Di Lucilla Bonavita.
Stefano più volte rivendica la sua autonomia di artista nel tentativo di liberarsi da quella insopportabile forma nella quale il genio creativo del padre lo aveva imprigionato, mettendo contemporaneamente in evidenza l’apporto dato alla produzione letteraria del padre.
Dal figlio al padre:
i contributi di Stefano Pirandello all’opera paterna.
La solitudine dell’uomo, l’impossibilità di comunicare sono tematiche care alla poetica pirandelliana che appaiono fissare la vita di Stefano Pirandello come artista che vide il suo riconoscimento letterario solo anni dopo la morte del padre. La dipendenza, a volte sofferta, di questo simbiotico rapporto che portò Stefano ad assumere ecletticamente ruoli diversi di amministratore, segretario collaboratore, pesò su di lui a tal punto da definirsi «figlio, sempre figlio…», «figlio da sempre, io». [1]
[1] Luigi e Stefano Pirandello, Nel tempo della lontananza, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Salvatore Sciascia Editore, Caltanisetta-Roma, 2008.
Tentare di ricostruire il delicato rapporto tra Luigi Pirandello e il figlio Stefano attraverso gli elementi che appaiono da una lettura analitica e diacronicamente intesa delle numerose interviste rilasciate da Luigi Pirandello, significa inserire l’Autore all’interno del periodo fascista durante il quale si dimostra refrattario alla retorica giovanilistica del regime. Interrogato dal cronista della «Nazione», Antonio Pedata, su uno dei problemi centrali degli anni del consenso, invita a diffidare della super valutazione dei giovani, a giudicarli nei concorsi d’arte e cultura con giusta severità per non creare una generazione di illusi. [2]
[2] Ci si riferisce all’intervista concessa ad Antonio Pedata, apparsa sulla «Nazione» del 17 agosto 1934.
Pirandello stabilirà un rapporto privilegiato con la gioventù che lo porterà ad intraprendere l’avventura del Teatro d’Arte con l’intenzione di farne una «libera palestra per tutti i giovani», [3] accogliendo in tal modo un’idea del primogenito Stefano il quale salderà il suo debito di riconoscenza nella Prefazione del ’25 ad Uno, nessuno e centomila: «Ma tu, Papà, sei un fanciullo. Oggi ci sono in Italia molti giovani, veramente giovani, cioè poco accomodanti, che ti intendono con simpatia. Hai scavalcato la tua generazione e sei con noi, e scavalcherai anche noi che invecchieremo forse un po’ troppo presto per te». [4]
[3] L’affermazione di Luigi Pirandello è riportata in una lettera aperta pubblicata dal «Tevere» il 19 dicembre 1925.
[4] Luigi Pirandello, Tutti i romanzi, a cura di Giovanni Macchia con la collaborazione di Mario Costanzo, «I Meridiani», vol. II, Mondadori, Milano 1973, p. 1059.
La testimonianza di riconoscenza è anche simbolo del rapporto creativo di padre e figlio documentabile proprio a partire dalla metà degli anni Venti con la prefazione ai Sei personaggi scritta a quattro mani. Stefano, però, si sente oppresso «da una specie di giogo letterario che si chiama Pirandello». [5]
[5] Luigi Pirandello, Carteggi inediti con Ojetti, Albertini, Orvieto, Novaro, De Gubernatis, De Filippo, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, «Quaderni dell’Istituto di Studi pirandelliani n. 2», Bulzoni, Roma 1980.
Così, quando intervista il padre per il «Tevere», nasconde la sua identità dietro uno pseudonimo: Stefano Landi. Un padre così invadente, proprio «non ci voleva». [6]
[6] Il riferimento è relativo ad una battuta di Sciascia pronunciata nel ’36 dallo stesso Stefano.
Il fallimento del Teatro d’Arte, l’iniziativa del Teatro Italiano dei Giovani fa accendere nel 1931 una polemica sulle pagine di «Comoedia» a proposito dei giovani drammaturghi e del loro diritto ad essere ascoltati; Pirandello si confronta con il problema generazionale che la vita artistica attraversa e che egli stesso ha vissuto entro le mura domestiche nei rapporti inquieti con il figlio Stefano. Il conflitto di natura autobiografica ci si presenta allora radicato nell’intimità prima ancora che nel sociale. Quello che accade a Vitangelo Moscarda in Uno, nessuno, centomila, romanzo del dramma della personalità umana che si scompone, è riferito al padre da Stefano Pirandello nella sua Prefazione al romanzo scritta per la «Fiera letteraria»: «Quando ti mancò la stima di chi tu ami, e il suo amore, e l’amicizia degli uomini, la comprensione dei suoi atti, quando ti sentisti – e un giorno fosti! – povero, nudo, solo e non sapevi più bene chi eri perché ti sentivi uno spirito senza volto, con mille volti, allora possedesti te stesso come un pazzo, come un eroe, come un santo». [7]
[7] Luigi Pirandello, Tutti i romanzi, vol. II, cit., p. 1060.
L’intenso scambio tra padre e figlio è avvertibile nell’intervista di Walter Vaccari in «La sera» del 21 febbraio del 1922 nella quale il giornalista si lascia sfuggire una sua riflessione sul comportamento affettuoso di Pirandello in occasione della rappresentazione di una commedia di Stefano interpretata dalla compagnia di Niccodemi La casa a due piani e letta dal padre con le lacrime agli occhi. Una conferma del legame profondo e sofferto è data dalla Prefazione ai Sei personaggi in cerca d’autore pubblicata su «Comoedia» nel gennaio del 1925 con il titolo Come e perché ho scritto i «Sei personaggi» nella quale Pirandello esprime il concetto secondo cui l’arte è «forma immarcescibile» che il flusso vitale è incapace di distruggere: «Tutto ciò che vive, per il fatto che vive, ha forma, e perciò stesso deve morire: tranne l’opera d’arte, che appunto vive per sempre, in quanto è forma». [8]
[8] Luigi Pirandello, Maschere nude, a cura di Alessandro d’Amico, «I Meridiani», vol. II, Mondadori, Milano 1993, p. 664.
Analogamente si riscontra nell’intervista rilasciata a Virgilio Martini Pirandello aggredito e comparsa su «Nuovo Giornale» il 12 dicembre 1922 [9] nella quale Pirandello dichiara espressamente di non riuscire più a guardare una statua a causa del tormento che ne avrebbe provato e porta come esempio il Mosè «quella bella Vita, imprigionata in quella bella Forma, per sempre! Mi verrebbe la voglia di dirgli: ma perché ti reggi sempre la barba con quella mano? Reggitela con l’altra qualche volta…».
[9] L’intervista è stata ristampata con il titolo mutato e i necessari adattamenti, alcune aggiunte e modifiche, nel corso degli anni sessanta: prima su «La fiera letteraria» del 7 gennaio 1962 (con il titolo Pirandello a casa sua); poi su «Iride» in gennaio-giugno 1967 (con il titolo Pirandello intimo).
In un esemplare delle «Maschere nude» si legge una nota di commento di Stefano Pirandello in riferimento al concetto espresso da Pirandello sull’immortalità dell’opera d’arte in quanto forma: «Questo […] come concetto è mio, tanto mio che Papà aveva un concetto opposto, espresso in Diana e la Tuda». [10] E al capoverso finale «Il poeta, a loro insaputa, quasi guardando da lontano per tutto il tempo di quel loro tentativo, ha atteso, intanto, a creare con esso e di esso la sua opera», «Papà mai avrebbe detto così orgogliosamente di se stesso “il poeta”: ce lo obbligai io». [11]
[10] Luigi Pirandello, Maschere nude,vol. II, cit., p. 941.
[11] Stefano Pirandello, Tutto il teatro, a cura di Sarah Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla, vol. I, Bompiani, Milano 2009, pp. 138-139.
Stefano Pirandello interviene ancora sulla riflessione ossimorica della condizione umana in cui mentre lo spirito soffre è concesso al corpo di continuare ad assaporare la vita. L’Uomo Grasso di All’uscita parla di un godimento che il suo corpo si era preso, all’insaputa della coscienza troppo appesantita da tristi pensieri per poterne partecipare. [12]
[12] Luigi Pirandello, Maschere nude, a cura di Alessandro d’Amico, introduzione di Giovanni Macchia, «I Meridiani», vol. I, Mondadori, Milano 1986, pp. 138-139.
Di questo dualismo tenta di farsi persuasore un personaggio della novella «Colloqui coi personaggi» [13] e proprio commentando un passo di quest’ultima, Stefano Pirandello annota: «Tanto è vivo il bisogno di comunicare a tutti questa ‘rivelazione’, ‘questo evangelo’, questa buona ‘novella’, che ci torna su tante volte, e ne fa il fulcro, il vero ‘fuoco’ di quella mirabile creazione poetica che è il mistero profano».
[13] Luigi Pirandello, Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo, introduzione di Giovanni Macchia, «I Meridiani», vol. III, Mondadori, Milano 1990, p. 1142.
Stefano Landi più volte rivendica la sua autonomia di artista nel tentativo di liberarsi da quella insopportabile forma nella quale il genio creativo del padre lo aveva imprigionato, mettendo contemporaneamente in evidenza l’apporto dato alla produzione letteraria del padre, come riportano alcune note di Stefano Pirandello in margine alla Prefazione ai Sei personaggi in cerca d’autore da cui si evince che ben due terzi di questa Prefazione si devono al solo Stefano; in corrispondenza del passo sul conflitto tra movimento vitale e forma, Stefano puntualizza: «Qui il concetto è naturalmente un concetto di Papà, ma la forma in cui è espresso è mia, di Stefano». [14]
[14] «Io credo, Papà, che le ore di stanchezza ti siano divenute assai più penose da quando hai concluso il tuo sotterraneo lavoro al dramma dell’Uno, nessuno e centomila. Ora tutto è più caro e definito in te. Ora la tua coscienza morale è implacabile. Perché non hai scritto un libro. Hai esercitato il tuo spirito, come in atti di vita: non per divenire un più bravo letterato, ma per esser meglio te stesso, un migliore uomo. Perciò associavi i tuoi figli alle scoperte del tuo lavoro, che è stato nella vita della nostra casa. Uno, nessuno e centomila! Che pena sia ultimato. Ma non so se anche per te, che vi hai durato quindici anni di fatica. Certo, è stato per quindici anni un rifugio del tuo spirito. […] Forse non avresti scritto qualcuna delle tue commedie, se non ci fosse stato in attesa sul tuo tavolino il manoscritto incompiuto di Uno, nessuno e centomila. […] Ti resta ancora per lavorare ancora quel sentimento stesso che ti ha fatto immaginare i casi di Moscarda. Quel senso d’angoscia della tua vita: Vita senza quasi più sostegni materiali, così estranea ai fatti, alla dominata e quasi distrutta animalità del tuo corpo. Vita dell’Uomo», in Stefano Pirandello, Tutto il teatro, vol. I, cit., pp. 148-149.
La subordinazione spirituale che esercita Luigi Pirandello sul figlio quasi per forza di natura è avvertita anche da Maria Olinda sposata da Stefano nel 1922; i due sposi alloggeranno in casa del padre «come due buoni figlioli» [15] ma la convivenza si rivelerà difficile a tal punto che Olinda riuscirà faticosamente ad inserirsi nell’anomalo ambiente familiare.
[15] In Luigi Pirandello, Lettere a Lietta, trascritte da Maria Luisa Aguirre d’Amico, con la postfazione di Vincenzo Consolo, Mondadori, Milano 1999, p. 29.
In un racconto scritto da Stefano molti anni dopo in cui si descrive il delicato rapporto tra un padre, il figlio e la nuora, si parla di «tre infelici, che si reputavano offesi dall’altro, rendendosi amara la convivenza, macerata di vuotaggine e vergogne», dove è ravvisabile la rappresentazione di quella sofferta esperienza. [16]
[16] Cfr. Andrea Pirandello, Quella tristissima estate del Ventuno, «Ariel», Roma, settembre-dicembre 1986, 230-246.
Stefano soffre, soffre soprattutto perché sa di essere un «figlio di papà» [17] per tutti anche se il Padre non ha ritenuto di doverlo sistemare come ogni ‘figlio di papà’ che si rispetti, così in una lettera inviata al Padre il 4 novembre 1925 gli rivela di aver scritto ad Ojetti per informarlo del suo lavoro e per chiedergli consigli sul modo di collocare i suoi scritti presso un buon editore.
[17] In Luigi Pirandello, Carteggi inediti (con Ojetti, Albertini, Orvieto, Novaro, De Gubernatis, De Filippo), a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Bulzoni, Roma 1980, p. 92.
La collaborazione con il Padre continua nonostante le sotterranee incomprensioni: in una lettera del 5 dicembre 1925 Stefano afferma di aver scritto per Umberto Fracchia [18] l’articolo Prefazione all’opera di mio padre (Uno, nessuno, centomila) che apparirà su «La Fiera Letteraria» il 13 dicembre e nella quale Stefano sostiene che il Padre non ha scritto un libro, ma ha esercitato il suo spirito come in atti di vita, non per diventare un letterato più bravo ma per essere un uomo migliore; perciò associava i suoi figli alle scoperte del suo lavoro.
[18] Umberto Fracchia (1889-1930), critico letterario e teatrale, narratore, drammaturgo, fondatore nel 1925 de «La Fiera Letteraria».
Stefano esprime, inoltre, un certo dispiacere nel vedere ultimato quel lavoro che per quindici anni è stato un rifugio dello spirito paterno, rifugio tormentoso, evitato, temuto ma consapevole che se non ci fosse stato sul suo tavolino il manoscritto incompiuto di Uno, nessuno e centomila, il Padre non avrebbe scritto nessuna delle sue commedie.
È proprio vero che Stefano, ‘figlio di papà’ come lui stesso si riteneva, non era mai stato aiutato dal Padre? Luigi Pirandello era perfettamente consapevole dello stato psicologico in cui versava il figlio, della forma nella quale era imprigionato a tal punto che lo dichiara apertamente in una lettera scritta il 13 maggio 1926 a Ugo Ojetti: «Stefano si sente stranamente oppresso da una specie di giogo letterario che si chiama Pirandello ed è bene che qualcuno gli dica che anche lui è persona viva. Se lo merita, e da nessuno meglio che da te potrà venirgli la buona novella». [19]
[19] In Luigi Pirandello, Carteggi inediti, cit., pp. 98-99.
Il padre desidera pertanto che il figlio si sistemi, che trovi una via sicura per la sua attività ed una remunerazione onesta e così lo propone per la redazione romana del Corriere, confidando nella vecchia amicizia di Ojetti ma la risposta non fu positiva come Luigi si aspettava: i redattori letterari del Corriere sono troppi ed Ojetti pensa addirittura di diminuirne il numero. In una lettera spedita da Torino il 6 maggio 1926 ed indirizzata ai figli Stefano e Fausto, Pirandello riferisce direttamente a Stefano del tentativo fatto per inserirlo nella redazione del Corriere e di quanto fosse rimasto offeso della risposta avuta da Ojetti a tal punto che Luigi non rispose più alle continue sollecitazioni di inviare delle novelle del figlio e l’affetto di Stefano è riconfermato da una lettera inviata da Roma in risposta a quella paterna e datata 10 giugno 1926 nella quale Stefano rivela al padre che, nonostante ora abbia una vera famiglia, farebbe di tutto per dimostrargli che il suo amore per lui è importante ed ossimoricamente è più libero e più schiavo del comune affetto dei figli per il padre. Così tanto affetto venne dimostrato da Stefano al padre anche nella lettera scritta da Roma il 24 febbraio 1932 con la quale lo sollecita a rientrare dal suo soggiorno a Parigi e a ritornare alla narrativa, alla «vittoria più grande», il progettato romanzo Adamo ed Eva, «storia, tra mitico ed umoristica» che Pirandello coltivava da tempo, [20] sul quale Stefano aveva firmato, con lo pseudonimo di Fortunio l’intervista al padre dal titolo Se Pirandello scrivesse il romanzo di Adamo ed Eva, apparsa su «Il Tevere» del 31 luglio 1926 e di cui ricostruì la trama in occasione di una commemorazione radiofonica del Padre, tenuta a Roma il 10 dicembre 1938, dal titolo Le opere che Pirandello non scrisse.
[20] Cfr. Alberto de Angelis, I prossimi romanzi «conclusivi» di Luigi Pirandello, «La Tribuna», Roma 15 marzo 1916.
Il mattino del 10 dicembre del 1936, nella casa di via Antonio Bosio 15, Luigi muore; l’ultima lettera conservata precedente il decesso, scritta da Berlino e datata 30 novembre 1936 contiene un invito rivolto a Stefano di inviare una copia dell’estratto della sua commedia Un padre ci vuole. Inizialmente intitolata Il minimo per vivere, la commedia in tre atti Un padre ci vuole fu messa in scena il 21 gennaio 1936 al «Teatro Alfieri» di Torino dalla Compagnia Tòfano-Maltagliati-Cervi. Il tema, delicato e profondo, è quello della paternità. L’appassionata commedia ha un qualcosa di famigliare, di colto dal vero che riconduce l’astrattezza del tema alla concretezza di un ambiente paesano e colorito; vi è poi una nota pungente, pensosa, spirituale presente e latente in tutta l’opera che non può non ricondurre alla personale esperienza di Stefano. Il 2 marzo 1936, la commedia viene rappresentata al «Teatro Olympia» di Milano e dalla recensione scritta da Renato Simoni sul «Corriere della Sera» emerge la difficoltà con la quale è stata accettata dal pubblico a tal punto che dopo averla applaudita cinque volte al primo atto, tre, con qualche contrasto, al secondo, alla fine l’ha disapprovata.
Stefano Pirandello raccoglie in ultimo il testamento spirituale del Padre, testimonianza ineccepibile dell’intimo legame di natura intellettuale ed affettiva tra padre e figlio che della sua identità di figlio non riuscirà mai a liberarsi, anche se oggi il suo teatro riappare non firmato da Stefano Landi che sembra essere un personaggio da Commedia, ma da Stefano Pirandello.
In punto di morte, Stefano raccoglie dalle labbra del padre morente la traccia dell’ultimo atto ancora da scrivere de I Giganti della Montagna che dovevano costituire l’ultima parte della trilogia del mito e così annota:
Ecco l’azione del terzo atto (IV ‘momento’) dei Giganti della Montagna, come io posso ricostruirla da quanto me ne disse mio Padre, e col senso che avrebbe dovuto avere. Questo è quanto io ne so, e l’ho esposto, purtroppo senza la necessaria efficacia; spero però senza arbitrii. Ma non posso sapere se, all’ultimo, nella fantasia di mio Padre, che fu occupata da questi fantasmi durante tutta la penultima nottata della Sua vita, tanto che alla mattina mi disse che aveva dovuto sostenere la terribile fatica di comporre in mente tutto il terzo atto e che ora, avendo risolto ogni intoppo, sperava di poter riposare un poco, lieto d’altronde che appena guarito in pochissimi giorni avrebbe potuto trascrivere tutto ciò che aveva concepito in quelle ore; non posso sapere, dico, né nessuno potrà mai sapere se in quell’ultimo concepimento la materia non gli si fosse atteggiata altrimenti, né se Egli non avesse già trovato altri movimenti all’azione, o sensi più alti al Mito. Io seppi da Lui, quella mattina, soltanto questo che aveva trovato un olivo saraceno. “C’è” mi disse sorridendo “un olivo saraceno, grande, in mezzo alla scena: con cui ho risolto tutto”. E poiché io non comprendevo bene, soggiunse: “per tirarvi il tendone”. Così capii che Egli si occupava, forse da qualche giorno, a risolvere questo particolare di fatto. Era molto contento d’averlo trovato. [21]
[21] Stefano Pirandello, Tutto il teatro, cit., pp. 247-248.
Ricorda molti anni dopo Valentino Bompiani: «Annunciando che il 13 dicembre Luigi Pirandello è stato cremato, il figlio Stefano ha detto ad Alvaro: “Avessi visto: un pugno di cenere. Come se fossero passati mille anni”. Alvaro gli ha domandato: “E il cuore, la piccola pallottola del cuore che non si consuma alla fiamma, lo hai veduto?”. “No, niente, cenere”. Stefano ha accettato di scrivere una biografia del padre, ma dopo qualche giorno è tornato con le spalle curve e quasi tremava: “Non posso, non posso. Mio Padre è tutto fluido in me; se ne scrivo, mi si pietrifica e lo perdo». [22]
[22] Stefano Pirandello, Tutto il teatro vol. I, cit., pp. 247-248.
I Giganti della Montagna verrà rappresentato, nell’ambito del Maggio musicale fiorentino, il 5 giugno 1937, al Giardino di Boboli, regia di Renato Simoni, aiuto regia di Stefano Pirandello, musica di Mario Castelnuovo-Tedesco, interpreti Andreina Pagnani, Memo Benassi, Cele Abba, Salvo Randone, Annibale Ninchi.
In una lettera datata 17 maggio 1950 e scritta da Santa Marinella a Silvio d’Amico, Stefano Landi esprime la sua intenzione di riprendersi il suo nome, in considerazione della trasparenza di quello d’arte che non fece mai da schermo al temerario ‘figlio di Pirandello’ e questa volta il rispetto al padre gli sembra di doverlo manifestare con la nuova speranza di rendere vivo anche lui il nome della famiglia. Non vuole più ritenersi indegno di portarlo e così prega l’amico di cancellare dalla copia del Falco d’argento il nome che cade e di scriverci ‘Pirandello’.
La vita del Padre scorreva nel Figlio.
Lucilla Bonavita
Marzo 2014
BibliografiaNino Borsellino, Ritratto e immagini di Pirandello, Laterza, Bari 1992. |
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