L’ombra del rimorso – Audio lettura 4

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Legge Giuseppe Tizza
«Erano diventate le padrone della bottega, quelle mosche; avevano incrostato delle loro sudicerie i due veli, l’uno color di rosa e l’altro celeste, tutt’e due scoloriti, che sul banco coprivano le paste già secche, le torte indurite, con la marmellata tutta gromme di muffa.»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 24 gennaio 1914, poi in Il carnevale dei morti, Battistelli Firenze 1917.

L ombra del rimorso audiolibro 4
Bellavita – Teatroghiotto – 2010/2015

L’ombra del rimorso

Legge Giuseppe Tizza

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             – Sono venuto, – si lamentò dalla soglia Bellavita, con quell’esitazione di chi si butta a parlare e poi, incerto, si trattiene, – sono venuto, perché l’ho capito, sa? il cuore a Vossignoria…, il cuore non le regge più… a venire da me… L’ho capito!

             Ricomposto appena dallo scatto d’ira all’annunzio di quella visita, il signor Notajo, dal tavolino innanzi al quale stava seduto nella sua stanza da letto, accennò di sì col grosso capo calvo, ma senza saper bene perché. (Il cuore? che aveva detto?) E invitò con un cenno della mano il visitatore a introdursi, a sedere.

             Bellavita, a quel gesto, sentì quasi sussultare tutta la stanza, tanta fu d’improvviso la gioja che ne ebbe. E siccome, parato di strettissimo lutto, dopo aver parlato, s’era ricomposto rigido su la soglia, le gambe per quella gioja quasi gli mancarono. Si sorresse, premendo le gracili mani su gli omeri del figliuolo Michelino, che gli stava davanti, vestito anch’esso d’un abito ritinto or ora di nero.

             A quella pressione, come per un richiamo, apparve subito più raggiante in Michelino la soddisfazione con cui portava addosso quell’abito nero. Proprio come una divisa, lo portava. Il giorno avanti, ai piccoli amici del vicinato, raccolti innanzi all’uscio di strada su cui il padre aveva inchiodato di traverso una fascia nera di bambagino, egli aveva annunziato:

             – Sono a lutto, io.

             E, storcignandosi dal piacere in cui pareva tutto invischiato, si era passate le mani sopra la giacca.

             Anche papà era a lutto, e come! Perfino la fascia di lana, sempre avvolta attorno al collo gangoloso, da rossa se l’era fatta ritingere nera. Ma lo portava con ben altro contegno, papà, il lutto.

             All’invito d’introdursi, rimessosi dalla gioja, Bellavita spinse avanti Michelino; e piano, prima, in un orecchio:

             – (Va’ a baciar la mano al signor cavaliere!)

             Poi con la composta gravità che quella visita di soli sei giorni dopo gl’imponeva, mosse alcuni passi nella camera in disordine che sapeva ancora dei notturni ronfi grassi del grasso Notajo, e sedette ma in punta in punta a una seggiola, e dritto sulla vita, quasi il cordoglio dovesse per forza tenerlo teso e indurito così.

             Forse, a casa sua, si sarebbe buttato giù, nella disperazione di quel cordoglio. Ma siccome qua la commiserazione che il signor cavaliere poteva accordargli non doveva occupar soverchio posto nello stesso e certo non men disperato cordoglio da cui doveva essere straziato anche lui in quel momento, gli parve anche troppo toccar così col sedere appena appena quella punta di seggiola.

             Michelino, ricevuto dal signor Notajo solo il cenno d’un bacio sui capelli, ritornò a lui e gli si pose tra le gambe.

             Per un momento, dal marmo del comodino accanto al letto disfatto, si rese percettibile nell’uggia cupa e sonnolenta di quella vecchia camera il ticchettio sottile dell’orologio d’oro da tasca lasciato lì su un fazzoletto rosso di seta. Il Notajo s’era chinato con le braccia conserte sul piano del tavolino e vi aveva affondato il capo.

             Rimase Bellavita un pezzo a contemplare con occhi gravi e densi d’angoscia la calvizie paonazza del signor Notajo, emergente là dalle braccia conserte. Se il rispetto non l’avesse trattenuto, si sarebbe accostato in punta di piedi a deporre un bacio di convulsa gratitudine su quella calvizie, tanto il doloroso raccoglimento del signor Notajo gli era di balsamo al cuore. Se ne sentiva proprio beato, quasi gliela desse a pascere lui tutta quella pena commovente in cui lo vedeva sprofondato, come il latte del suo seno una mamma al suo bambino.

             Alla fine si risolvette a parlare.

             – Per il funerale, – disse (e subito la voce gli tremò) – per il funerale ordinai in suo nome una corona di fiori freschi, un po’… un po’ più ricca della mia.

             Il Notajo levò la faccia più che mai aggrondata dal tavolino.

             –    Una corona?

             –    Me lo permisi, sicuro d’interpretare il suo sentimento, signor Cavaliere.

             –    Sta bene. E poi?

             –    E poi le feci collocare tutte e due sul carro funebre, signor Cavaliere. La sua e la mia. Accanto. Tanto, tanto belle, se Vossignoria le avesse vedute! Parlavano.

             –    Chi parlava?

             –    Quelle due corone, signor Cavaliere.

             La faccia paonazza del Notajo, alzata, come recisa e posata lì sul piano del tavolino, diventò livida dalla stizza.

             – Spero, – disse, – che nel nastro non avrai fatto scrivere il mio nome!

             Bellavita, tenendo il fazzoletto listato di nero davanti agli occhi, fece segno di no, col capo.

             –    Poi? – domandò di nuovo il Notajo.

             –    Poi, – riprese tra il pianto Bellavita, – tre messe ho fatto dire alla sant’anima: una per lei, una per me, una per Michelino.

             Michelino si scosse, invanito dalla bella notizia che una messa… oh! anche per lui? e fece per ripassarsi la mano sulla giacca; ma interruppe il gesto vedendo sorgere in piedi il signor Notajo.

             –    Mi dirai quanto hai speso!

             –    Signor Cavaliere…

             – Mi dirai quanto hai speso! – ribatté forte, con esasperazione, il Notajo. Bellavita strinse tra i denti il labbro per impedire uno scoppio di singhiozzi, ma le lagrime gli piovvero dagli occhi.

             – Pe… per carità, – barbugliò. – Mi… mi vuol dare anche questo dolore?

             Il Notajo guatò quelle lagrime, il pietoso aspetto di quell’uomo disfatto in pochi giorni dall’improvvisa sciagura; vide lo sbigottimento allungarsi sul viso sbiancato del ragazzo, e si mise a passeggiare per la stanza, con le mani nelle tasche dei calzoni, senz’aggiungere altro.

             I calzoni di quel vecchio abito di casa, troppo larghi, gli facevano due goffe pieghe sul di dietro, le quali, al movimento delle natiche, andavano su e giù in modo ridicolissimo. Michelino lo notò, e non guardò più altro, finché il Notajo stette a passeggiare.

             Alla fine, Bellavita riuscì a risucchiarsi le ultime lagrime dal naso e riprese:

             –    Sono venuto anche per Michelino.

             –    Per Michelino?

             –    Per domandare a Vossignoria se posso rimandarlo a scuola.

             –    Dio grande e buono! – esclamò allora il Notajo, levando le pugna al soffitto. – E perché lo domandi a me?

             –    Ma per sapere se le sembra giusto, dopo sei giorni soltanto.

             Con ambo le mani ancora alzate il Notajo fece un gesto violento di noncuranza:

             –    Ma fa’ quello che ti pare!

             –    Ah no, – scattò Bellavita, con gravità e anche con risolutezza, a questo punto. – Di Michelino si tratta! E non voglio far nulla, io, senza il consiglio e il consenso di Vossignoria. Il ragazzo soffre a star solo in casa con me. Vede come s’è ridotto in sei giorni, povera creatura? Ma io non so far altro che piangere, piangere, piangere…

             E di nuovo, giù lagrime, a fontana.

             A un tratto, soffocato, arrangolando, balzò in piedi e andò a buttarsi addosso al Notajo, disperatamente.

             – Ah, signor Cavaliere, – gridò, – per carità, signor Cavaliere, abbia considerazione di me! Non m’abbandoni, non m’abbandoni in questo momento, signor Cavaliere! Tutti mi disprezzano per causa sua; tutti ridono di me; di questo mio stesso lutto! Lei solo mi può e mi deve compatire! Lei che sa il sentimento mio! Lei che sa che non ho voluto mai nulla da Lei! Un po’ di considerazione soltanto, per il rispetto che le ho sempre portato; un po’ di considerazione per la mia disgrazia, per la nostra disgrazia, signor Cavaliere!

             E lo guardò, in così dire, da vicino, così affitto affitto e con certi occhi così smarriti e atroci, da pazzo, che al Notajo passò la tentazione di tirargli una spinta per levarselo d’addosso e mandarlo a schizzar lontano.

             Quasi non gli parve vero. Provò schifo nel sentir la magrezza di quelle braccia sotto la stoffa pelosa dell’abito ritinto, nella violenza che facevano per aggrappatisi al collo in quella convulsione di pianto. E con questo schifo nelle dita, si voltò verso la finestra chiusa della stanza, come per cercare uno scampo. Chi sa perché, in quella finestra notò subito la croce che nella vetrata formavano le bacchette di ferro arrugginite. E, nello stesso tempo, una strana relazione avvertì tra l’orribile peso di quell’uomo che gli piangeva sul petto e tutta la solinga tristezza della sua vita di vecchio scapolo grasso, quale ora gli appariva evidente dai vetri sudici di quella finestra sul cielo bigiognolo della mattinata autunnale.

             Per sottrarsi a quell’incubo, si mise a esortare il piangente a farsi animo: gli promise che non l’avrebbe abbandonato; che sarebbe andato a trovarlo a casa; come prima, sì!

             – Ma Teresina… Teresina, signor Cavaliere… Teresina, non la troverà più! Non le reggerà il cuore, a Vossignoria…

             – Se ti dico che verrò! Verrò, verrò… E così alla fine riuscì a mandarlo via.

             Rimasto solo, stette per più di cinque minuti ad aprire e chiudere le mani, tutto vibrante, congestionato, e a muggire, a fischiare, a gridare in tutti i toni:

             – Perdio… perdio… perdio…

             Seduto su uno sgabello di ferro della sua botteguccia di caffè, curvo, con gli occhi fissi sul marmo impolverato d’uno dei tavolinetti, Bellavita aspettò parecchi giorni la promessa visita del notajo Denora.

             Ma né il Notajo venne, né nessuno dei suoi amici, che prima solevano passar là nel caffeuccio le mezze giornate a conversare, a leggere i giornali, a giocare a carte.

             Con Michelino stretto tra le braccia, quando il ragazzo ritornava dalla scuola, Bellavita si sfaceva in lagrime, aspettando. A un certo punto, perché il cuore gonfio non gli scoppiasse in petto, balzava in piedi; affidava la botteguccia al vecchio cameriere che dormiva sempre, e si recava lui di nuovo, con Michelino, a trovare in casa il signor Notajo.

             Solo dopo quattro o cinque di quelle visite, cominciò a comprendere che esse non erano bene accette al Notajo. Non disse nulla. Aggiunse al pianto, sempre vivo per la morte della moglie, altro pianto per questo nuovo dolore, e diradò un poco le visite. Quando andava, mandava dentro lo studio del Notajo Michelino, e lui si sedeva silenzioso e con gli occhi chiusi nell’anticamera, lì accanto alla bussola di panno verde ingiallito con l’occhio opaco nel mezzo. A poco a poco le palpebre gli si gonfiavano di pianto, e le lagrime gli gocciolavano grosse e spesse per le guance scavate. Il naso, pieno anch’esso di lagrime, gli veniva di soffiarselo forte; se lo soffiava piano, per non disturbare; piano piano… E di tutta quella sua delicatezza non rimeritata s’inteneriva angosciosamente; e quell’angosciata tenerezza gli si scioglieva subito in un nuovo e più urgente sgorgo di lagrime.

             – T’ha baciato, di’, t’ha baciato? – domandava subito a Michelino, accorrendo come un assetato, appena lo vedeva uscire dallo studio.

             Michelino alzava le spalle, seccato, non comprendendo il perché di quell’ansiosa, insistente premura del padre di sapere che cosa gli avesse detto e fatto il Notajo.

             –    Non t’ha baciato?

             –    M’ha fatto così, – rispondeva alla fine Michelino, passandosi celermente una mano sui capelli irsuti.

             –    E nient’ altro?

             –    Nient’altro.

             Lo accompagnava a casa; lo raccomandava alla serva; e ritornava alla bottega, dove ritrovava il vecchio cameriere che dormiva ancora, nel solito angolo, con la bocca aperta, mangiato dalle mosche.

             Tutta la bottega, dalle vetrine laccate un tempo di bianco, ora ingiallite e scrostate, sonava del ronzio fitto, continuo, opprimente di quelle mosche.

             Bellavita tornava a sedere, curvo, su lo sgabello di ferro, e stava lì, immobile per ore e ore, con gli occhi fissi, aguzzi, spasimosi, che pareva finissero di divorargli la faccia smunta e smorta, dalla barba non rifatta da parecchi giorni. E allora quelle mosche cominciavano a mangiarsi anche lui: gli si posavano sugli orecchi, sul naso, sul mento; ma egli non le avvertiva nemmeno; o, al più, levava appena appena una mano a cacciarle, quando già erano volate via.

             Erano diventate le padrone della bottega, quelle mosche; avevano incrostato delle loro sudicerie i due veli, l’uno color di rosa e l’altro celeste, tutt’e due scoloriti, che sul banco coprivano le paste già secche, le torte indurite, con la marmellata tutta gromme di muffa.

             Nella scaffalatura in fondo le bottiglie dei liquori eran tutte coperte di polvere. E su uno dei piatti della bilancia, sul banco, era rimasto un peso d’ottone, a ricordare l’ultima vendita di dolci fatta dalla moglie, che fino a poco tempo addietro sedeva là, ridente e sfavillante, a quel banco, col nasino bianco di cipria, lo scialletto rosso di seta a lune gialle sul seno prosperoso, i cerchioni d’oro agli orecchi; e ogni sorriso di risposta a ogni sguardo che le fosse rivolto, le scopriva le pozzette alle guance leggermente imbellettate.

             Lo aveva ancora nelle narici il profumo di quella donna e gli veniva di serrare i pugni, assalito da una disperata voglia di fracassar quelle vetrine, di rovesciar quelle bottiglie, che gli esasperavano insopportabilmente l’angoscia con la loro simmetrica immobilità di cose che potevano seguitare a esser per sé, là come prima, mentre tutto per lui era finito, finito!

             E l’infame calunnia ch’egli tenesse su quella bottega di caffè coi denari del notajo Denora; quand’invece, aveva proibito alla moglie d’accettare perfino quello che si dice un fiore dal signor Notajo! Si pigliava i soldi del caffè, quando il Notajo veniva lì con gli amici, proprio perché, a non pigliarseli, gli sarebbe parso di dar troppo nell’occhio; ma Dio sa quanto ne soffriva! Altro che quel poco di caffè, pur fatto con specialissima cura, gli avrebbe dato il sangue delle vene, per la sviscerata gratitudine che gli serbava, della difesa che nei primi tempi del matrimonio il signor Notajo aveva fatto di lui contro la moglie che lo accusava di poco avvedimento, di poco tatto con gli avventori e d’inesperienza anche e di goffaggine; gratitudine poi della pace che il signor Notajo, con la sua tranquilla e circospetta relazione, gli aveva rimesso in famiglia; gratitudine della rivincita che con l’amicizia di lui aveva potuto prendersi su tutti coloro che lo avevano sempre deriso per le sue arie da «persona civile», che sapeva trattare e stare in confidenza coi meglio signori.

             Come mai, ora ch’era rimasto così stroncato dalla sciagura, nemmeno uno di essi si faceva più vedere al caffè? Che male aveva fatto al signor Notajo, da esser trattato così dai suoi amici? Se mai qualcuno, tra loro due, poteva aver rimorso d’aver fatto male all’altro, quest’uno certamente non poteva esser lui.

             Non se ne dava pace, Bellavita. Ne impazziva, parola d’onore, ne impazziva!

             Ma finalmente, un giorno, ecco presentarsi alla soglia del caffeuccio uno dei più intimi amici del notajo Denora. Appena lo vide, Bellavita balzò in piedi:

             – Pregiatissimo signor avvocato!

             Ma subito, colto da vertigine, fu costretto a recarsi una mano sugli occhi e a sorreggersi con l’altra al tavolinetto.

             –    Oh Dio! Bellavita, che è?

             –    Niente, signor avvocato. La gioja. Come ho veduto entrare Vossignoria… Mi sono alzato troppo di furia. Sono tanto debole, signor avvocato! Ma niente, ora è passato.

             –    Povero Bellavita, – fece quegli, posandogli una mano su la spalla. – Sì, lo vedo, siete molto deperito. No no, state, state seduto.

             –    Ma Vossignoria s’accomodi, per carità!

             –    Ecco, sì, seggo qua.

             –    Comanda un caffè? una bibita?

             –    No, niente. State seduto. Vengo a nome del notajo Denora, caro Bellavita, a farvi una proposta.

             –    A nome…?

             –    Del notajo Denora.

             Bellavita, nel sentir nominare il notajo Denora, così, come a tradimento, appassì e guardò quel signore come se fosse venuto a togliergli anche l’aria da respirare.

             – Ho inteso, – disse. – Ma scusi…

             E non potè seguitare, al pensiero che il signor Notajo avesse sentito il bisogno di rivolgersi a un altro per fare a lui una proposta.

             Interpretando male il doloroso sbalordimento che si dipinse sul volto di Bellavita, colui s’affrettò a esortarlo:

             –    Non v’allarmate, non v’allarmate, caro Bellavita. E per il bene del vostro ragazzo.

             –    Di Michelino?

             –    Di Michelino, sì. Voi sapete che il Notajo gli ha voluto sempre bene, e seguita a volergliene.

             –    Sì? Ah sì? – fece subito Bellavita, protendendosi, con gli occhi d’improvviso ridenti di lagrime. E l’angoscia tormentosa di tutti quei giorni gli fece impeto per trovare uno sfogo in un torrente di domande ansiose attraverso la gioja insperata e inattesa di quella notizia.

             – E perché allora… – cominciò a dire.

             Ma quegli parò le mani, a interromperlo subito.

             – Lasciatemi dire, vi prego. Il Notajo vi propone, caro Bellavita, di mettere il ragazzo in un collegio, a Napoli.

             Bellavita sgranò tanto d’occhi, ripiombando nello sbalordimento doloroso, ma col sospetto ormai che il discorso che quel signore era venuto a fargli, nascondeva sotto ogni parola un tradimento preparato dal Notajo.

             –    A Napoli? – .disse. – Il ragazzo? E perché?

             –    Per dargli una migliore educazione, – rispose subito quegli, come se fosse una cosa chiara per se stessa, evidente. – E si assumerà il Notajo, s’intende, tutte le spese, purché voi consentiate a separarvene.

             Dapprima ancor quasi smarrito, poi a mano a mano raffermandosi sempre più in quel sospetto che lo riempiva di sgomento e d’indignazione a un tempo, Bellavita cominciò a domandare e a dire:

             – E perché? Il ragazzo, qua, studia, signor avvocato; va bene a scuola; io lo tengo d’occhio. Perché il signor Notajo mi propone di mandarlo in un collegio, e così lontano, a Napoli? E io? Ah, non vuol più tenere nessun conto di me, il signor Notajo? Senza il ragazzo, io morrei… Sto morendo io, signor avvocato, sto morendo qua, di crepacuore, abbandonato da tutti, senza sapere perché! Ma che gli ho fatto io, che gli ho fatto, in nome di Dio? Vuol levarmi anche il ragazzo?… No, no, mi lasci dire! Non è vero niente, signor avvocato, che gli sta a cuore l’educazione di Michelino. No. E altro! è altro! E io lo so, signor avvocato, che cos’è! Ma come? Mi parla di spese, lui? osa parlarmi di spese? E quando mai ho ricorso a lui per mantenere il ragazzo come un figlio di signori? Io, coi miei soli mezzi! io! E finché campo, ci penserò sempre io, glielo dica! Non posso mandarlo a Napoli. Ma quand’anche potessi, non vorrei. Perché il signor Notajo mi fa dir questo? Ha forse creduto che gli portavo il ragazzo per averne qualche cosa?

             A questo punto l’amico cercò d’arrestar la foga di tutte queste domande irrompenti, approfittando del sospetto, realmente infondato, contenuto nell’ultima domanda di Bellavita. Ma questi non si lasciò sopraffare.

             –    Non è per questo? – incalzò. – E allora perché? Forse perché non vuol più vedere neanche il ragazzo? Me, da un pezzo, non mi vede più!

             –    Oh, alle corte, – disse allora risolutamente quell’amico, assai seccato. – Ora ci siamo! E questo, caro Bellavita. Parliamoci chiaro.

             Ma chiaro, veramente, quando fu al dunque, stentò più d’un poco a parlare quell’amico, perché non era mica facile far comprendere a Bellavita il dispetto del Notajo per il suo canino attaccamento. Come spiattellargli in faccia che, con la morte della donna, il Notajo aveva creduto d’essersi liberato dell’incubo di lui, che col ridicolo della sua incredibile mansuetudine, col rispetto ossequioso di cui lo faceva segno davanti a tutti gli amici, con le lodi sperticate che profondeva con chiunque ne parlasse, gli aveva avvelenato il piacere di quell’unica avventura tardiva della sua sobria, riservatissima esistenza? Poteva mai tollerare il signor Notajo la minaccia di non levarselo più d’attorno, e che egli seguitasse a rispettarlo, a incensarlo, a servirlo davanti a tutti, a dimostrare in tutti i modi, come aveva sempre fatto, che se tanti trattavano con confidenza il signor notajo Denora, non stessero a farsi illusioni, perché il signor notajo Denora aveva in segreto una ragione di speciale intimità con lui, e non avrebbe potuto accordarla ad altri? Legato a lui, per forza, dall’amore per la stessa donna, poteva il signor Notajo seguitare ora a rimaner legato, attaccato a lui dal dolore comune, dal lutto comune per la perdita di lei? Siamo giusti! Era ridicolo! ridicolo! E Bellavita, perdio, doveva capirlo, che, essendo forzato quel primo legame, ora che la morte finalmente lo aveva sciolto, il signor Notajo non aveva più nulla da spartire con lui, perché il dolore, se lo aveva, il lutto, se voleva portarlo per la morte di quella donna, non c’era nessun bisogno che lo avesse e lo portasse in comune con lui. Troppo aveva fatto ridere. Ora basta. Non voleva più.

             Bellavita, dopo essersi contorto sullo sgabello per arrivare in fondo a quella faticosa spiegazione, alla fine rimase come trasecolato.

             –    Ah sì? – cominciò a dire. – Ah, è per questo? E non la finì più. A ogni ah, gli occhi indolenziti dalla dura fissità di tutti quei giorni di spasimo gli si sbarravano, gli s’accendevano di lampi di follia.

             –    Ah teme il ridicolo il signor Notajo? Lui, lo teme? Perché io lo rispetto, teme il ridicolo? Lui che per dieci anni mi rese lo zimbello di tutto il paese, teme il ridicolo? Ah, quanto mi dispiace! E per questo vuole disfarsi di me e di Michelino? Perché sono andato a trovarlo a casa col ragazzo e voglio rispettarlo ancora? Quanto me ne dispiace, parola d’onore! Ma se è per questo, ah, signor avvocato, gli dica – la prego – che in casa, io, col ragazzo non andrò più a trovarlo; ma che, quanto a rispettarlo, ah, quanto a rispettarlo non posso farne a meno! L’ho sempre rispettato, quando il rispetto poteva costarmi d’avvilimento e di mortificazione, e vuole che proprio ora, ora che n’ho più bisogno, non lo rispetti più? Mi dica lei come potrei fare a non rispettarlo più, signor avvocato! Non ho mai fatto altro, tutta la vita, e vuole che ora, tutt’a un tratto, non lo rispetti più? Per forza, sempre lo rispetterò, glielo dica! Mi scusi. Me lo insegna lui il mezzo di vendicarmi, e vuole che io non me n’approfitti? Davanti a tutti mi metterò a rispettarlo di più, in modo che tutti vedano e sappiano qual è e quant’è, questo mio rispetto per lui! Me lo può impedire? Appena lo vedo, subito me gli attacco dietro. Mi metto di professione a fare la sua ombra! Sissignore. L’ombra del suo rimorso; di tutto il male che m’ha fatto per tutto il bene che gli ho voluto. Glielo vada a dire. Egli il corpo ed io l’ombra. Mi dà un calcio, e me lo piglio; uno schiaffo, e me lo piglio. Gli faccio anzi tanto di cappello, subito, a ogni calcio che m’allunga, a ogni schiaffo che mi dà. Può andare a dirglielo. Egli il corpo ed io l’ombra.

             L’amico cercò in tutti i modi di dissuaderlo, con preghiere, con ragionamenti, con minacce. Bellavita non si rimosse più da quella sua frase:

             – Egli il corpo ed io l’ombra.

             Stava per precipitare nell’abisso della più nera disperazione, ed ecco che aveva trovato, in quelle due parole, un sostegno per fermarsi, per riprendersi. Oh Dio! Poteva anche ridere! Sì. Ecco che già rideva. Aveva tanto pianto; ora poteva ridere. Sì, sì. E avrebbe fatto ridere tutti. Sarebbe stata la sua vendetta. Ogni marito ingannato dalla moglie avrebbe dovuto adottarlo, questo nuovo genere di vendetta: mettersi a rispettare, a venerare, a incensare davanti a tutti, in tutti i modi, l’amante della moglie fino a farlo disperare; riverberargli addosso di continuo il ridicolo della propria mansuetudine, fino a farlo fuggire tra la baja di tutti; e fuggito, ecco, ecco, corrergli ancora dietro, e ancora inchini e riverenze e scappellate, fino a non dargli più un momento di requie. Una volta per uno, pezzo d’ingrato! Non ci aveva mai pensato, lui, che quel suo sincero rispetto era già una vendetta del tradimento, perché avvelenava al signor Notajo il piacere di esso. Motivo di più, ora, per rispettarlo, il signor Notajo che gli aveva aperto gli occhi e che per mezzo di quell’amico gli aveva fatto vedere e toccare con mano quanto ne aveva patito, poverino! Bisognava compensarlo, povero signor Notajo, con altrettanto rispetto, d’ora in poi.

             E Bellavita corse dal suo sarto a ordinargli un nuovo abito da lutto che facesse colpo e saltasse subito agli occhi di tutti per un che di goffo che il sarto ci doveva mettere. Roba da pompa funebre. E camicia nera, solino nero, cravatta nera, bastoncino nero, guanti neri, fazzoletto nero: tutto nero. E poi su, dritto impalato, dietro al signor Notajo, a scortarlo a due passi di distanza, nell’ora che usciva dallo studio per la consueta passeggiata.

             La prima volta che prese a scortarlo così, il Notajo notò che la gente che gli veniva incontro si fermava e scoppiava a ridere. Si voltò, e, come scorse Bellavita parato a quel modo, prima allibì, poi si sentì rimescolare tutto e gli corse a petto e gli muggì sotto sotto, accennando di levar la canna d’India:

             – Lasciami in pace, Bellavita, o t’accoppo, sai!

             Ma Bellavita gli restò davanti zitto e con gli occhi bassi; impassibile, come un’ombra. E la gente tutt’intorno, ferma per via, a guardare e a ridere. Per sottrarsi a quelle risa il Notajo riprese ad andar di fretta, e allora Bellavita, dietro, di fretta anche lui. Il Notajo andò a ricorrere al Commissario di polizia; ma al Commissario di polizia Bellavita, quando fu chiamato, rispose che non disturbava nessuno; che la strada non era del signor Notajo e che egli ci camminava per conto suo, vestito così perché gli era morta la moglie. Il Notajo pensò di starsene parecchi giorni in casa, e Bellavita per tutti quei giorni all’ora solita gli passeggiò sotto le finestre come una sentinella. Il Notajo finalmente uscì; e lui, di nuovo, dietro. Un giorno, alla fine, non potendone più, il Notajo gli diede una solenne fiaccata di bastonate; e lui, come aveva detto, se le pigliò; poi, un altro giorno, una tremenda labbrata con la grossa tabacchiera d’argento; e lui, per più d’una settimana, seguitò ad andargli dietro col labbro che gli pendeva come una lingua di cane. Che restava da fare al notajo Denora? Ammazzarlo? Per levarsene la tentazione, e sentendosi per di più stanco e nauseato, sia della professione, sia della inutile vita che conduceva in città, decise di chiuder lo studio e si ritirò a vivere in campagna.

             Bellavita, trionfante, nella bottega del caffè rammodernata e di nuovo piena di clienti, vantò, finché visse, quel suo nuovo e strepitoso metodo per vendicarsi delle corna. Ma si rammaricava di continuo che, per pochezza d’animo, i tanti cornuti del paese non lo volessero adottare.

L’ombra del rimorso – Audio lettura 1 – Legge Abraham Zapruder
L’ombra del rimorso – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
L’ombra del rimorso – Audio lettura 3 – Legge Lorenzo Pieri
L’ombra del rimorso – Audio lettura 4 – Legge Giuseppe Tizza

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