascoltare cominciava a infilzar pian piano, con viso fermo, senza cangiar tono, le sue frasi sconclusionate:

             – … e allora, là, capisci? su tutto quel pacciame di foglie, tra il groviglio delle liane, che è? che non è? un piccolo, piccolissimo punto a croce, con le cavallette d’un disegno acrobatico, a nappe azzurre e a fiocchi neri, cara mia, dietro l’indice teso del tuo salvatore mokungi…

             Norina si ribellava, s’arrabbiava; ma non c’era verso di richiamarlo più alla narrazione così crudelmente interrotta.

             Era già incinta da un mese Norina, quando finalmente il cugino Lelli – «Giongo», come Sirio lo chiamava col soprannome che i negri gli avevano affibbiato laggiù – arrivò con la piccola congolese.

             Norina aveva già notato che su tutto Sirio scherzava, tutti i nomi storpiava, tranne quello della figliuola, su la quale non scherzava mai: la Titti era sempre la Titti; e ogni qual volta la nominava, gli occhi gli ridevano umidi di commozione. Aveva potuto anche argomentare quanto la amasse dalle notizie che le aveva dato sul linguaggio di lei. La Titti comprendeva l’italiano e lo parlava anche; ma parlava meglio il congolese che, a suo dire, era un linguaggio da bambini. Come dicono i bambini? Dicono «bombo», dicono «bua». Ebbene, così parlavano i congolesi, «molenghe ti bungiu», figli dei bianchi. Volevano acqua? dicevano «n’gu».

             Comprese, vide l’enorme follia della sua condiscendenza, fin dal primo momento, allorché Sirio, corso alla stazione ad accogliere la piccina, le entrò in camera con le braccia e le gambe di quel mostriciattolo avviticchiate al collo e al petto. Non vide dapprima che queste gambe e queste braccia, gracili, color di zafferano, e i capelli ricci, gremiti, piuttosto lunghi, boffici e quasi metallici. Quand’egli alla fine riuscì a sviticchiarla da sé, parlandole in quello strano linguaggio infantile, ed ella potè vederle la faccia, anch’essa color di zafferano, con quel casco di capelli ricci d’ebano quasi soprammessi, la fronte ovale, protuberante, gli occhioni densi, truci, fuggevoli, smarriti, il nasino a pallottola e i labbruzzi divaricati, non tumidi, un po’ lividi, si sentì gelare: istintivamente compose il volto a una espressione di pena e di raccapriccio:

             –    Carina… poverina… – non potè dir altro, restringendo innanzi al seno le braccia con le mani levate e raggricchiate quasi per paura ch’egli gliel’accostasse e gliela facesse baciare.

             –    Eccola qua! eccola qua, la mia Titti! – esclamava egli intanto, con le lagrime agli occhi. – Ti par brutta, è vero? Anche a te, mamma? Ma non è brutta, non è brutta la mia Titti! Poi la vedrete… vi abituerete… Guarda, non è mica brutto questo nasino… questi labbruzzi qua non sono mica brutti con questi dentini… ma sì, ma sì, perché «babà» era «bungiu», Titti mia, se la mamma era nera! Titti mia! Titti mia! Su, su, fa’ sentire la tua vocina, cara! Di chi sono io? Di’, di’, di chi sono? Rispondi.

             La piccina, in mezzo alla camera, sperduta, così stridentemente diversa da tutto ciò che la circondava, come una strana bambola di cera dipinta, rispose in modo macchinale, con una voce che non parve sua:

             – Mio.

             Il padre le si precipitò addosso e se la strinse al petto furiosamente, con la bocca sulla bocca, quasi a succhiarsi, ingordo d’amore dopo tanti mesi d’attesa, quella risposta.

             – No, no, – riprese poi, – di’ come sai dire tu, cara; come dici «mio» tu? rispondi? di chi sono?

             La bimba allora, con voce sua, dolcissima, e con un sorriso indefinibile, tendendo le braccia, rispose:

             – «Ti m’bi…».

             Egli se la rapì di furia e scappò via in un’altra stanza, seguito dal cugino.

             Nora, la madre, la zia restarono un pezzo silenziose, oppresse di stupore. Poi, Nora si nascose il volto tra le mani, rabbrividendo. Ah, il modo con cui quella piccina là, nel suo strano linguaggio, aveva detto «mio», escludeva assolutamente ch’egli potesse esser d’altri, almeno nella stessa misura.

             La madre si alzò, si appressò alla nuora, si chinò a baciarla sui capelli, senza dir nulla, e le fece appoggiare il capo sul suo fianco.

             La zia, con gli occhi fissi dietro gli occhiali, sospirò:

             – Ve l’avevo detto io?

             No, non era gelosia. Un altro sentimento era, duro rodente indefinibile, quello che Norina provava e da cui si sentiva svoltare il cuore in petto: rabbia fredda, invidia, dispetto, schifo e pietà insieme, nel vederlo già padre, lì, sotto gli occhi suoi, di quella scimmietta; e senza un pensiero dell’altro figlio che già cominciava a vivere in grembo a lei: un altro per lui, ma per lei no, per lei il solo, il vero figlio.

             Ecco, questo, questo non poteva soffrire Norina: che il suo, domani, dovesse per lui essere un altro figlio, accanto a quella pupattola ramata; e che fuori di lei, ch’era sua moglie, da mille e mille miglia lontano, da un altro mondo ch’ella non sapeva neanche immaginare, ma che doveva esser pieno d’un grandioso fascino ardente, fosse venuto a lui, vivo, chiuso in quella scorza selvaggia il sentimento della paternità, di cui le dava spettacolo.

             Vergogna le suscitava inoltre quanto c’era di strano e di goffo, in quella paternità di lui.

             Pareva ch’egli non se n’accorgesse; forse non se n’accorgeva davvero, perché attorno alla sua bambina vedeva tutto quel mondo là lontano, vivo ancora in lui, e non poteva perciò notarne la stranezza, che avventava invece a gli occhi degli altri. Ecco, e si portava a spasso, felice, quel suo mostriciattolo esotico.

             Tutta la gente, certo, si voltava per istrada e forse i monelli lo seguivano; al caffè gli amici gli avrebbero domandato:

             – E tua moglie, che ne dice?

             E certo egli doveva mostrar loro, che non gì’importava affatto ciò che ella potesse dirne.

             Era innanzi a tutti, e lì per casa, una violenza grottesca quella bimba; pareva che lei stessa, la poverina, lo avvertisse e ne soffrisse.

             Aveva negli occhioni attoniti, non più truci adesso, ma anzi profondamente mesti e quasi velati di fuliggine, uno smarrimento angoscioso. Teneva le labbra serrate e le manine rattratte, e vibrava tutta a ogni minimo rumore, a ogni sensazione, a cui certo non poteva rispondere dentro di lei un’immagine che gliela chiarisse e la tranquillasse. Doveva essere invasa dallo sgomento quell’animuccia selvaggia.

             Norina stava a mirarla in silenzio, quando Sirio non c’era; e, mirandola, s’accorgeva che veramente «Zafferanetta» (l’avevano battezzata così la zia e la cameriera) non era poi tanto brutta: solo la tinta, quella tinta ramata, incuteva ribrezzo.

             É Zafferanetta, immobile, seduta su la sediolina di bambù, si lasciava mirare, battendo le palpebre quasi con pena su gli occhioni fuligginosi. Ah, che impressione faceva quel battito delle palpebre, quel movimento reale e comune e presente, in queir esseruccio che pareva finto, non vero, diverso e lontano.

             La signora Bruzzi si profferì di persuadere Sirio a portar da lei quella piccina; ma Nora non volle.

             Era sicura che Sirio, allora, avrebbe passato tutta la giornata in casa della madre.

             Egli s’era accorto che la piccina deperiva, deperiva sempre più di giorno in giorno, e non sapeva staccarsi più da lei un momento. Non pensava più alle trattative già avviate per l’affitto della tenuta, e se ne stava quasi tutto il giorno chiuso con lei e col cugino Lelli nello scrittojo, tra gli strani ricordi portati da laggiù, a parlare, a parlare…

             Troncavano il discorso appena ella entrava; e, dal modo con cui egli si voltava a guardarla, Norina intendeva che la sua presenza non solo non gli era gradita, ma anzi lo urtava. Spesso lo sorprendeva seduto per terra, con la figlia addormentata su le ginocchia, e gli occhi rossi di pianto.

             – Che fa? sta male? – domandava, non a lui, ma al cugino Lelli, che alzava gli occhi su lei come a scusarsi.

             –    Sta male! sta male! – le rispondeva lui irosamente e quasi con rancore. Poi, cangiando voce, chinandosi su la bimba e scotendola lievemente, le domandava:

             –    Che ti senti, Titti mia? di’ a «babà», di’ a «babà» che ti senti… La bimba schiudeva appena gli occhi e rispondeva:

             –    «Kubela…».

             ( – Malata – traduceva piano il cugino Lelli a Nora.)

             – «Kubela ti nie?» – s’affrettava Sirio a domandare alla piccina.

             Questa, allora, richiudendo gli occhi e sollevando appena una manina, su cui era caduta una grossa lagrima del padre, sospirava:

             –    «M’bi ingaio pepe…».

             –    Che dice? – domandava Nora.

             –    Dice, – rispondeva il cugino Lelli, – che non lo sa, di che è malata.

             Ma lo sapeva lui, lui, Sirio, di che era malata la sua piccina: del suo stesso male era malata: era malata di Mokàla, della vita di là che le mancava, della foresta, del fiume, della solitudine immensa, del sole dell’Africa, che le mancavano, era malata! Ah, via! via! via!

             –    Senti… a un solo patto… – venne a dirle un giorno tutto stravolto, fremente, quasi impazzito. – Che tu venga laggiù con me… che tu mi segua… se no, ti lascio! Non posso, non posso vedermela morire così… Muore, la mia Titti muore! Per carità, Nora mia, per carità!

             –    Ma tu sei pazzo! Io, laggiù, con te? – gli gridò Nora.

             –    Pazzo, sì, pazzo! Come tu vuoi! Sono stato pazzo; sarò pazzo, e ti chiedo perdono, ma…

             –    Per quella lì? Per quella lì? – inveì Nora, accesa d’ira e di sdegno. – Tu vuoi sacrificare me, la mia creatura, per quella lì?

             –    No, no! – la interruppe egli. – Hai ragione! Ma io, come faccio io? Tu capisci che non posso vedermela morire così? che non posso stare più qua neanche io? Impazzisco, impazzisco! Muojo anch’io con lei! Per carità, lasciami partire… Quando sarò lontano, forse ritornerò; certo ritornerò, perché sarai tu allora la più forte… Ma ora lasciami partire con la mia Titti, che non muoja qui, che non muoja qui… Morrà in viaggio; ne sono sicuro! Ma potrò almeno consolarmi, pensando che ho voluto darle ajuto e che, per lei, sono arrivato fino a lasciar te, qua, in questo stato! Lasciami partire, per carità, Nora: dimmi di sì! dimmi di sì!

             Nora comprese che, per il suo cuore ormai, sarebbe stato inutile dirgli di no, anche se egli fosse rimasto.

             – Parti, – gli disse.

             E Sirio Bruzzi due giorni dopo ripartì per il Congo, con la piccina inferma e col cugino Lelli. Non tornò più.

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