Di Riccardo Mainetti.
Tornano, in questa novella, pubblicata inizialmente il 6 maggio 1934 sul Corriere della Sera e successivamente, sempre nel 1934, inserita nella raccolta di novelle dal titolo “Berecche e la guerra”, alcuni dei temi più cari a Luigi Pirandello.
«Di sera, un geranio», analisi della novella
Per gentile concessione dell’Autore.
Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza.
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RITROVARSI AD ESSERE COME UN GERANIO DI SERA
Il protagonista della novella pirandelliana intitolata “Di sera, un geranio” non ha nome né più, ormai, sostanza. Il fatto che non abbia nome rende universale il valore di questa novella; ognuno di noi si può ritrovare in questo personaggio che vediamo abbandonato nel letto preda di un sonno che prelude al sonno di morte, se già non lo è.
La sensazione che già di sonno di morte si tratti l’abbiamo dal fatto che il protagonista, nel quale non è, secondo me azzardato, riconoscere l’anima del protagonista, vede il corpo dell’uomo che è, o forse è più corretto dire che era, dall’alto e costui, ci dice Pirandello, ha i sensi già disgiunti e sparpagliati; l’udito di qua, dov’è un rumore e la vista di là.
Il protagonista-anima guarda il corpo steso nel letto con un sentimento di rancore.
Si meraviglia che gli altri lo abbiano sempre riconosciuto grazie a quel corpo che gli pare, ora, ben misera cosa. Quel corpo che a lui è sempre pesato tanto.
“Lui non era quel corpo; c’era anzi così poco; era nella vita lui, nelle cose che pensava, che gli si agitavano dentro, in tutto ciò che vedeva fuori senza vedere se stesso. Case strade cielo. Tutto il mondo.”
Quel corpo gli era sempre pesato, si diceva, come anche quella stanzuccia piccola e angusta. Ora però che di quel corpo si è liberato un’altra paura sta prendendo piede in lui, la paura, cioè, di disgregarsi, di diffondersi, disperdendosi in ogni cosa, come già i suoi sensi hanno cominciato a fare. Per cercare di combattere tale paura egli ora aderisce alle cose, a quelle cose “che per se stesse non hanno senso e che ora dunque non sono più niente per lui”; cose quali l’orologio sul comodino, il quadretto appeso alla parete e il lume, la lampada rosea sospesa in mezzo alla camera.
E dopo la paura ecco sopraggiungere la sorpresa, la sorpresa di sparire; sorpresa che a mano a mano si fa più grande, infinita; l’illusione dei sensi già sparsi che si va svuotando via via delle cose che gli era sempre parso che ci fossero, che esistessero, che fossero reali ma che, invece, reali non erano, come ad esempio, i suoni e i colori.
Quindi, per non dissolversi del tutto, non ancora, si immagina di consistere in una cosa, per piccola che sia, un filo d’erba su di una proda, come, un tempo, si era immaginato, oppure una pietra o, ancora, un fiore.
Ed è a questo punto che il personaggio-anima di questa novella guarda in basso verso il giardino e vede un geranio, un geranio rosso, per la precisione, che, in quel momento, lontano dagli occhi degli uomini, sfoggia la propria livrea più bella, quella dai colori più vivi e accesi; la stessa cosa che, per ragioni insondabili per la mente umana, fanno, a sera, anche altri fiori.
Tornano, in questa novella, pubblicata inizialmente il 6 maggio 1934 sul Corriere della Sera e successivamente, sempre nel 1934, inserita nella raccolta di novelle dal titolo “Berecche e la guerra”, alcuni dei temi più cari a Luigi Pirandello.
Temi quali il modo in cui gli altri ci figurano, chi siamo per gli altri, che maschere ci mettono addosso gli altri e chi, invece, siamo veramente, la nostra vera immagine. Quell’immagine che, come il geranio della novella, noi riveliamo quando non c’è nessuno, quando siamo lontani da occhi che ci guardando e che guardandoci ci vedono quali noi siamo per loro.
Riccardo Mainetti
13 ottobre 2023
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