Pallino e Mimì – Audio lettura 3

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Legge Giuseppe Tizza
«Passeggiavano accanto, loro due soli, pe’ vialetti del prato in pendio sotto gli alti platani, bersagliati dalla maligna curiosità di tutti gli altri bagnanti. A lui questa maligna curiosità pareva non dispiacesse punto…»

Prime pubblicazioni: La Riviera Ligure, novembre 1905, poi in La vita nuda, Treves 1910.

Pallino e Mimì audiolibro 3

Pallino e Mimì

Legge Giuseppe Tizza

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             Si chiamò prima Pallino perché, quando nacque, pareva una palla.

             Di tutta la figliata, che fu di sei, si salvò lui solo, grazie alle preghiere insistenti e alla tenera protezione dei ragazzi.

             Babbo Colombo, come non poteva andare più a caccia, ch’era stata la sua passione, non voleva più neanche cani per casa, e tutti, tutti morti li voleva quei cuccioli là. Così pure fosse morta la Vespina loro madre, che gli ricordava le belle cacciate degli altri anni, quand’egli non soffriva ancora dei maledetti reumi, dell’artritide, che – eccolo là – lo avevano torto come un uncino!

             A Chianciano, già il vento ci dava anche nei mesi caldi: certe libecciate che investivano e scotevan le case da schiantarle e portarsele via. Figurarsi d’inverno! E dunque tutti in cucina, stretti accovacciati da mane a sera nel canto del foco, sotto la cappa, senza cacciar fuori la punta del naso, neanche per andare a messa la domenica. Giusto, la Collegiata era lì dirimpetto a due passi. Quasi quasi la messa si poteva vederla dai vetri della finestra di cucina. Nelle altre camere della casa non ci s’andava se non per ficcarsi a letto, la sera di buon’ora. Ma babbo Colombo ci faceva anche dì giorno una capatina di tanto in tanto, curvo, con le gambe fasciate, spasimando a ogni passo, per andar a vedere dal balcone della sala da pranzo tutta la Val di Chiana che si scopriva di là e il suo bel podere di Caggiolo. E Vespina, a farglielo apposta, gravida, così che poteva appena spiccicar le piote da terra, lo seguiva lemme lemme, per accrescergli il rimpianto della campagna lontana, il dispetto di vedersi ridotto in quello stato. Maledetta! E ora gli faceva i figliuoli, per giunta. Ma glieli avrebbe accomodati lui! Oh, senza farli penare, beninteso. Li avrebbe presi per la coda e là, avrebbe loro sbatacchiata la testa in una pietra.

             I ragazzi, la Delmina, Ezio, Iginio, là Norina, nel vedergli far l’atto, gridavano:

             – No, babbo! piccinini!

             Sicché, quando i cuccioli vennero alla luce, ne vollero salvare almeno uno, quello che sembrò loro il più carino, sottraendolo e nascondendolo. Ottenuta la grazia, andarono per veder Pallino, e sissignori, gli mancava la coda! Parve loro un tradimento, e si guardarono tutt’e quattro negli occhi:

             – Madonna! Senza coda! E come si fa?

             Appiccicargliene una finta non si poteva, né fare che il babbo non ne n’accorgesse. Ma ormai la grazia era concessa, e Pallino fu tenuto in casa, per quanto già la tenerezza dei padroncini, a causa di quel ridicolo difetto, fosse venuta a mancare.

             Per giunta anche si fece di giorno in giorno più brutto. Ma non ne sapeva nulla lui, bestiolino! Senza coda era nato, e pareva ne facesse a meno volentieri; pareva anzi non sospettasse minimamente che gli mancava qualche cosa. E voleva ruzzare.

             Ora, farà pena un bimbo nato male, zoppetto o gobbino, a vederlo ridere e scherzare, ignaro della sua disgrazia: ma una brutta bestiola non ne fa, e se ruzza e disturba, non si ha sofferenza di lei; le si dà un calcio, là e addio.

             Pallino, distratto dai suoi giuochi furibondi con un gomitolo o con qualche pantofola da una pedata che lo mandava a ruzzolare da un capo all’altro della cucina, si levava lesto lesto su le due zampette davanti, le orecchie dritte, la testa da un lato, e stava un pezzo a guardare.

             Non guaiva né protestava.

             Pareva che a poco a poco si capacitasse che i cani debbano esser trattati così, che questa fosse una condizione inerente alla sua esistenza canina e che non ci fosse perciò da aversene a male.

             Gli ci vollero però circa tre mesi per capire ben bene che al padrone non piaceva che le pantofole gli fossero rosicchiate. Allora imparò anche a cansar le pedate: appena babbo Colombo alzava il piede, lasciava la preda e andava a cacciarsi sotto il letto. Lì riparato, imparò un’altra cosa: quanto, cioè, gli uomini siano cattivi. Si sentì chiamare amorevolmente, invitare a venir fuori col frullo delle dita:

             – Qua, Pallino! Caro! caro! qua, piccinino!

             S’aspettava carezze, s’aspettava il perdono, ma, appena ghermito per la cuticagna, botte da levare il pelo. Ah sì? E allora, anche lui si buttò alle cattive: rubò, stracciò, insudiciò, arrivò finanche a morsicare. Ma ci guadagnò questo, che fu messo alla porta; e, siccome nessuno intercedette per lui, andò randagio e mendico per il paese.

             Finché non se lo tolse in bottega Fanfulla Mochi, macellajo, a cui era morto in quei giorni il cagnolino.

             Fanfulla Mochi era un bel tipo.

             Amava le bestie, e gli toccava ammazzarle; non poteva soffrire gli uomini e gli toccava servirli e rispettarli. Avrebbe tenuto in cuor suo dalla parte dei poveri; ma, da macellajo, non poteva, perché la carne ai poveri, si sa, riesce indigesta. Doveva servire i signori che non avevano voluto averlo dalla loro. Sicuro! Perché era nato signore, lui. almeno per metà! Lo desumeva dal fatto che. uscito a sedici anni da un nobile ospizio in cui era stato accolto fin dalla nascita, gli eran venuti, non sapeva né donde, né come, né perché, sei mila lire, residuo d’un rimorso liquidato in contanti. Lo avevan messo garzone in una macelleria; e da che c’era, con quella sommetta, aveva seguitato a fare il macellajo per conto suo. Ma il sanguaccio del gran signore se lo sentiva nelle vene torpide, nelle piote gottose, e un cotal fluido pazzesco gli circolava per il corpo, che ora gli dava una noja cupa e amara, ora lo spingeva a certi atti… Per esempio: tre anni fa, radendosi la barba e vedendosi nello specchio più brutto del solito, già invecchiato, infermiccio, s’era lasciata andare una bella rasojata alla gola, tirata coscienziosamente a regola d’arte. Condotto mezzo morto all’ospedaletto, aveva rassicurato la gente che gli correva dietro spaventata:

             – Non è niente, non è niente: un’incicciatina!

             Per prima cosa, Fanfulla Mochi ribattezzò Pallino: gli impose il nome di Bistecchino; poi lo portò alla finestra e gli disse:

             – Vedi là, Bistecchino, il mio bel Monte Amiata! Grosse le scarpe, ma tu sapessi che cervelli fini ci si fa! Bastardi, ma fini. Se tu vuoi stare con me, dev’essere a patto che tu diventi un canino saggio e per bene. T’addottoro io, non temere: acculati qua! Se fossi porco, Bistecchino, mangeresti tu? Io no. Il porco crede di mangiare per sé e ingrassa per gli altri. Non è punto bella la sorte del porco. Ah – io direi – m’allevate per questo? Ringrazio, signori. Mangiatemi magro.

             Pallino a questo punto starnutì due o tre volte, come in segno d’approvazione. Fanfulla ne fu molto contento, e seguitò a conversare a lungo con lui, ogni giorno; e quello ad ascoltare serio serio, finché, prima una zampa ad annaspare, poi levava la testa e spalancava la bocca a uno sbadiglio seguito da un variato mugolio, per far intendere al padrone che bastava.

             Fosse per la triste esperienza fatta in casa di babbo Colombo, per via della coda che gli mancava, fosse per gli ammaestramenti di Fanfulla, fatto sta ed è che Pallino divenne un cane di carattere, un cane che si faceva notare, non solamente perché scodato, ma anche per il suo particolar modo di condursi tra le bestie sue pari e le superiori.

             Era un cane serio, che non dava confidenza a nessuno.

             Se qualche suo simile gli veniva dietro o incontro, esso lo puntava raccolto in sé, fermo su le quattro zampe, come per dirgli:

             «Chi ti cerca? Lasciami andare!».

             E questo faceva, non certo per paura, sì per profondo disprezzo dei cani del suo paese, tanto maschi che femmine.

             Pareva almeno così, perché d’estate quando a Chianciano venivano per la cura dell’acqua i villeggianti in gran numero coi loro cagnolini, e le loro cagnoline, Pallino cangiava di punto in bianco, diventava socievole, chiassone, proprio un altro; tutto il giorno in giro da questa a quella Pensione, a lasciare a suo modo, alzando un’anca, biglietti da visita, il benvenuto ai cani forestieri, agli ospiti, che poi accompagnava da per tutto e, al bisogno, difendeva con feroce zelo dalle aggressioni dei paesani.

             Scodinzolare non poteva per salutarli, e si dimenava tutto, si storcignava, si buttava finanche a terra per invitarli a ruzzare. E i cagnolini forestieri gliene sapevano grado. In città, uscivano incatenati e con la museruola; qua invece, liberi e sciolti, perché i padroni eran sicuri di non perderli e di non incorrere in multe. Quei cagnolini, insomma, facevano la villeggiatura anche loro, e Pallino era il loro spasso. Se qualche giorno tardava, essi, in tre, in quattro, si presentavano innanzi alla bottega di Fanfulla a reclamarlo.

             – Bistecchino, abbi senno! – gli diceva Fanfulla, minacciandolo col dito. – Codesti cani signorini non sono per te. Tu cane di strada sei, proletario rinnegato! Non mi piace che tu faccia così da buffone ai cani de’ signori.

             Ma Pallino non gli dava retta, non gli dava retta, non gliene poteva dare, segnatamente quell’anno, perché tra quei cani signorini che venivano a stuzzicarlo in bottega, c’era un amor di canina, piccola quanto un pugno, un batuffoletto bianco arruffato, che non si sapeva dove avesse le zampe, dove le orecchie; letichina di prima forza, che mordeva però per davvero qualche volta. Certi morsichetti, che ardevano e lasciavano il segno per più d’un giorno!

             Ma Pallino se li pigliava tanto volentieri.

             Quella cosina bianca gli guizzava, abbajando, di tra i piedi, per assaltarlo di qua e di là. Fermo per farle piacere, esso la seguiva con gli occhi in quelle mossette aggraziate; poi, quasi temendo che si straccasse e affiochisse dal troppo abbajare (donde la cavava quella voce più grossa di lei?) si sdrajava a terra, a pancia all’aria, e aspettava che essa, dopo essersi fogata per finta, tornasse indietro con la stessa furia e gli saltasse addosso; la abbracciava e si lasciava mordere beatamente il muso e le orecchie.

             Se n’era proprio innamorato insomma; e, così rozzo e senza coda, povero Pallino, ne’ suoi vezzi smorfiosi a quel niente fatto di peli, era d’una ridicolaggine compassionevole.

             La canina si chiamava Mimi e alloggiava con la padrona alla Pensione Ronchi.

             La padrona era una signorina americana, ormai un po’ attempatella, da parecchi anni dimorante in Italia – in cerca d’un marito, dicevano le male lingue.

             Perché non lo trovava?

             Brutta non era: alta di statura, svelta e anche formosa; begli occhi, bei capelli, labbra un po’ tumide, accese, e in tutto il corpo e nel volto un’aria di nobiltà e una certa grazia malinconica. E poi miss Galley vestiva con ricca e linda semplicità e portava enormi cappelli ondeggianti di lunghi e tenui veli, che le stavano a meraviglia.

             Corteggiatori, non gliene mancavano; ne aveva anzi sempre attorno due o tre alla volta, e tutti dapprima, sapendola americana, animati dai più serii propositi; ma poi… eh poi, discorrendo, tastando il terreno… Ecco: povera no, e si vedeva dal modo come viveva; ma ricca miss Galley non era neppure. E allora… allora perché era americana?

             Senza una buona dote, tanto valeva sposare una signorina paesana. E tutti i corteggiatori si ritiravano pulitamente in buon ordine. Miss Galley se ne rodeva e sfogava il rodio segreto in furiose carezze alla sua piccola, cara, fedele Mimi.

             Ma fossero state carezze soltanto! La voleva zitella miss Galley, sempre zitella, zitella come lei la sua piccola, cara, fedele Mimi. Oh avrebbe saputo guardarla lei dalle insidie dei maschiacci! Guaj, guaj se un canino le si accostava. Subito miss Galley se la toglieva in braccio; ed eran busse, se Mimi, che aveva già cinque anni e non sapeva capacitarsi per qual ragione, rimanendo zitella la padrona, dovesse rimaner zitella anche lei, si ribellava; busse se agitava le zampette per springare a terra, busse se allungava il collo o cacciava il musetto sotto il braccio della sua tiranna per vedere se il canino innamorato la seguisse tuttavia.

             Per fortuna, questa crudele sorveglianza si faceva men rigorosa ogni qual volta un nuovo corteggiatore veniva a rinverdir le speranze di miss Galley. Se Mimi avesse potuto ragionare e riflettere, dalla maggiore o minore libertà di cui godeva, avrebbe potuto argomentare di quanta speranza la nuova avventura desse alimento al cuore inesausto della sua padrona, uccellino dal becco sempre aperto.

             Ora, quell’estate, a Chianciano, Mimi era liberissima.

             C’era, difatti, alla Pensione Ronchi, un signore, un bell’uomo d’oltre quarant’anni, molto bruno, precocemente canuto, ma coi baffi ancor neri (forse un po’ troppo), elegantissimo, il quale, venuto a Chianciano pei quindici giorni della cura, vi si tratteneva da oltre un mese e non accennava ancora d’andarsene, per quanto all’arrivo avesse dichiarato d’avere a Roma urgentissimi affari, a cui s’era sottratto a stento e non senza grave rischio. Di che genere fossero questi affari, non diceva: aveva molto viaggiato e mostrava di conoscer bene Londra e Parigi e d’aver molte aderenze nel mondo giornalistico romano. Sul registro della Pensione s’era firmato: Comm. Basilio Gori. Fin dal primo giorno s’era messo a parlare in inglese, a lungo, con miss Galley. Ora l’uno e l’altra ogni mattina uscivano dalla Pensione per tempissimo e si recavano a piedi, per il lungo stradale alberato, alle Terme dell’Acqua Santa.

             Miss Galley non beveva: diceva d’esser venuta a Chianciano solo per cambiamento d’aria.

             Beveva lui.

             Passeggiavano accanto, loro due soli, pe’ vialetti del prato in pendio sotto gli alti platani, bersagliati dalla maligna curiosità di tutti gli altri bagnanti. A lui questa maligna curiosità pareva non dispiacesse punto; e se due o tre si fermavano apposta per godere davvicino e con una certa impertinenza di quello spettacolo d’amor peripatetico, egli volgeva loro uno sguardo freddo, sprezzante, ma con un’aria di vanità soddisfatta; ella, invece, abbassava gli occhi, per levarli poco dopo in volto a lui, a ricevere il compenso di quella tenera, istintiva gratitudine che ogni uomo prova per la donna che, sacrificando un po’ del suo pudore, dimostra di voler piacere a uno solo, sfidando la malignità degli altri.

             Mimi li seguiva, e spesso provocava le risa di quanti stavano a osservar la coppia innamorata, perché di tratto in tratto addentava di dietro la veste della padrona e gliela tirava, gliela scoteva, squassando rabbiosamente la testina, come se volesse richiamarla in sé, arrestarla. Miss Galley, assalita dalla stizza, strappava la veste dai denti della cagnolina e la mandava a ruzzolar lontano su l’erbetta del prato. Ma, poco dopo, Mimi ritornava all’assalto, non già perché le premesse la buona reputazione della padrona, ma perché a girar lì per quei pratelli scoscesi s’annojava maledettamente e voleva ritornare in paese, ove si sapeva aspettata dal suo Pallino.

             Tira e tira, raggiunse finalmente l’intento. Miss Galley la lasciò, con molti avvertimenti, alla Pensione, adducendo in iscusa che temeva si stancasse troppo, la povera bestiolina.

             Difatti miss Galley e il commendator Gori, dopo aver girato per più d’un’ora pei viali dell’Acqua Santa, ritornavano, sempre a piedi, al paese, ma per riprender poco dopo a vagabondare o su per la strada di Montepulciano, o giù per quella che conduce alla stazione, o salivano al poggio dei Cappuccini, e non rientravano alla Pensione se non all’ora di pranzo. E, via facendo, ella con l’ombrellino rosso riparava anche lui dai raggi del sole, e tutti e due andavano mollemente quasi avviluppati in una tenerezza deliziosa, assaporando l’ebrietà squisita delle carezze rattenute, dei contatti fuggevoli delle mani, dei lunghi sguardi appassionati, in cui le anime si allacciano, si stringono fino a spasimar di voluttà.

             Intanto i vetturini, che non li potevano soffrire perché li vedevano andar sempre a piedi, si facevano venir la tosse ogni qual volta li incontravano per la strada, e quella tosse faceva ridere i signori che traballavano nelle vetturette sgangherate.

             A Chianciano ormai non si parlava d’altro; in tutte le Pensioni, al Circolo, al Caffè, in farmacia, al Giuoco del Pallone, all’Arena, miss Galley e il commendator Gori facevano da mane a sera le spese della conversazione. Chi li aveva incontrati qua e chi là, e lui era messo così e lei era messa cosà…Quelli che, finita la cura, partivano, ragguagliavano i nuovi arrivati, e dopo quattro o cinque giorni domandavano ancora, da lontano, nelle cartoline illustrate, notizie della coppia felice.

             Tutt’a un tratto (si era ormai ai primi di settembre) si sparse per Chianciano la notizia che il commendator Gori partiva per Roma all’improvviso, lui solo. I commenti furono infiniti e grandissimo lo stupore.

             Che era accaduto?

             Alcuni dicevano che miss Galley aveva saputo che egli era ammogliato e diviso dalla moglie; altri, che il Gori, essendo d’un balzo in principio salito ai sette cieli, aveva avuto bisogno di tutto quel tempo per calare con garbo a ghermir la preda, la quale, alla stretta, gli s’era scoperta magra e spennata; altri poi volevano sostenere che non c’era rottura; che miss Galley avrebbe raggiunto a Roma il fidanzato, e altri infine, che il Gori sarebbe ritornato a Chianciano fra pochi giorni per ripartire quindi con la sposa per Firenze. Ma quelli della Pensione Ronchi assicuravano che l’avventura era proprio finita, tanto vero che miss Galley non era scesa quel giorno in sala a desinare e che il Gori s’era mostrato a tavola molto turbato.

             Tutti questi discorsi s’intrecciavano nella piazza del Giuoco del Pallone, ove l’intera colonia bagnante e molti del paese eran convenuti per assistere alla partenza del Gori.

             Quando la vettura uscì dalla porta del paese, tutti si fecero alla spalletta della piazza.

             Il Gori, in vettura, leggeva tranquillamente il giornale. Passando sotto la piazza, levò gli occhi, come per godere, lui attore, dello spettacolo di tanti spettatori.

             Ma, all’improvviso, dietro la piccola Arena che sorge in mezzo alla piazza si levò un furibondo abbaio d’una frotta di cani azzuffati, aggrovigliati in una mischia feroce. Tutti si voltarono a guardare, alcuni ritraendosi per paura, altri accorrendo coi bastoni levati.

             In mezzo a quel groviglio c’era Pallino con la sua Mimi, Pallino e Mimi che, tra l’invidia e la gelosia terribile dei loro compagni, erano riusciti finalmente a celebrar le loro nozze.

             Le signore torcevano il viso, gli uomini sghignazzavano, quando, preceduta da una frotta di monellacci, si precipitò nella piazza miss Galley, come una furia, scapigliata dal vento e dalla eorsa, col cappello in mano e gli occhi gonfi e rossi di pianto.

             – Mimi! Mimi! Mimi!

             Alla vista dell’orribile scempio, levò le braccia, allibita, poi si coprì il volto con le mani, volse le spalle e risalì in paese con la stessa furia con la quale era venuta. Rientrata alla Pensione come una bufera, s’avventò contro il Ronchi, contro i camerieri, con le dita artigliate, quasi volesse sbranarli; si contenne a stento, strozzata dalla rabbia, arrangolata, senza potere articolar parola. Già dianzi aveva perduto la voce, strillando, nell’accorgersi (dopo tanti giorni!) che Mimi non era sorvegliata, che Mimi non era in casa e non si sapeva dove fosse. Salì nella sua camera, afferrò, ammassò tutte le sue robe nel baule, nelle valige, ordinò una vettura a due cavalli, che la conducesse subito subito alla stazione di Chiusi, perché non voleva trattenersi più a Chianciano. neanche un’ora, neanche un minuto.

             Sul punto di partire, da quegli stessi monellacci che erano corsi con lei in cerca della cagnolina, ansanti, esultanti per la speranza d’una buona mancia, le fu presentata la povera Mimi, più morta che viva. Ma miss Galley, contraffatta dall’ira, con un violentissimo scatto la respinse, storcendo la faccia.

             Mimi, all’urto furioso, cadde a terra, batté il musetto e, con acuti guaiti, corse ranca ranca a ficcarsi sotto un divano alto appena tre dita dal suolo, mentre la padrona inviperita montava sul legno e gridava al vetturino:

             – Via!

             Il Ronchi, i camerieri, i bagnanti rientrati di corsa alla Pensione, restarono un pezzo a guardarsi tra loro, sbalorditi; poi ebbero pietà della povera cagnolina abbandonata; ma, per quanto la chiamassero e la invitassero coi modi più affettuosi, non ci fu verso di farla uscire da quel nascondiglio. Bisognò che il Ronchi, ajutato da un cameriere, sollevasse e scostasse il divano. Ma allora Mimi s’avventò alla porta come una freccia e prese la fuga. I monelli le corsero dietro, girarono tutto il paese, per ogni verso, arrivarono fin presso la stazione: non la poterono rintracciare. Il Ronchi, che aveva avuto per lei tante noje, scrollò le spalle, esclamando:

             – O vada a farsi benedire!

             Dopo cinque o sei giorni, verso sera, Mimi, sudicia, scarduffata, famelica, irriconoscibile, fu rivista per le vie di Chianciano, sotto la pioggia lenta, che segnava la fine della stagione. Gli ultimi bagnanti partivano: in capo a una settimana, il paesello, annidato su l’alto colle ventoso, avrebbe ripreso il fosco aspetto invernale.

             – To’, la cagnetta della signorina! – disse qualcuno, vedendola passare.

             Ma nessuno si mosse a prenderla, nessuno la chiamò. E Mimi seguitò a vagare, sotto la pioggia. Era già stata alla Pensione Ronchi, ma l’aveva trovata chiusa, perché il proprietario s’era affrettato di andare in campagna per la vendemmia.    .

             Di tratto in tratto s’arrestava a guardare con gli occhietti cisposi tra i peli, come se non sapesse ancora comprendere come mai nessuno avesse pietà di lei così piccola, di lei così carezzata prima e curata: come mai nessuno la prendesse per riportarla alla padrona, che l’aveva perduta, alla padrona, che essa aveva cercato invano per tanto tempo e cercava ancora. Aveva fame, era stanca, tremava di freddo, e non sapeva più dove andare, dove rifugiarsi.

             Nei primi giorni, qualcuno, nel vedersi seguito da lei, si chinò a lisciarla, a commiserarla; ma poi, seccato di trovarsela sempre alle calcagna, la cacciò via sgarbatamente. Era gravida. Pareva quasi impossibile: una coserellina lì, che non pareva nemmeno: gravida! E la scostavano col piede.

             Fanfulla Mochi, dalla soglia della bottega, vedendola trotterellar per via, sperduta, un giorno la chiamò; le diede da mangiare; e siccome la povera bestiola, ormai avvezza a vedersi scacciata da tutti, se ne stava con la schiena arcuata, per paura, come in attesa di qualche calcio, la lisciò, la carezzò, per rassicurarla. La povera Mimi, quantunque affamata, lasciò di mangiare per leccar la mano al benefattore. Allora Fanfulla chiamò Pallino, che dormiva nella cuccia sotto il banco:

             – Cane, figlio di cane, brutto libertino scodato, guarda qua la tua sposa!

             Ma ormai Mimi non era più una cagnetta signorina, era divenuta una cagnetta di strada, una delle tante del paese. E Pallino non la degnò nemmeno d’uno sguardo.

Pallino e Mimì – Audio lettura 1 – Gaetano Marino
Pallino e Mimì – Audio lettura 2 – Valter Zanardi
Pallino e Mimì – Audio lettura 3 – Giuseppe Tizza

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