Stefano Giogli, uno e due – Audio lettura 2

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Legge Valter Zanardi
«Di solito, la gelosia nasce dalla poca stima che uno fa di se medesimo, non in sé, ma nel cuore e nella mente di colei che ama; dal timore di non bastare a riempir di sé quel cuore e quella mente, e che una parte di essi rimanga fuori del nostro dominio amoroso e accolga il germe d’un pensiero estraneo, di un estraneo affetto.»

Prima pubblicazione: Il Marzocco, 18 aprile 1909.

Stefano Giogli, uno e due
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Stefano Giogli, uno e due

Legge Valter Zanardi

Da Youtube

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             Stefano Giogli aveva sposato prestissimo, senza neanche darsi il tempo di conoscer bene colei che doveva diventare sua moglie; non ne avrebbe avuto del resto la possibilità, preso com’era stato tutto da uno di quei folli desiderii, che certe donne suscitano a loro insaputa, a prima giunta; per cui si perde ogni discernimento, ogni lume, e non si ha più requie, finché non si arrivi ad averle tra le braccia, perdutamente.

             L’aveva veduta una sera in casa d’una famiglia amica, di buoni veneziani da molti anni stabiliti a Roma. Non era più stato in quella casa da parecchi mesi: vi si faceva troppa musica, e con quell’aria insoffribile di celebrare un mistero sacro, in cui soltanto gl’iniziati potevano penetrare: sonate e sinfonie tedesche e russe, notturni e fantasie polacche e ungheresi: ira di Dio, per Stefano Giogli, ira di Dio e vero peccato, perché – vegnimo a dir el merito – senza questa mania, quel caro sior Momo Làimi, quella cara siora Nicoleta, con la loro Marina e il loro Zorzeto sarebbero stati la più brava e graziosa gente del mondo.

             Ve lo aveva trascinato quasi per forza quella sera un amico, pittore veronese, arrivato a Roma quel giorno stesso col genero del Làimi, vedovo, il quale era venuto a lasciare in casa dei nonni per qualche mese la figliuola, veronesina, fior di putela, e co pulita!

             S’era fatta musica, sì, anche quella sera; ma non tanta. La vera musica, per tutti, era stata la voce di Lucietta Frenzi.

             I vecchi nonni la ascoltavano, beati; la siora Nicoleta, coi mezzi guanti di lana e le punte delle dita intrecciate, piangeva finanche, dalla gioja, dietro gli occhiali d’oro a staffa, scotendo tutti i riccioli argentei, che le scendevano angiolescamente su la fronte; sì, sì, piangeva e pregava il marito che la lasciasse piangere, perché le pareva proprio di sentir parlare la sua povera figliuola morta: ma la stessa voce, ma lo stesso fuoco, lo stesso impero, ciò! con quelle mossettine a scatti, con quelle risate che svanivan d’un tratto, e quelle scos­sene nervose del capo, che le facevan traballare ogni volta le ciocche d’oro ricciute e i fiocconi di seta nera. Oh bella! oh cara!

             Le erano tutti intorno, vecchi, giovanotti, signore e signorine, a pungerla, ad aizzarla con le domande più disparate; e lei, là, imperterrita, teneva testa a tutti, parlando un po’ in lingua un po’ in dialetto; e su qualunque argomento aveva da dir la sua, con una padronanza che non ammetteva repliche; e biso­gnava sentire, allorché certe risposte sferzanti sollevavano un coro di proteste, con qual recisione affermava:

             – Ma sì, è questo! È così! È proprio così. Questo, questo, questo…

             Non poteva essere diversamente. Nessuno doveva attentarsi di veder uomini e cose in altro modo. Eran così, e basta. Lo diceva lei. Per chi era fatto il mondo? Era fatto per lei. Perché era fatto? Perché lei se lo foggiasse a piacer suo. E basta.

             Stefano Giogli aveva preso a dir sì quella sera stessa, sì per ogni cosa, accet­tando ciecamente, senza il minimo contrasto, quella padronanza assoluta.

             Eppure egli aveva le sue opinioni, che credeva ben ferme, e che all’occor­renza sapeva sostenere e far valere; aveva i suoi gusti; un suo particolar modo di vedere, di pensare, di sentire; né per la sua condizione di giovanotto ricco, indipendente, liberissimo di sé, e per la educazione che aveva saputo darsi, per la varia e non comune coltura di cui s’era adornato lo spirito, poteva dirsi di facile contentatura. Tutt’altro! Era passato sempre, anzi, per un incontentabile. Stanco di far bella figura nei salotti e nei circoli, a un certo punto, forse a un richiamo degli occhi, che in mezzo ai sollazzi più graziosi della buona compagnia gli erano rimasti sempre malinconici (anche il destro, quantunque fieramente deformato da una grossa caramella cerchiata di tartaruga); o forse perché gli era arrivato a gli orecchi che qualche maligno, a causa del suo pal­lore, della sua elegante esilità, de’ suoi capelli fitti, lucidi, d’un nero d’ebano, spartiti in mezzo al capo e lisciati, e di quegli occhi malinconici, lo aveva de­finito una ben curata personificazione del lutto; si era appartato per un pezzo dal mondo; s’era messo a studiare sul serio, o più tosto, aveva ripreso gli studii interrotti. Ma sì! Perché era stato finanche, per due anni, studente di medi­cina. E anzi, poiché le prime nozioni della scienza psicofisiologica gli ave­vano destato allora una certa curiosità, s’era addentrato bene nello studio di questa scienza; e, con l’acquisto di un ordine di concetti ben chiari intorno alle varie funzioni e attività dello spirito, poteva dire d’esser giunto alla fine a conciliarsi del tutto con se stesso, vinta la mala contentezza, anzi l’uggia da cui prima era oppresso e ad acquistare anche una ben fondata e solida stima di sé. Stefano Giogli vedeva da un pezzo chiaramente tutti i giochetti dello spi­rito che, non potendo uscire fuori di sé, pone come realtà esteriori le sue in­terne illusioni; e ci si divertiva un mondo. Quante volte, guardando qualcuno o qualche cosa, non aveva esclamato: – Chi sa poi come è costui, o questa cosa, che ora a me sembra così!

             Ah, maledetta serata in casa del sior Momo Làimi! In capo a tre mesi Lucietta Frenzi era diventata sua moglie.

             Stefano Giogli sapeva bene d’aver smarrito del tutto la coscienza durante quei tre mesi del fidanzamento. Di ciò che aveva detto, di ciò che aveva fatto, non aveva la più lontana memoria. Cieco, abbagliato, come una farfalla at­torno al lume, non ricordava altro di quei tre mesi che gli spasimi della cocentissima attesa suscitati dalle rosse, umide labbra di lei, da quei dentini fulgidi, da quel vitino snello da cui si slanciava con irresistibile fascino la voluttuosa procacità del seno e dei fianchi, da quegli occhi che ora ridevano chiari, or s’illanguidivano cupi, or quasi vaneggiavano, velati di lagrime di gioja, al fuoco che si sprigionava dai suoi. Ah che fuoco! Tutto l’esser suo s’era come fuso a quel fuoco; era diventato come un liquido vetro, a cui il soffio capric­cioso di lei poteva dare quell’atteggiamento, quella piega, quella forma, che meglio le pareva e piaceva.

             E Lucietta Frenzi – padrona del mondo – ne aveva profittato bene. Oh se ne aveva profittato!

             Quando, alla fine, Stefano Giogli potè riacquistare il lume degli occhi, si ri­trovò in un villino che pareva una scatola di cartone messa su per ischerzo: dieci camerettucce arredate e disposte in modo, che soltanto un matto avrebbe potuto raccapezzarcisi. Tutti quelli che vennero a fargli visita, non poterono, per quanto si sforzassero, nascondere una meraviglia che confinava quasi quasi con lo sgomento. Ma Lucietta più imperterrita che mai:

             – Questo? L’ha voluto lui, Stefano. Quest’altro? Piace tanto a Stefano! Qui? Qui lui, Stefano, ha disposto così: suo gusto!

             E Stefano Giogli a guardare con tanto d’occhi! – Io?

             – Ma sì, caro! Non ti ricordi? Hai voluto proprio così! Io anzi avrei preferito… Non dir di no, adesso! So che ti piace: basta! Dobbiamo starci noi, in fin dei conti!

             Eh sì, doveva starci lui, infatti. Ma che proprio proprio, santo Dio, fossero quelli, i suoi gusti; che fosse quello, il suo piacere… Sopra tutto lo impressio­nava la fermezza con cui Lucietta Io asseverava e lo sosteneva.

             Ma della casa, alla fin fine, pur così stramba e sprovvista di tutti i comodi, non gli sarebbe importato tanto, se una costernazione ben più grave non avesse cominciato a poco a poco a inquietarlo profondamente.

             Per tanti segni, man mano più precisi, Stefano Giogli dovette accorgersi che la sua Lucietta, nei tre mesi del fidanzamento, durante il quale il fuoco, ond’egli era divorato, lo aveva ridotto una pasta molle a disposizione di quelle manine irrequiete e instancabili, di tutti gli elementi dello spirito di lui in fu­sione, di tutti i frammenti della coscienza di lui disgregati nel tumulto della frenetica passione, si era foggiato, impastato, composto per suo uso, secondo il suo gusto e la sua volontà, uno Stefano Giogli tutto suo, assolutamente suo, che non era affatto lui, non solo nell’anima, ma perdio neanche quasi nel corpo!

             Possibile che, nel disfacimento di quei tre mesi, egli si fosse anche fisica­mente trasformato?

             Gli occhi suoi dovevano aver preso un lume diverso da quello che egli si co­nosceva; nuove inflessioni la sua voce, e finanche un’altra tinta la sua pelle! E queste trasformazioni si erano così impresse nell’animo di lei, eran divenute tratti così caratteristici della fisionomia ch’ella gli aveva dato, che ora i suoi veri e proprii non eran più veduti da Lucietta, non avevan più potere di can­cellare quelli d’allora.

             Stefano Giogli acquistò in breve la certezza di non somigliare affatto allo Stefano Giogli che sua moglie amava.

             Scemata alquanto, naturalmente, la violenza divoratrice della prima fiamma, la fusione, in cui questa aveva messo e tenuto per tre mesi lo spirito di lui, si era arrestata; egli era tornato a poco a poco a rapprendersi, a ricomporsi nella sua forma consueta. Doveva avvenir per forza l’urto tra lui qual’era veramente e quello che sua moglie s’era finto nel tempo, in cui senza più il dominio della sua volontà, senza più il lume e il richiamo della sua coscienza, gli elementi del suo spirito erano stati in pieno potere di lei.

             Ma lui stesso, Stefano Giogli, doveva riconoscere che quella di Lucietta era in fondo la più spontanea e naturale delle creazioni. Lasciata nella più ampia libertà di disporre a suo capriccio di tutti questi elementi, ella ne aveva cavato fuori un marito come le piaceva, si era creato quello Stefano Giogli che più le conveniva; gli aveva dato a suo talento gusti e pensieri e desiderii e abitudini. C’era poco da dire! Era quello il suo Stefano Giogli. Se l’era fabbricato lei con le sue mani, e guai a toccarglielo !

             – Ma sì, è questo! È così! È proprio così! Questo, questo, questo.

             E non poteva essere diversamente. Non aveva mai ammesso repliche, Lu­cietta. Tanto peggio per lui se non gli somigliava.

             Cominciò allora per Stefano Giogli la più nuova e la più strana delle torture.

             Diventò ferocemente geloso di se stesso.

             Di solito, la gelosia nasce dalla poca stima che uno fa di se medesimo, non in sé, ma nel cuore e nella mente di colei che ama; dal timore di non bastare a riempir di sé quel cuore e quella mente, e che una parte di essi rimanga fuori del nostro dominio amoroso e accolga il germe d’un pensiero estraneo, di un estraneo affetto.

             Ora Stefano Giogli non poteva dire che il pensiero, l’affetto che sua moglie aveva accolti fossero proprio estranei; ma non poteva dire neppure ch’egli riempisse veramente di sé il cuore e la mente della sua Lucietta. L’uno e l’al­tra eran pieni d’uno Stefano Giogli, che non era lui, ch’egli non aveva mai conosciuto e che avrebbe preso a scapaccioni volentieri, uno Stefano Giogli, insipido e strambo, antipatico e presuntuoso, con certi gusti, con certi desiderii inverosimili, immaginati e supposti da sua moglie che glieli attribuiva, chi sa perché; uno Stefano Giogli foggiato sul modello di chi sa quale stupido veronesino, di chi sa quale ideale d’amore che la sua Lucietta ignara, inesperta, portava senza saperlo in fondo al cuore.

             E pensare che questo sciocco era amato da sua moglie, a questo sciocco ella faceva tante carezze, a questo sciocco dava i suoi baci – su le labbra di lui. Quando Lucietta lo guardava, non vedeva lui, ma quell’altro; quando Lucietta gli parlava, non parlava a lui, ma a quell’altro; quando Lucietta lo abbracciava, non abbracciava lui, ma quell’odiosa metafora di lui ch’ella s’era creata.

             Era vera e propria gelosia, più che rabbia o dispetto. Sì, perché egli sentiva ch’era proprio un tradimento quello che sua moglie commetteva, abbracciando un altro in lui. Sentiva mancarsi a se stesso; sentiva che quello spettro di sé, che sua moglie amava, si prendeva il suo corpo per goder lui – lui solo – del­l’amore di lei. Quello solo viveva per sua moglie; non lui qual’era veramente; quello sciocco antipatico che sua moglie gli preferiva. Gli preferiva? No: neanche questo poteva dire; egli era del tutto ignorato; egli non esisteva af­fatto per lei.

             E doveva vivere così tutta la vita, senza esser conosciuto dalla compagna che gli stava accanto! Ma perché non uccideva quell’odiato rivale, che si era posto tra lui e la moglie? Poteva disperdere con un soffio quello spettro, rivelandosi a lei, affermandosi.

             Facile, sì, quel rimedio. Ma non invano Stefano Giogli si era addentrato nello studio della scienza psico-fisiologica! Egli sapeva bene che non era af­fatto uno spettro quello che sua moglie amava, ma una persona di carne e d’ossa, una creatura in tutto viva, viva e vera non soltanto per lei, ma anche per se stessa; tanto vero che anche egli la conosceva e poteva odiarla cordial­mente. Era una personalità nuova tratta da sua moglie dal disgregamento del suo essere; un personaggio che viveva e operava affatto indipendente da lui, con una sua propria intelligenza e una coscienza sua propria. Non aveva egli esclamato tante volte:

             – Chi sa poi com’è costui, o questa cosa, che ora a me sembra così? – Cono­sceva egli forse una realtà fuori di sé? Egli stesso non esisteva per sé, se non come e in quanto a volta a volta si rappresentava. Ebbene, sua moglie si era creata di lui una realtà che non corrispondeva per nulla, né interiormente né esteriormente, a quella che si era creata lui di sé: una realtà vera e propria; non un’ombra, uno spettro!

             E poi, avrebbe amato Lucietta il vero Stefano Giogli, uno Stefano Giogli di­verso dal suo? Se così ella se lo era creato, non era segno che questo soltanto corrispondeva a’ suoi gusti, al suo desiderio? Non si sarebbe ella messa a cer­care in altri il suo ideale, che ora credeva pienamente raggiunto in quello? Chi sa che tradimento le sarebbe parso! Ma come? un altro? chi era? No, no, no. Voleva il suo maritino, lei, quale se lo era foggiato! Doveva esser quello! Sì, proprio, quello stupido là…

             Ma se si fosse provato a persuaderla a poco a poco? Se, armato della sua scienza, le avesse tenuto a un dipresso questo discorsetto:

             «Cara, non bisogna presumere che gli altri, fuori del nostro io, non siano se non come noi li vediamo. Chi così presume, Lucietta mia, ha una coscienza unilaterale; non ha coscienza degli altri; non effettua gli altri in sé con una rappresentazione vivente e per gli altri e per sé. Il mondo, cara, non è limitato all’idea che possiamo farcene: fuori di noi il mondo esiste per sé e con noi; e nella nostra rappresentazione dunque dobbiamo proporci di effettuarlo quanto più ci sarà possibile, facendocene una coscienza in cui esso viva in noi come in se stesso, vedendolo com’esso si vede, sentendolo com’esso si sente».

             Chi sa con che occhi lo avrebbe guardato Lucietta! Tanto più, che non era mica vero che ella avesse una coscienza unilaterale! Tutt’altro! Ella aveva anzi una coscienza chiarissima del suo Stefano. E trasecolò il Giogli quando venne a sapere, che per quello stupido là la sua Lucietta faceva non pochi sacrifizii, e non lievi. Ma sì! Tante cose ella faceva, che non le sarebbe andato di fare; e le faceva per lui, unicamente per lui!

             – E… dimmi un po’, – le chiese egli quel giorno, quasi sbigottito dalla gioja che quella dichiarazione di lei gli cagionava, ilarato d’un subito dalla speranza di togliere al rivale la sua Lucietta. – Dimmi un po’, cara: che cosa non ti andrebbe di fare?

             Ma Lucietta scosse il capo, ritirò le mani ch’egli voleva prenderle amorosa­mente, e gli rispose ridendo:

             – Ah, non te lo dico, no! non te lo voglio dire! Son sicura che ti tèrrei tutto il piacere…

             – Davvero? A me? Ma dimmi, – insistette lui. – Te ne prego, te ne scon­giuro… Dimmi almeno una cosa, una piccola cosa, per esempio; quella che tu credi che mi farebbe meno dispiacere…

             Lucietta lo guardò un pezzo, con quegli occhi acuti e furbi, in cui tutti i desiderii più birichini pareva brulicassero accesi, e gli disse:

             – Per esempio?… Ecco, per esempio, questi miei capelli pettinati così…

             Un urlo, un vero urlo scoppiò dalla gola di Stefano Giogli. Da tanto tempo egli voleva che la sua Lucietta si pettinasse come prima, con quei fiocconi di seta nera, che le aveva veduti in capo la prima volta, quella sera in casa dei Làimi. Dal giorno delle nozze aveva adottato quella nuova pettinatura, che le dava un altro aspetto e che a lui non era mai piaciuta.

             – Ma sì! ma sì! subito! – le gridò. – Subito, Lucietta mia, pettinati come prima!

             Alzò le mani per disfarle lui stesso quell’antipatica acconciatura. Ma Lu­cietta gliele ghermì in aria; lo tenne lontano, schermendosi e gridando a sua volta:

             – No, caro! no, caro! Troppo presto l’hai detto! No, no! Per tua norma, più che a me stessa, io voglio piacere al mio maritino !

             – Ma io ti giuro!… – proruppe Stefano.

             Subito ella gli turò la bocca con una mano. – Va’ là – gli disse. – Vuoi darti a conoscere a me? Io so i tuoi gusti, bello mio, molto meglio dei miei! La­sciami star così, così, come piace al mio Stefano caro, caro, caro…

             E gli carezzò tre volte la guancia. La carezzò a quell’altro, beninteso, non a lui.

Stefano Giogli, uno e due – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Stefano Giogli, uno e due – Audio lettura 2 – Legge Valter Zanardi

Stefano Giogli, uno e due – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza

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