Lontano – Audio lettura 2

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Legge Valter Zanardi
«Incerto come si sentiva ancora, nella nuova esistenza, non riusciva a immaginare nulla di preciso per l’avvenire. Può crescere l’albero nell’aria, se ancora scarse e non ben ferme ha le radici nella terra? Ma questo era certo, che lì ormai e per sempre la sorte lo aveva trapiantato.»

Prima pubblicazione: Nuova Antologia, 1 gennaio e 16 gennaio 1902, poi in in appendice al romanzo Il turno, ed. Treves, Milano 1915.

Lontano. audiolibro 2
Giovanni Fattori (1825 – 1908), Tramonto sul mare, 1890. Immagine dal Web.

Lontano

Legge Valter Zanardi

Da Youtube

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             I. Dopo aver cercato inutilmente dappertutto questo e quel capo di vestiario e avere imprecato: – Porco diavolo! – non si sa quante volte, tra sbuffi e grugniti e ogni sorta di gesti irosi, alla fine Pietro Milio (o Don Paranza come lo chiamavano in paese) sentì il bisogno d’offrirsi uno sfogo andando a gridare alla parete che divideva la sua camera da quella della nipote Venerina:

             – Dormi, sai! fino a mezzogiorno, cara. Ti avverto però che oggi non c’è lo sciocco che piglia pesci per te.

             E veramente quella mattina don Paranza non poteva andare alla pesca, come da tanti anni era solito. Gli toccava invece (porco diavolo!) vestirsi di gala, o impuparsi secondo il suo modo di dire. Già! perché era viceconsole, lui, di Svezia e Norvegia. E Venerina, che dalla sera avanti sapeva del prossimo arrivo del nuovo piroscafo norvegese – ecco qua – non gli aveva preparato né la camicia inamidata, né la cravatta, né i bottoni, né la finanziera: nulla, insomma.

             In due cassetti del canterano, in luogo delle camicie, aveva intravisto una fuga di spaventatissimi scarafaggi.

             – Comodi! Comodi! Scusate del disturbo!

             Nel terzo, una sola camicia, chi sa da quanto tempo inamidata, ingiallita. Don Paranza l’aveva tratta fuori con due dita, cautamente, come se anche quella avesse temuto abitata dai prolifici animaletti dei due piani superiori; poi, osservando il collo, lo sparato e i polsini sfilacciati:

             – Bravi! – aveva aggiunto. – Avete messo barba?

             E s’era dato a stropicciare sulle sfilacciche un mozzicone di candela stearica.

             Era chiaro che tutte le altre camicie (che non dovevano poi esser molte) stavano ad aspettare da mesi dentro la cesta della biancheria da mandare al bucato i vapori mercantili di Svezia e Norvegia.

             Viceconsole della Scandinavia a Porto Empedocle, don Paranza faceva nello stesso tempo anche da interprete su i rari piroscafi che di là venivano a imbarcar zolfo. A ogni vapore, una camicia inamidata: non più di due o tre l’anno. Per amido, poca spesa.

             Certo non avrebbe potuto vivere con gli scarsi proventi di questa saltuaria professione, senza l’ajuto della pesca giornaliera e di una misera pensioncina di danneggiato politico. Perché, sissignori, bestia non era soltanto da jeri – come egli stesso soleva dire: – bestione era sempre stato: aveva combattuto per questa cara patria, e s’era rovinato.

             Cara-patria perciò era anche il nome con cui chiamava qualche volta la sua miserabile finanziera.

             Venuto da Girgenti ad abitare alla Marina, come allora si chiamavano quelle quattro casucce sulla spiaggia, alle cui mura, spirando lo scirocco, venivano a rompersi furibondi i cavalloni, si ricordava di quando Porto Empedocle non aveva che quel piccolo molo, detto ora Molo Vecchio, e quella torre alta, fosca, quadrata, edificata forse per presidio dagli Aragonesi, al loro tempo, e dove si tenevano ai lavori forzati i galeotti: i soli galantuomini del paese, poveretti!

             Allora sì Pietro Mìlio faceva denari a palate! Di interpreti, per tutti i vapori mercantili che approdavano nel porto, non c’era altri che lui e quella pertica sbilenca di Agostino Di Nica, che gli veniva appresso, allora, come un cagnolino affamato per raccattar le briciole ch’egli lasciava cadere. I capitani, di qualunque nazione fossero, dovevano contentarsi di quelle quattro parole di francese che scaraventava loro in faccia, imperterrito, con pretto accento siciliano: –mossiurre, sciosse, ecc.

             – Ma la cara patria! la cara patria!

             Una sola, veramente, era stata la bestialità di don Paranza: quella di aver avuto vent’anni, al Quarantotto. Se ne avesse avuto dieci o cinquanta, non si sarebbe rovinato. Colpa involontaria, dunque. Nel bel meglio degli affari, compromesso nelle congiure politiche, aveva dovuto esulare a Malta. La bestialità d’averne ancora trentadue al Sessanta era stata, si sa! conseguenza naturale della prima. Già a Malta, a La Valletta, in quei dodici anni, s’era fatto un po’ di largo, ajutato dagli altri fuorusciti. Ma il Sessanta! Ci pensava e fremeva ancora. A Milazzo, una palla in petto: e di quel regalo d’un soldato borbonico misericordioso non aveva saputo approfittare: – era rimasto vivo!

             Tornato a Porto Empedocle, aveva trovato il paese cresciuto quasi per prodigio, a spese della vecchia Girgenti che, sdrajata su l’alto colle a circa quattro miglia dal mare, si rassegnava a morir di lenta morte, per la quarta o quinta volta, guardando da una parte le rovine dell’antica Acragante, dall’altra il porto del nascente paese. E al suo posto il Mìlio aveva trovato tant’altri interpreti, uno più dotto dell’altro, in concorrenza fra loro.

             Agostino Di Nica, dopo la partenza di lui per l’esilio, rimasto solo, s’era fatto d’oro e aveva smesso di far l’interprete per darsi al commercio con un vaporetto di sua proprietà, che andava e veniva come una spola tra Porto Empedocle e le due vicine isolette di Lampedusa e di Pantelleria.

             – Agostino, e la patria?

             Il Di Nica, serio serio, picchiava con una mano su i dindi nel taschino del panciotto:

             – Eccola qua!

             Era rimasto però tal quale, bisognava dirlo, senza superbia. Madre natura, nel farlo, non s’era dimenticata del naso. Che naso! Una vela! In capo, quella stessa berrettina di tela, dalla visiera di cuojo; e a tutti coloro che gli domandavano perché, con tanti bei denari, non si concedesse il lusso di portare il cappello:

             – Non per il cappello, signori miei, – rispondeva invariabilmente, – ma per le conseguenze del cappello.

             Beato lui! – «A me, invece,» pensava don Paranza, «con tutta la mia miseria, mi tocca d’indossare la finanziera e d’impiccarmi in un colletto inamidato. Sono viceconsole, io!»

             Sì, e se qualche giorno non gli riusciva di pigliar pesci, correva il rischio d’andare a letto digiuno, lui e la nipote, quella povera orfana lasciatagli dal fratello, anche lui così fortunato che appena sbarcato in America vi era morto di febbre gialla. Ma don Paranza aveva in compenso le medaglie del Quarantotto e del Sessanta!

             Con la canna della lenza in mano e gli occhi fissi al sughero galleggiante, assorto nei ricordi della sua lunga vita, gli avveniva spesso di tentennare amaramente il capo. Guardava le due scogliere del nuovo porto, ora tese al mare come due lunghe braccia per accogliere in mezzo il piccolo Molo Vecchio, al quale, in grazia della banchina, era stato serbato l’onore di tener la sede della Capitaneria e la bianca torre del faro principale; guardava il paese che gli si stendeva davanti agli occhi, da quella torre detta il Rastiglio a pie del Molo fino alla stazione ferroviaria laggiù e gli pareva che, come su lui gli anni e i malanni, così fossero cresciute tutte quelle case là, quasi l’una su l’altra, fino ad arrampicarsi all’orlo dell’altipiano marnoso che incombeva sulla spiaggia col suo piccolo e bianco cimitero lassù, col mare davanti, e dietro la campagna. La marna infocata, colpita dal sole cadente, splendeva bianchissima, mentre il mare, d’un verde cupo, di vetro, presso la riva, s’indorava tutto nella vastità tremula dell’ampio orizzonte chiuso da Punta Bianca a levante, da Capo Rossello a ponente.

             Quell’odore del mare tra le scogliere, l’odore del vento salmastro che certe mattine nel recarsi alla pesca lo investiva così forte da impedirgli il respiro o il passo facendogli garrire addosso la giacca e i calzoni, l’odore speciale che la polvere dello zolfo sparsa dappertutto dava al sudore degli uomini affaccendati, l’odore del catrame, l’odore dei salati, l’afrore che esalava sulla spiaggia dalla fermentazione di tutto quel pacciame d’alghe secche misto alla rena bagnata, tutti gli odori di quel paese cresciuto quasi con lui erano così pregni di ricordi per don Paranza che, non ostante la miseria della sua vita, era per lui un rammarico pensare che gli anni che facevano lui vecchio erano invece la prima infanzia del paese; tanto vero che il paese prendeva sempre più, di giorno in giorno, vita coi giovani, e lui vecchio era lasciato indietro, da parte e non curato. Ogni mattina, all’alba, dalla scalinata di Montoro, il grido tre volte ripetuto d’un banditore dalla voce formidabile chiamava tutti al lavoro sulla spiaggia:

             – Uomini di mare, alla fatica!

             Don Paranza li udiva dal letto, ogni alba, quei tre appelli e si levava anche lui, ma per andarsene alla pesca, brontolando. Mentre si vestiva, sentiva giù stridere i carri carichi di zolfo, carri senza molle, ferrati, traballanti sul brecciale fradicio dello stradone polveroso popolato di magri asinelli bardati, che arrivavano a frotte, anch’essi con due pani di zolfo a contrappeso. Scendendo alla spiaggia, vedeva le spigonare, dalla vela triangolare ammainata a metà su l’albero, in attesa del carico, oltre il braccio di levante, lungo la riva, sulla quale si allineava la maggior parte dei depositi di zolfo. Sotto alle cataste s’impiantavano le stadere, sulle quali lo zolfo era pesato e quindi caricato sulle spalle degli uomini di mare protette da un sacco commesso alla fronte. Scalzi, in calzoni di tela, gli uomini di mare recavano il carico alle spigonare, immergendosi nell’acqua fino all’anca, e le spigonare, appena cariche, sciolta la vela, andavano a scaricare lo zolfo nei vapori mercantili ancorati nel porto o fuori. Così, fino al tramonto del sole, quando lo scirocco non impediva l’imbarco.

             E lui? Lui lì, con la canna della lenza in mano. E non di rado scotendo rabbiosamente quella canna, gli avveniva di borbottare nella barba lanosa che contrastava col bruno della pelle cotta dal sole e con gli occhi verdastri e acquosi:

             – Porco diavolo! Non m’hanno lasciato neanche pesci nel mare !

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            II. Seduta sul letto, coi capelli neri tutti arruffati e gli occhi gonfi dal sonno, Venerina non si risolveva ancora a uscire dalla sua cameretta, quando udì per la scala uno scalpiccio confuso tra ansiti affannosi e la voce dello zio che gridava:

             – Piano, piano! Eccoci arrivati.

             Corse ad aprire la porta; s’arrestò sgomenta, stupita, esclamando:

             – Oh Dio! Che è?

             Davanti alla porta, per l’angusta scala, una specie di barella sorretta penosamente da un gruppo di marinai ansanti, costernati. Sotto un’ampia coperta d’albagio qualcuno stava a giacere su quella barella.

             – Zio ! zio ! – gridò Venerina.

             Ma la voce dello zio le rispose dietro quel gruppo d’uomini che s’affannava a salire gli ultimi gradini.

             – Niente; non ti spaventare! Ho fatto pesca anche stamattina! La grazia di Dio non ci abbandona. Piano, piano, figliuoli: siamo arrivati. Qua, entrate. Ora lo adageremo sul mio letto.

             Venerina vide accanto allo zio un giovine di statura gigantesca, straniero all’aspetto, biondo, e dal volto un po’ affumicato, che reggeva sotto il braccio una cassetta; poi chinò gli occhi su la barella, che i marinai, per riprender fiato, avevano deposta presso l’entrata, e domandò:

             –    Chi è? Che è avvenuto?

             –    Pesce di nuovo genere, non ti confondere! – le rispose don Pietro, promovendo il sorriso dei marinai che s’asciugavano la fronte. – Vera grazia di Dio! Su, figliuoli: sbrighiamoci. Di qua, sul mio letto.

             E condusse i marinai col triste carico nella sua camera ancora sossopra.

             Lo straniero, scostando tutti, si chinò su la barella; ne tolse via cautamente la coperta, e sotto gli occhi di Venerina raccapricciata scoprì un povero infermo quasi ischeletrito, che sbarrava nello sgomento certi occhi enormi d’un così limpido azzurro, che parevano quasi di vetro, tra la squallida magrezza del volto su cui la barba era rispuntata; poi, con materna cura, lo sollevò come un bambino e lo pose a giacere sul letto.

             –   Via tutti, via tutti! – ordinò don Pietro. – Lasciamoli soli, adesso. Per voi, figliuoli, penserà il capitano dell’Hammerfest.  – É, richiuso l’uscio, aggiunse, rivolto alla nipote: – Vedi? Poi dici che non siamo fortunati. Un vapore a ogni morte di papa; ma quell’uno che arriva, è la manna! Ringraziamo Dio.

             – Ma chi è? Si può sapere che è avvenuto? – domandò di nuovo Venerina. E don Paranza:

             –   Niente! Un marinajo malato di tifo, agli estremi. Il capitano m’ha visto questa bella faccia di minchione e ha detto: «Guarda, voglio farti un regaluccio, brav’uomo». Se quel poveraccio moriva in viaggio, finiva in bocca a un pesce-cane; invece è voluto arrivare fino a Porto Empedocle, perché sapeva che c’era Pietro Mìlio, pesce-somaro. Basta. Andrò oggi stesso a Girgenti per trovargli posto all’ospedale. Passo prima da tua zia donna Rosolina! Voglio sperare che mi farà la grazia di tenerti compagnia finché io non ritornerò da Girgenti. Speriamo che, per questa sera, sia tutto finito. Aspetta oh… debbo dire…

             Riaprì l’uscio e rivolse qualche frase in francese a quel giovane straniero, che chinò più volte il capo in risposta; poi, uscendo, soggiunse alla nipote:

             – Mi raccomando: te ne starai di là, in camera tua. Vado e torno con tua zia. Per istrada, alla gente che gli domandava notizie, seguitò a rispondere senza nemmeno voltarsi:

             – Pesca, pesca: tricheco!

             Forzando la consegna della serva, s’introdusse in casa di donna Rosolina. La trovò in gonnella e camicia, con le magre braccia nude e un asciugamani su le spallucce ossute, che s’apparecchiava il latte di crusca per lavarsi la faccia.

             –    Maledizione! – strillò la zitellona cinquantaquattrenne, riparandosi d’un balzo dietro una cortina. – Chi entra? Che modo!

             –    Ho gli occhi chiusi, ho gli occhi chiusi! – protestò Pietro Mìlio. – Non guardo le vostre bellezze!

             –    Subito, voltatevi! – ordinò donna Rosolina.

             Don Pietro obbedì e, poco dopo, udì l’uscio della camera sbatacchiare furiosamente. Attraverso quell’uscio, allora, egli le narrò ciò che gli era accaduto, pregandola di far presto.

             Impossibile! Lei, donna Rosolina, uscir di casa a quell’ora? Impossibile! Caso eccezionale, sì. Ma quel malato, era vecchio o giovane?

             – Santo nome di Dio! – gemette don Pietro. – Alla vostra età, dite sul serio? Né vecchio, né giovane; è moribondo. Sbrigatevi!

             Ah sì! prima che donna Rosolina si risolvesse a licenziarsi dalla propria immagine nello specchio, dovette passare più di un’ora. Si presentò alla fine tutta aggeggiata, come una bertuccia vestita, l’ampio scialle indiano con la frangia fino a terra, tenuto sul seno da un gran fermaglio d’oro smaltato con pendagli a lagrimoni, grossi orecchini agli orecchi, la fronte simmetricamente virgolata da certi mezzi riccetti unti non si sa di qual manteca, e tinte le guance e le labbra.

             – Eccomi, eccomi…

             E gli occhietti lupigni, guarniti di lunghissime ciglia, lappoleggiando, chiesero a don Pietro ammirazione e gratitudine per quell’abbigliamento straordinariamente sollecito. (Ben altro un tempo quegli occhi avevano chiesto a don Pietro: ma questi, Pietro di nome, pietra di fatto.)

             Trovarono Venerina su tutte le furie. Quel giovine straniero s’era arrischiato a picchiare all’uscio della camera, dov’ella s’era chiusa, e chi sa che cosa le aveva bestemmiato nella sua lingua; poi se n’era andato.

             – Pazienza, pazienza fino a questa sera! – sbuffò don Paranza. – Ora scappo a Girgenti. Di’ un po’: lui, il malato, s’è sentito?

             Tutti e tre entrarono pian pianino per vederlo. Restarono, trattenendo il fiato, presso la soglia. Pareva morto.

             –    Oh Dio! – gemette donna Rosolina. – Io ho paura! Non ci resisto.

             –    Ve ne starete di là, tutt’e due, – disse don Pietro. – Di tanto in tanto vi affaccerete qua all’uscio, per vedere come sta. Tirasse almeno avanti ancora un pajo di giorni! Ma mi par proprio ch’accenni d’andarsene, e non mi mancherebbe altro! Ah che bei guadagni, che bei guadagni mi dà la Norvegia! Basta: lasciatemi scappare.

             Donna Rosolina lo acchiappò per un braccio.

             –    Dite un po’ : è turco o cristiano?

             –    Turco, turco: non si confessa! – rispose in fretta don Pietro.

             –    Mamma mia! Scomunicato! – esclamò la zitellona, segnandosi con una mano e tendendo l’altra per portarsi via Venerina fuori di quella camera. – Sempre così! – sospirò poi, nella camera della nipote, alludendo a don Pietro che già se n’era andato. – Sempre con la testa tra le nuvole! Ah, se avesse avuto giudizio…

             E qui donna Rosolina, che toglieva ogni volta pretesto dalle continue disgrazie di don Paranza per parlare con mille reticenze e sospiri del suo mancato matrimonio, anche in quest’ultima volle vedere la mano di Dio, il castigo, il castigo d’una colpa remota di lui: quella di non aver preso lei in moglie.

             Venerina pareva attentissima alle parole della zia; pensava invece, assorta, con un senso di pauroso smarrimento, a quell’infelice che moriva di là, solo, abbandonato, lontano dal suo paese, dove forse moglie e figliuoli lo aspettavano. E a un certo punto propose alla zia d’andare a vedere come stesse.

             Andarono strette l’una all’altra, in punta di piedi, e si fermarono poco oltre la soglia della camera, sporgendo il capo a guardare sul letto.

             L’infermo teneva gli occhi chiusi: pareva un Cristo di cera, deposto dalla croce. Dormiva o era morto?

             Si fecero un po’ più avanti; ma al lieve rumore, l’infermo schiuse gli occhi, quei grandi occhi celesti, attoniti. Le due donne si strinsero vieppiù tra loro; poi, vedendogli sollevare una mano e far cenno di parlare, scapparono via con un grido, a richiudersi in cucina.

             Sul tardi, sentendo il campanello della porta, corsero ad aprire; ma, invece di don Pietro, si videro davanti quel giovine straniero della mattina. La zitellona corse ranca ranca a rintanarsi di nuovo; ma Venerina, coraggiosamente, lo accompagnò nella camera dell’infermo già quasi al bujo, accese una candela e la porse allo straniero, che la ringraziò chinando il capo con un mesto sorriso; poi stette a guardare, afflitta: vide che egli si chinava su quel letto e posava lieve una mano su la fronte dell’infermo, sentì che lo chiamava con dolcezza:

             –   Cleen… Cleen…

             Ma era il nome, quello, o una parola affettuosa?

             L’infermo guardava negli occhi il compagno, come se non lo riconoscesse; e allora ella vide il corpo gigantesco di quel giovine marinajo sussultare, lo sentì piangere, curvo sul letto, e parlare angosciosamente, tra il pianto, in una lingua ignota. Vennero anche a lei le lagrime agli occhi. Poi lo straniero, voltandosi, le fece segno che voleva scrivere qualcosa. Ella chinò il capo per significargli che aveva compreso e corse a prendergli l’occorrente. Quando egli ebbe finito, le consegnò la lettera e una borsetta.

             Venerina non comprese le parole ch’egli le disse, ma comprese bene dai gesti e dall’espressione del volto, che le raccomandava il povero compagno. Lo vide poi chinarsi di nuovo sul letto a baciare più volte in fronte l’infermo, poi andar via in fretta con un fazzoletto su la bocca per soffocare i singhiozzi irrompenti.

             Donna Rosolina poco dopo, tutta impaurita, sporse il capo dall’uscio e vide Venerina che se ne stava seduta, lì, come se nulla fosse, assorta, e con gli occhi lagrimosi.

             – Ps, ps! – la chiamò, e col gesto le disse: – che fai? sei matta?

             Venerina le mostrò la lettera e la borsetta, che teneva ancora in mano, e le accennò d’entrare. Non c’era più da aver paura. Le narrò a bassa voce la scena commovente tra i due compagni, e la pregò che sedesse anche lei a vegliare quel poveretto che moriva abbandonato.

             Nel silenzio della sera sopravvenuta sonò a un tratto, acuto, lungo, straziante, il fischio d’una sirena, come un grido umano.

             Venerina guardò la zia, poi l’infermo sul letto, avvolto nell’ombra, e disse piano:

             – Se ne vanno. Lo salutano.

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             III. – Zio, come si dice bestia in francese?

             Pietro Mìlio, che stava a lavarsi in cucina, si voltò con la faccia grondante a guardare la nipote:

             – Perché? Vorresti chiamarmi in francese? Si dice bète, figlia mia: bète, bète! E dimmelo forte, sai!

             Altro che bestia si meritava d’esser chiamato. Da circa due mesi teneva in casa e cibava come un pollastro quel marinajo piovutogli dal cielo. A Girgenti – manco a dirlo! – non aveva potuto trovargli posto all’ospedale. Poteva buttarlo in mezzo alla strada? Aveva scritto al Console di Palermo – ma sì! – Il Console gli aveva risposto che desse ricetto e cura al marinajo dell’Hammerfest, fin tanto che esso non fosse guarito, o – nel caso che fosse morto – gli desse sepoltura per bene, che delle spese poi avrebbe avuto il rimborso.

             Che genio, quel Console! Come se lui, Pietro Mìlio, potesse anticipare spese e dare alloggio ai malati. Come? dove? Per l’alloggio, sì: aveva ceduto all’infermo il suo letto, e lui a rompersi le ossa sul divanaccio sgangherato che gli cacciava tra le costole le molle sconnesse, così che ogni notte sognava di giacer lungo disteso sulle vette di una giogaja di monti. Ma per la cura, poteva andare dal farmacista, dal droghiere, dal macellajo a prender roba a credito, dicendo che la Norvegia avrebbe poi pagato? – Lì, boghe e cefaletti, il giorno, e gronghi la sera, quando ne pescava; e se no, niente!

             Eppure quel povero diavolo era riuscito a non morire! Doveva essere a prova di bomba, se non ci aveva potuto neanche il medico del paese, che aveva tanto buon cuore e tanta carità di prossimo da ammazzare almeno un concittadino al giorno. Non diceva così, perché in fondo volesse male a quel povero straniero; no, ma – porco diavolo! – esclamava don Pietro – chi più poveretto di me?

             Manco male che, fra pochi giorni, si sarebbe liberato. Il Norvegese, ch’egli chiamava L’arso (si chiamava Lars Cleen), era già entrato in convalescenza, e di lì a una, a due settimane al più, si sarebbe potuto mettere in viaggio.

             Ne era tempo, perché donna Rosolina non voleva più saperne di far la guardia alla nipote: protestava d’esser nubile anche lei e che non le pareva ben fatto che due donne stessero a tener compagnia a quell’uomo ch’ella credeva veramente turco, e perciò fuori della grazia di Dio. Già si era levato di letto, poteva muoversi e… e… non si sa mai!

             Donna Rosolina non aggiungeva, in queste rimostranze a don Pietro, che il contegno di Venerina, verso il convalescente, da un pezzo non le garbava più.

             Il convalescente pareva uscito dalla malattia mortale quasi di nuovo bambino. Il sorriso, lo sguardo degli occhi limpidi avevano proprio una espressione infantile. Era ancora magrissimo; ma il volto gli s’era rasserenato, la pelle gli si ricoloriva leggermente; e gli rispuntavano più biondi, lievi, aerei, i capelli che gli erano caduti durante la malattia.

             Venerina, nel vederlo così timido, smarrito nella beatitudine di quel suo rinascere in un paese ignoto, tra gente estranea, provava per lui una tenerezza quasi materna. Ma tutta la loro conversazione si riduceva, per Venerina che non intendeva il francese e tanto meno il norvegese, a una variazione di tono nel pronunziare il nome di lui, Cleen. Così, se egli si ricusava, arricciando il naso, scotendo la testa, di prendere qualche medicina o qualche cibo, ella pronunziava quel Cleen con voce cupa, d’impero, aggrottando le ciglia su gli occhi fermi, severi, come per dire: «Obbedisci: non ammetto capricci». – Se poi egli, in uno scatto di gioconda tenerezza, vedendosela passar da presso, le tirava un po’ la veste, col volto illuminato da un sorriso di gratitudine e di simpatia, Venerina strascicava quel Cleen in una esclamazione di stupore e di rimprovero, come se volesse dirgli: «Sei matto?».

             Ma lo stupore era finto, il rimprovero dolce: espressi l’uno e l’altro per ammansare gli scrupoli di donna Rosolina che, assistendo a quelle scene, sarebbe diventata di centomila colori, se non avesse avuto sulle magre gote quella patina di rossetto.

             Anche lei, Venerina, si sentiva quasi rinata. Avvezza a star sempre sola, in quella casa povera e nuda, senza cure intime, senza affetti vivi, da un pezzo s’era abbandonata a un’uggia invincibile, a un tedio smanioso: il cuore le si era come isterilito, e la sterilità del sentimento si disfaceva in lei nella pigrizia più accidiosa. Lei stessa, ora, non avrebbe saputo spiegarsi perché le andasse tanto di sfaccendare per casa, lietamente, di levarsi per tempo e d’acconciarsi.

             – Miracoli! Miracoli! – esclamava don Paranza, rincasando la sera, con gli attrezzi da pesca, tutto fragrante di mare. Trovava ogni cosa in ordine: la tavola apparecchiata, pronta la cena. – Miracoli!

             Entrava nella camera dell’infermo, fregandosi le mani:

             –    Bon suarre, mossiur Cleen, bon suarre!

             –    Buona sera, – rispondeva in italiano il convalescente, sorridendo, staccando e quasi incidendo con la pronunzia le due parole.

             –    Come come? – esclamava allora don Pietro stupito, guardando Venerina che rideva, e poi donna Rosolina che stava seria, seduta, intozzata su di sé, con le labbra strette e le palpebre gravi, semichiuse.

             A poco a poco Venerina era riuscita a insegnare allo straniero qualche frase italiana e un po’ di nomenclatura elementare, con un mezzo semplicissimo. Gl’indicava un oggetto nella camera e lo costringeva a ripeterne più e più volte il nome, finché non lo pronunziasse correttamente: – bicchiere, letto, seggiola, finestra…  – E che risate quando egli sbagliava, risate che diventavano fragorose se s’accorgeva che la zia zitellona, legnosa nella sua pudibonda severità, per non cedere al contagio del riso si torturava le labbra, massime quando l’infermo accompagnava con gesti comicissimi quelle parole staccate, telegrafando così a segni le parti sostanziali del discorso che gli mancavano. Ma presto egli poté anche dire: aprire, chiudere finestra, prendere bicchiere, e anche voglio andare letto. Se non che, imparato quel voglio, cominciò a farne frequentissimo uso, e l’impegno che metteva nel superare lo stento della pronunzia, dava un più reciso tono di comando alla parola. Venerina ne rideva, ma pensò d’attenuare quel tono insegnando all’infermo di premettere ogni volta a quel voglio un prego. Prego, sì, ma poiché egli non riusciva a pronunziare correttamente questa nuova parola, quando voleva qualche cosa, aspettava che Venerina si voltasse a guardarlo, e allora congiungeva le mani in segno di preghiera e quindi spiccicava più che mai imperioso e reciso il suo voglio.

             La premessa di quel segno di preghiera era assolutamente necessaria ogni qual volta egli voleva presso di sé lo stipetto che il compagno gli aveva portato dal piroscafo, il giorno in cui ne era sceso moribondo. Venerina glielo porgeva ogni volta di mal animo e senza il garbo consueto. Quella cassetta rappresentava per lui la patria lontana: c’erano tutti i suoi ricordi e tante lettere e alcuni ritratti. Guardandolo obliquamente, mentr’egli rileggeva qualcuna di quelle lettere, o se ne stava astratto, con gli occhi invagati, Venerina lo vedeva quasi sotto un altro aspetto, come se fosse avvolto in un’altra aria che lo allontanasse da lei all’improvviso, e notava tante particolarità della diversa natura di lui, non mai prima notate. Quella cassetta, in cui egli frugava con tanta insistenza, le richiamava davanti a gli occhi l’immagine di quell’altro marinajo che lo aveva sollevato dalla barella come un bambino per deporlo sul letto, lì, e poi se n’era andato, piangendo. Ed ella si era presa tanta cura di quell’abbandonato! Chi era egli? Donde veniva? Quali ricordi custodiva con tanto amore in quella cassetta? Venerina scrollava a un tratto le spalle con un moto di dispetto, dicendo a se stessa: «Che me n’importa?» e lo lasciava lì solo nella camera, a pascersi di quei suoi segreti ricordi, e si tirava con sé la zia, che la seguiva stordita di quella risoluzione repentina:

             –   Che facciamo?

             –   Nulla. Ce n’andiamo!

             Venerina ricadeva d’un tratto, in quei momenti, nel suo tedio neghittoso, inasprito da una sorda stizza o aggravato da una pena d’indefiniti desiderii: la casa le appariva vuota di nuovo, vuota la vita, e sbuffava: non voleva far nulla, più nulla!

*******

             IV. Lars Cleen, appena solo, si sentiva come caduto in un altro mondo, più luminoso, di cui non conosceva che tre abitanti soli e una casa, anzi una camera. Non si rendeva ragione di quei dispettucci di Venerina. Non si rendeva ragione di nulla. Tendeva l’orecchio ai rumori della via, si sforzava d’intendere; ma nessuna sensazione della vita di fuori riusciva a destare in lui un’immagine precisa. La campana… sì, ma egli vedeva col pensiero una chiesa del suo remoto paese! Un fischio di sirena, ed egli vedeva l’Hammerfest perduto nei mari lontani. E com’era restato una sera, nel silenzio, alla vista della luna, nel vano della finestra! Era pure, era pure la stessa luna ch’egli tante volte in patria, per mare, aveva veduta; ma gli era parso che lì, in quel paese ignoto, ella parlasse ai tetti di quelle case, al campanile di quella chiesa, quasi un altro linguaggio di luce, e l’aveva guardata a lungo, con un senso di sgomento angoscioso, sentendo più acuta che mai la pena dell’abbandono, il proprio isolamento.

             Viveva nel vago, nell’indefinito, come in una sfera vaporosa di sogni. Un giorno, finalmente, s’accorse che sul coperchio della cassetta erano scritte col gesso tre parole: – bet! bet! betl – così. Domandò col gesto a Venerina che cosa volessero significare, e Venerina, pronta:

             – Tu, bet!

             Lars Cleen restò a guardarla con gli occhi chiari ridenti e smarriti. Non comprendeva, o meglio non sapeva credere che… No, no – e con le mani le fece segno che avesse pietà di lui che tra poco doveva partire. Venerina scrollò le spalle e lo salutò con la mano.

             –   Buon viaggio!

             –   No, no, – fece di nuovo il Cleen col capo, e la chiamò a sé col gesto: aprì la cassetta e ne trasse una veduta fotografica di Trondhjem. Vi si vedeva, tra gli alberi, la maestosa cattedrale marmorea sovrastante tutti gli altri edifici, col camposanto prossimo, ove i fedeli superstiti si recano ogni sabato a ornare di fiori le tombe dei loro morti.

             Ella non riuscì a comprendere perché le mostrasse quella veduta.

             –   Ma mère, iti,  – s’affannava a dirle il Cleen, indicandole col dito il cimitero, lì, all’ombra del magnifico tempio. Anche lui, come don Pietro, non era molto padrone della lingua francese, che del resto non serviva affatto con Venerina. Trasse allora dalla cassetta un’altra fotografia: il ritratto d’una giovine. Subito Venerina vi fissò gli occhi, impallidendo. Ma il Cleen si pose accanto al volto il ritratto, per farle vedere che quella giovine gli somigliava.

             –   Ma soeur,  – aggiunse.

             Questa volta Venerina comprese e s’ilarò tutta. Se poi quella sorella fosse fidanzata o già moglie del giovane marinajo che aveva recato la cassetta, Venerina non si curò più che tanto d’indovinare. Le bastò sapere che L’arso era celibe. Sì: ma non doveva ripartire fra pochi giorni? Era già in grado di uscir di casa e di recarsi a piedi, sul tramonto, al Molo Vecchio.

             Una frotta di monellacci scalzi, stracciati, alcuni ignudi nati, abbrustiti dal sole, seguiva ogni volta Lars Cleen in quelle sue passeggiate: lo spiavano, scambiandosi ad alta voce osservazioni e commenti che presto si mutavano in lazzi. Egli, stordito, abbagliato nell’aria che grillava di luce, si voltava ora verso l’uno ora verso l’altro, sorridendo; talora gli toccava di minacciare col bastone i più insolenti; poi sedeva sul muricciuolo della banchina a guardare i bastimenti ormeggiati e il mare infiammato dal riflesso delle nuvole vespertine. La gente si fermava a osservarlo, mentr’egli se ne stava in quell’atteggiamento, tra smarrito ed estatico: lo guardava, come si guarda una gru o una cicogna stanca e sperduta, discesa dall’alto dei cieli. Il berretto di pelo, il pallore del volto e l’estrema biondezza della barba e dei capelli attiravano specialmente la curiosità. Egli alla fine se ne stancava e piano piano rincasava, triste.

             Dalla lettera lasciatagli dal compagno, insieme col denaro, sapeva che l’Hammerfest dopo il viaggio in America, sarebbe ritornato a Porto Empedocle, fra sei mesi. Ne erano trascorsi già tre. Volentieri si sarebbe rimbarcato sul suo piroscafo di ritorno, volentieri si sarebbe riunito ai compagni; ma come trattenersi tre altri mesi, così, senza più alcuna ragione, nella casa che l’ospitava? Il Mìlio aveva già scritto al console in Palermo per fargli ottenere gratuitamente il rimpatrio. Che fare? partire o attendere? – Decise di consigliarsi col Mìlio stesso, una di quelle sere, al ritorno dalla pesca dei gronghi.

             Venerina assistette, dopo cena, a quel dialogo che voleva essere in francese tra lo zio e lo straniero. Dialogo? Si sarebbe detto diverbio piuttosto, a giudicare dalla violenza dei gesti ripetuti con esasperazione dall’uno e dall’altro. Venerina, sospesa, costernata, a un certo punto, nel vedersi additata rabbiosamente dallo zio, diventò di bragia. Eh che! Parlavano dunque di lei? a quel modo? Vergogna, ansia, dispetto le fecero a un tratto tale impeto dentro, che appena il Cleen si ritirò, saltò su a domandare allo zio.

             –    Che c’entro io? Che avete detto di me?.

             –    Di te? Niente, – rispose don Pietro, rosso e sbuffante, dopo quella terribile fatica.

             –    Non è vero! Avete parlato di me. Ho capito benissimo. E tu ti sei arrabbiato!

             Don Pietro non si raccapezzava ancora.

             – Che t’ha detto? Che t’ha inventato? – incalzò Venerina, tutta accesa. – Vuole andarsene? E tu lascialo andare! Non me n’importa nulla, sai, proprio nulla.

             Don Paranza restò a guardare ancora un pezzo la nipote, stordito, con la bocca aperta.

             – Sei matta? O io…

             All’improvviso si diede a girare per la stanza come se cercasse la via per scappare e, agitando per aria le manacce spalmate:

             – Che asino! – gridò. – Che imbecille! Oh somarone! A settantotto anni! Mamma mia! Mamma mia!

             Si voltò di scatto a guardare Venerina, mettendosi le mani tra i capelli.

             –    Dimmi un po’, per questo m’hai domandato… per dirlo a lui in francese, ch’ero bestia?

             –    No, non per te… Che hai capito?

             Di nuovo don Pietro, con la testa tra le mani, si mise ad andare in qua e in là per la stanza.

             – Bestione, somarone, e dico poco! Ma quella bertuccia di tua zia che ha fatto qui? ha dormito? Porco diavolo! E tu? e questo pezzo di… Aspetta, aspetta che te l’aggiusto io, ora stesso!

             E in così dire si lanciò verso l’uscio della camera, dove s’era chiuso il Cleen. Venerina gli si parò subito davanti.

             – No! Che fai, zio? Ti giuro che egli non sa nulla! Ti giuro che tra me e lui non c’è stato mai nulla! Non hai inteso che se ne vuole andare?

             Don Pietro restò come sospeso. Non capiva più nulla!

             – Chi? lui? Se ne vuole andare? Chi te l’ha detto? Ma al contrario! al contrario! Non se ne vuole andare! M’hai preso per bestia sul serio? Io, io te lo caccio via però, ora stesso!

             Venerina lo trattenne di nuovo, scoppiando questa volta in singhiozzi e buttandoglisi sul petto. Don Paranza sentì mancarsi le gambe. Con la mano rimasta libera accennò il segno della croce.

             – In nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, – sospirò. – Vieni qua, vieni qua, figlia mia! Andiamocene nella tua camera e ragioniamo con calma. Ci perdo la testa!

             La trasse con sé nell’altra camera, la fece sedere, le porse il fazzoletto perché si asciugasse gli occhi e cominciò a interrogarla paternamente.

             Frattanto Lars Cleen, che aveva udito dalla sua camera il diverbio tra lo zio e la nipote senza comprenderne nulla, apriva pian piano l’uscio e sporgeva il capo a guardare, col lume in mano, nella saletta buja. Che era avvenuto? Intese solo i singhiozzi di Venerina, di là, e se ne turbò profondamente. Perché quella lite? E perché piangeva ella così? Il Mìlio gli aveva detto che non era possibile che egli stesse nella casa più oltre: non c’era posto per lui; e poi quella vecchia matta della zia s’era stancata; e la nipote non poteva restar sola con un estraneo in casa. Difficoltà, ch’egli non riusciva a penetrare. Mah! tant’altre cose, da che usciva di casa, gli sembravano strane in quel paese. Bisognava partire, senz’aspettare il piroscafo: questo era certo. E avrebbe perduto il posto di nostromo. Partire! Piangeva per questo la sua giovane amica infermiera?

             Fino a notte avanzata Lars Cleen stette lì, seduto sul letto, a pensare, a fantasticare. Gli pareva di vedere la sorella lontana; la vedeva. Ah, lei sola al mondo gli voleva bene ormai. E anche quest’altra fanciulla qua, possibile?

             – Questa? E tu vorresti?

             Chi sa! Ogni qual volta ritornava in patria, la sorella gli ripeteva che volentieri avrebbe preferito di non rivederlo mai più, mai più in vita, se egli, in uno di quei suoi viaggi lontani, si fosse innamorato di una buona ragazza e la avesse sposata. Tanto strazio le dava il vederlo così, svogliato della vita e rimesso, anzi abbandonato alla discrezione della sorte, esposto a tutte le vicende, pronto alle più rischiose, senz’alcun ritegno d’affetto per sé, come quella volta che, traversando l’Oceano in tempesta, s’era buttato dall’Hammerfest per salvare un compagno! Sì, era vero; e senza alcun merito; perché la sua vita, per lui, non aveva più prezzo.

             Ma lì, ora? possibile? Questo paesello di mare, in Sicilia, così lontano lontano, era dunque la meta segnata dalla sorte alla sua vita? era egli giunto, senz’alcun sospetto, al suo destino? Per questo s’era ammalato fino a toccare la soglia della morte? per riprendere lì la via d’una nuova esistenza? Chi sa!

             – E tu gli vuoi bene? – concludeva intanto di là don Pietro, dopo avere strappato a Venerina, che non riusciva a quietarsi, le scarse, incerte notizie che ella aveva dello straniero e la confessione di quegli ingenui passatempi, donde era nato quell’amore fino a quel punto sospeso in aria, come un uccello sulle ali.

             Venerina s’era nascosto il volto con le mani,

             –    Gli vuoi bene? – ripetè don Pietro. – Ci vuol tanto a dir di sì?

             –    Io non lo so, – rispose Venerina, tra due singhiozzi.

             –    E invece lo so io! – borbottò don Paranza, levandosi. – Va’, va’ a letto ora, e procura di dormire. Domani, se mai… Ma guarda un po’ che nuova professione mi tocca adesso d’esercitare!

             E, scotendo il capo lanoso, andò a buttarsi sul divanaccio sgangherato.

             Rimasta sola, Venerina, tutta infocata in volto, con gli occhi sfavillanti, sorrise; poi si nascose di nuovo il volto con le mani; se lo tenne stretto, stretto, così, e andò a buttarsi sul letto, vestita.

             Non lo sapeva davvero, se lo amava. Ma, intanto, baciava e stringeva il guanciale del lettuccio. Stordita da quella scena imprevista, a cui s’era lasciata tirare, per un malinteso, dal suo amor proprio ferito, non riusciva ancor bene a veder chiaro in sé, in ciò che era avvenuto. Un senso scottante di vergogna le impediva di rallegrarsi di quella spiegazione con lo zio, forse desiderata inconsciamente dal suo cuore, dopo tanti mesi di sospensione su un pensiero, su un sentimento, che non riuscivano quasi a posarsi sulla realtà, ad affermarsi in qualche modo. Ora aveva detto di sì allo zio, e certo avrebbe sentito un gran dolore, se il Cleen se ne fosse andato; sentiva orrore del tedio mortale in cui sarebbe ricaduta, sola sola, nella casa vuota e silenziosa; era perciò contenta che lo zio fosse ora con lei, di là, a pensare, a escogitare il modo di vincere, se fosse possibile, tutte le difficoltà che avevano fino allora tenuto sospeso il suo sentimento.

             Ma si potevano vincere quelle difficoltà? Il Cleen, pur lì presente, le pareva tanto, tanto lontano: parlava una lingua ch’ella non intendeva; aveva nel cuore, negli occhi, un mondo remoto, ch’ella non indovinava neppure. Come fermarlo lì? Era possibile? E poteva egli aver l’intenzione di fermarsi, per lei, tutta la vita, fuori di quel suo mondo? Voleva, sì, restare; ma fino all’arrivo del piroscafo dall’America. Intanto, certo, in patria nessun affetto vivo lo attirava; perché, altrimenti, scampato per miracolo dalla morte, avrebbe pensato subito a rimpatriare. Se voleva aspettare, era segno che anche lui doveva sentire… chi sa! forse lo stesso affetto per lei, così sospeso e come smarrito nell’incertezza della sorte.

             Fra altri pensieri si dibatteva don Pietro sul divanaccio che strideva con tutte le molle sconnesse. Le molle stridevano e don Paranza sbuffava:

             – Pazzi! Pazzi! Come hanno fatto a intendersi, se l’uno non sa una parola della lingua dell’altra? Eppure, sissignori, si sono intesi! Miracoli della pazzia! Si amano, si amano, senza pensare che i cefali, le boghe, i gronghi dello zio bestione non possono dal mare assumersi la responsabilità e l’incarico di fare le spese del matrimonio e di mantenere una nuova famiglia. Meno male, che io… Ma sì! Se padron Di Nica vorrà saperne! Domani, domani si vedrà… Dormiamo !

             Faceva affaroni, col suo vaporetto, Agostino Di Nica. Tanto che aveva pensato di allargare il suo commercio fino a Tunisi e Malta e, a tale scopo, aveva ordinato all’Arsenale di Palermo la costruzione di un altro vaporetto, un po’ più grande, che potesse servire anche al trasporto dei passeggeri.

             «Forse,» seguitava a pensare don Pietro, «un uomo come L’arso potrà servirgli. Conosce il francese meglio di me e l’inglese benone. Lupo di mare, poi. O come interprete, o come marinajo, purché me lo imbarchi e gli dia da vivere e da mantenere onestamente la famiglia… Intanto Venerina gli insegnerà a parlare da cristiano. Pare che faccia miracoli, lei, con la sua scuola. Non posso lasciarli più soli. Domani me lo porto con me da padron Di Nica e, se la proposta è accettata, egli aspetterà, se vuole, ma venendosene con me ogni giorno alla pesca; se non è accettata, bisogna che parta subito subito, senza remissione. Intanto, dormiamo.»

             Ma che dormire! Pareva che le punte delle molle sconnesse fossero diventate più irte quella notte, compenetrate delle difficoltà, fra cui don Paranza si dibatteva.

*******

             V. Da circa quindici giorni Lars Cleen seguiva mattina e sera il Mìlio alla pesca: usciva di casa con lui, vi ritornava con lui. Padron Di Nica, con molti se, con molti ma, aveva accettato la proposta presentatagli dal Mìlio come una vera fortuna per lui (e le conseguenze?). Il vaporetto nuovo sarebbe stato pronto fra un mese al più, e lui, il Cleen, vi si sarebbe imbarcato in qualità di interprete – a prova, per il primo mese.

             Venerina aveva fatto intender bene allo zio che il Cleen non s’era ancora spiegato con lei chiaramente, e gli aveva perciò raccomandato di comportarsi con la massima delicatezza, tirandolo prima con ogni circospezione a parlare, a spiegarsi. Il povero don Paranza, sbuffando più che mai, nel cresciuto impiccio, si era recato dapprima solo dal Di Nica e, ottenuto il posto, era ritornato a casa a offrirlo al Cleen, soggiungendogli nel suo barbaro francese che, se voleva restare, come gliene aveva espresso il desiderio, se voleva trattenersi fino al ritorno dell’Hammerfest, doveva essere a questo patto: che lavorasse; il posto, ecco, glielo aveva procurato lui: quando poi il piroscafo sarebbe arrivato dall’America, ne avrebbe avuti due, di posti; e allora, a sua scelta: o questo o quello, quale gli sarebbe convenuto di più. Intanto, nell’attesa, bisognava che andasse con lui ogni giorno alla pesca.

             Alla proposta, il Cleen era rimasto perplesso. Gli era apparso chiaro che la scena di quella sera tra zio e nipote era avvenuta proprio per la sua prossima partenza, e che era stato lui perciò la cagione del pianto della sua cara infermiera. Accettare, dunque, e compromettersi sarebbe stato tutt’uno. Ma come rifiutare quel benefizio, dopo le tante cure e le premure affettuose di lei? quel benefizio offerto in quel modo, che non lo legava ancora per nulla, che lo lasciava libero di scegliere, libero di mostrarsi, o no, grato di quanto gli era stato fatto?

             Ora, ogni mattina, levandosi dal divanaccio con le ossa indolenzite, don Pietro si esortava così:

             – Coraggio, don Paranza! alla doppia pesca!

             E preparava gli attrezzi: le due canne con le lenze, una per sé, l’altra per L’arso, i barattoli dell’esca, gli ami di ricambio: ecco, sì, per i pesci era ben munito; ma dove trovare l’occorrente per l’altra pesca: quella al marito per la nipote? chi glielo dava l’amo per tirarlo a parlare?

             Si fermava in mezzo alla stanza, con le labbra strette, gli occhi sbarrati; poi scoteva in aria le mani ed esclamava:

             – L’amo francese!

             Eh già! Perché gli toccava per giunta di muovergliene il discorso in francese, quando non avrebbe saputo dirglielo neppure in siciliano.

              – Monsiurre, ma nièsse…

             E poi? Poteva spiattellargli chiaro e tondo che quella scioccona s’era innamorata o incapricciata di lui?

             Dalla Norvegia o dal console di Palermo avrebbe avuto il rimborso delle spese, probabilmente; ma di quest’altro guajo qui chi lo avrebbe ricompensato?

             – Lui, lui stesso, porco diavolo! M’ha attizzato il fuoco in casa? Si scotti, si bruci !

             Quell’aria da mammalucco, da innocente piovuto dal cielo, gliel’avrebbe fatta smettere lui. E lì, su la scogliera del porto, mentre riforniva gli ami di nuova esca, si voltava a guardare L’arso, che se ne stava seduto su un masso poco discosto, diritto su la vita, con gli occhi chiari fissi al sughero della lenza che galleggiava su l’aspro azzurro dell’acqua luccicante d’aguzzi tremolìi.

             – Ohe, Mossiur Cleen, ohe!

             Guardare, sì, lo guardava; ma lo vedeva poi davvero quel sughero? Pareva allocchito.

             Il Cleen, all’esclamazione, si riscoteva come da un sogno, e gli sorrideva; poi tirava pian piano dall’acqua la lenza, credendo che il Mìlio lo avesse richiamato per questo, e riforniva anche lui gli ami chi sa da quanto tempo disarmati.

             Ah, così, la pesca andava benone! Anch’egli, don Paranza, pensando, escogitando il modo e la maniera d’entrare a parlargli di quella faccenda così difficile e delicata, si lasciava intanto mangiar l’esca dai pesci: si distraeva, non vedeva più il sughero, non vedeva più il mare, e solo rientrava in sé, quando l’acqua tra gli scogli vicini dava un più forte risucchio. Stizzito, tirava allora la lenza, e gli veniva la tentazione di sbatterla in faccia a quell’ingrato. Ma più ira gli suscitava l’esclamazione che il Cleen aveva imparata da lui e ripeteva spesso, sorridendo, nel sollevare a sua volta la canna.

             – Porco diavolo!

             Don Paranza, dimenticandosi in quei momenti di parlargli in francese, prorompeva:

             – Ma porco diavolo lo dico sul serio, io! Tu ridi, minchione! Che te n’importa?

             No, no, così non poteva durare: non conchiudeva nulla, non solo, ma si guastava anche il fegato.

             – Se la sbrighino loro, se vogliono!

             E lo disse una di quelle sere alla nipote, rincasando dalla pesca. Non s’aspettava che Venerina dovesse accogliere l’irosa dichiarazione della insipienza di lui con uno scoppio di risa, tutta rossa e raggiante in viso.

             –    Povero zio!

             –    Ridi? – Masi!

             –    Fatto?

             Venerina si nascose il volto con le mani, accennando più volte di sì col capo, vivacemente. Don Paranza, pur contento in cuor suo, alleggerito da quel peso quando meno se l’aspettava, montò su le furie.

             – Come! E non me ne dici niente? E mi tieni lì per tanti giorni alla tortura? E lui, anche lui, muto come un pesce!

             Venerina sollevò la faccia dalle mani:

             –    Non t’ha saputo dir nulla, neanche oggi?

             –    Pesce, ti dico! Baccalà! – gridò don Paranza al colmo della stizza. – Ho il fegato grosso così, dalla bile di tutti questi giorni !

             –    Si sarà vergognato – disse Venerina, cercando di scusarlo.

             –    Vergognato! Un uomo! – esclamò don Pietro. – Ha fatto ridere alle mie spalle tutti i pesci del mare, ha fatto ridere! Dov’è? Chiamalo; fammelo dire questa sera stessa: non basta che l’abbia detto a te!

             – Ma senza codesti occhiacci, – gli raccomandò Venerina, sorridendo. Don Paranza si placò, scosse il testone lanoso e borbottò nella barba:

             – Sono proprio… già tu lo sai, meglio di me. Di’ un po’, come hai fatto, senza francese?

             Venerina arrossì, sollevò appena le spalle, e i neri occhioni le sfavillarono.

             –    Così, – disse, con ingenua malizia.

             –    E quando?

             –    Oggi stesso, quando siete tornati a mezzogiorno, dopo il desinare. Egli mi prese una mano… io…

             –    Basta, basta! – brontolò don Paranza, che in vita sua non aveva mai fatto all’amore. – È pronta la cena? Ora gli parlo io.

             Venerina gli si raccomandò di nuovo con gli occhi, e scappò via. Don Pietro entrò nella camera del Cleen.

             Questi se ne stava con la fronte appoggiata ai vetri del balcone, a guardar fuori; ma non vedeva nulla. La piazzetta lì davanti, a quell’ora, era deserta e buja. I lampioncini a petrolio quella sera riposavano, perché della illuminazione del borgo era incaricata la luna. Sentendo aprir l’uscio, il Cleen si voltò di scatto. Chi sa a che cosa stava pensando.

             Don Paranza si piantò in mezzo alla camera con le gambe aperte, tentennando il capo: avrebbe voluto fargli un predicozzo da vecchio zio brontolone; ma sentì subito la difficoltà d’un discorso in francese consentaneo all’aria burbera a cui già aveva composta la faccia e all’atteggiamento preso. Frenò a stento un solennissimo sbuffo d’impazienza e cominciò:

             – Mossiur Cleen, ma niésse m’a dit…

             Il Cleen sorrise, timido, smarrito, e chinò leggermente il capo più volte.

             – Oui? – riprese don Paranza. – E va bene!

             Tese gl’indici delle mani e li accostò ripetutamente l’uno all’altro, per significare: «Marito e moglie, uniti…».

             –    Vous et ma niésse… mariage… oui?

             –    Si vous voulez,  – rispose il Cleen aprendo le mani, come se non fosse ben certo del consenso.

             –    Oh, per me! – scappò a don Pietro. Si riprese subito. – Très-heureux, mossiur Cleen, très-heureux. C’estfait! Donnez-moi la main…

             Si strinsero la mano. E così il matrimonio fu concluso. Ma il Cleen rimase stordito. Sorrideva, sì, d’un timido sorriso, nell’impaccio della strana situazione, in cui s’era cacciato senza una volontà ben definita. Gli piaceva, sì, quella bruna siciliana, così vivace, con quegli occhi di sole; le era gratissimo dell’amorosa assistenza: le doveva la vita, sì… ma, sua moglie, davvero? già concluso?

             – Maintenant, – riprese don Paranza, nel suo francese, – je vous prie, mossiur Cleen: cherchez, cherchez d’apprendre notre langue… je vous prie…

             Venerina venne a picchiare all’uscio con le nocche delle dita.

             – A cena!

             Quella prima sera, a tavola, provarono tutti e tre un grandissimo imbarazzo. Il Cleen pareva caduto dalle nuvole; Venerina, col volto in fiamme, confusa, non riusciva a guardare né il fidanzato né lo zio. Gli occhi le si intorbidavano, incontrando quelli del Cleen e s’abbassavano subito. Sorrideva, per rispondere al sorriso di lui non meno impacciato, ma volentieri sarebbe scappata a chiudersi sola sola in camera, a buttarsi sul letto, per piangere… Sì. Senza saper perché.

             «Se non è pazzia questa, non c’è più pazzi al mondo!» pensava tra sé dal canto suo don Paranza, aggrondato, tra le spine anche lui, ingozzando a stento la magra cena.

             Ma poi, prima il Cleen, con qualche ritegno, lo pregò di tradurre per Venerina un pensiero gentile che egli non avrebbe saputo manifestarle; quindi Venerina, timida e accesa, lo pregò di ringraziarlo e di dirgli…

             – Che cosa? – domandò don Paranza, sbarrando tanto d’occhi.

             E poiché, dopo quel primo scambio di frasi, la conversazione tra i due fidanzati avrebbe voluto continuare attraverso a lui, egli, battendo le pugna su la tavola:

             – Oh insomma! – esclamò. – Che figura ci faccio io? Ingegnatevi tra voi.

             Si alzò, fra le risa dei due giovani, e andò a fumarsi la pipa sul divanaccio, brontolando il suo porco diavolo nel barbone lanoso.

*******

             VI. Il vaporetto del Di Nica compiva, l’ultima notte di maggio, il suo terzo viaggio da Tunisi. Fra un’ora, verso l’alba, il vaporetto sarebbe approdato al Molo Vecchio. A bordo dormivano tutti, tranne il timoniere a poppa e il secondo di guardia sul ponte di comando.

             Il Cleen aveva lasciato la sua cuccetta, e da un pezzo, sul cassero, se ne stava a mirare la luna declinante di tra le griselle del sartiame, che vibrava tutto alle scosse cadenzate della macchina. Provava un senso d’opprimente angustia, lì, su quel guscio di noce, in quel mare chiuso, e anche… sì, anche la luna gli pareva più piccola, come se egli la guardasse dalla lontananza di quel suo esilio, mentr’ella appariva grande là, su l’oceano, di tra le sartie dell’Hammerfest, donde qualcuno dei suoi compagni forse in quel punto la guardava. Lì egli con tutto il cuore era vicino. Chi era di guardia, a quell’ora, su l’Hammerfest? Chiudeva gli occhi e li rivedeva a uno a uno, i suoi compagni: li vedeva salire dai boccaporti; vedeva, vedeva col pensiero il suo piroscafo, come se egli proprio vi fosse; bianco di salsedine, maestoso e tutto sonante. Udiva lo squillo della campana di bordo; respirava l’odore particolare della sua antica cuccetta; vi si chiudeva a pensare, a fantasticare. Poi riapriva gli occhi, e allora, non già quello che aveva veduto ricordando e fantasticando gli sembrava un sogno, ma quel mare lì, quel cielo, quel vaporetto, e la sua presente vita. E una tristezza profonda lo invadeva, uno smanioso avvilimento. I suoi nuovi compagni non lo amavano, non lo comprendevano, né volevano comprenderlo: lo deridevano per il suo modo di pronunziare quelle poche parole d’italiano che già era riuscito a imparare; e lui, per non far peggio, doveva costringere la sua stizza segreta a sorridere di quel volgare e stupido dileggio. Mah! Pazienza. L’avrebbero smesso, col tempo. A poco a poco, egli, con l’uso continuo e l’ajuto di Venerina, avrebbe imparato a parlare correttamente. Ormai, era detto: lì, in quel borgo, lì, su quel guscio e per quel mare, tutta la vita.

             Incerto come si sentiva ancora, nella nuova esistenza, non riusciva a immaginare nulla di preciso per l’avvenire. Può crescere l’albero nell’aria, se ancora scarse e non ben ferme ha le radici nella terra? Ma questo era certo, che lì ormai e per sempre la sorte lo aveva trapiantato.

             L’Hammerfest, che doveva ritornare dall’America tra sei mesi, non era più ritornato. La sorella, a cui egli aveva scritto per darle notizia della sua malattia mortale e annunziarle il fidanzamento, gli aveva risposto da Trondhjem con una lunga lettera piena d’angoscia e di lieta meraviglia, e annunziato che L’Hammerfest a New-York aveva ricevuto un contr’ordine ed era stato noleggiato per un viaggio nell’India, come le aveva scritto il marito. Chi sa, dunque, se egli lo avrebbe più riveduto. E la sorella?

             Si alzò, per sottrarsi all’oppressione di quei pensieri. Aggiornava. Le stelle erano morte nel cielo crepuscolare; la luna smoriva a poco a poco. Ecco laggiù, ancora accesa, la lanterna verde del Molo.

             Don Paranza e Venerina aspettavano l’arrivo del vaporetto, dalla banchina. Nei due giorni che il Cleen stava a Porto Empedocle, don Pietro non si recava alla pesca; gli toccava di far la guardia ai fidanzati, poiché quella scimunita di donna Rosolina non s’era voluta prestare neanche a questo: prima perché nubile (e il suo pudore si sarebbe scottato al fuoco dell’amore di quei due), poi perché quel forestiere le incuteva soggezione..

             – Avete paura che vi mangi? – le gridava don Paranza. – Siete un mucchio d’ossa, volete capirlo?

             Non voleva capirlo, donna Rosolina. E non s’era voluta disfare di nulla, in quella occasione, neppur d’un anellino, fra tanti che ne aveva, per dimostrare in qualche modo il suo compiacimento alla nipote.

             – Poi, poi, – diceva.

             Giacché pure, per forza, un giorno o l’altro, Venerina sarebbe stata l’erede di tutto quanto ella possedeva: della casa, del poderetto lassù, sotto il Monte Cioccafa, degli ori e della mobilia e anche di quelle otto coperte di lana che ella aveva intrecciate con le sue proprie mani, nella speranza non ancora svanita di schiacciarvi sotto un povero marito.

             Don Paranza era indignato di quella tirchieria; ma non voleva che Venerina mancasse di rispetto alla zia.

             – È sorella di tua madre! Io poi me ne debbo andare prima di lei, per legge di natura, e da me non hai nulla da sperare. Lei ti resterà, e bisogna che te la tenga cara. Le farai fare un po’ di corte da tuo marito, e vedrai che gioverà. Del resto, per quel poco che il Signore può badare a uno sciocco come me, stai sicura che ci ajuterà.

             Erano venuti, infatti, dal consolato della Norvegia quei pochi quattrinucci per il mantenimento prestato al Cleén. Aveva potuto così comperare alcuni modesti mobili, i più indispensabili, per metter su, alla meglio, la casa degli sposi. Erano anche arrivate da Trondhjem le carte del Cleen.

             Venerina era così lieta e impaziente, quella mattina, di mostrare al fidanzato la loro nuova casetta già messa in ordine! Ma, poco dopo, quando il vaporetto finalmente si fu ormeggiato nel Molo e il Cleen potè scenderne, quella sua gioja fu improvvisamente turbata dalla stizza, udendo il saluto che gli altri marinai rivolgevano, quasi miagolando, al suo fidanzato:

             –    Bon don! Bon cion!

             –    Brutti imbecilli! – disse tra i denti, voltandosi a fulminarli con gli occhi. Il Cleen sorrideva, e Venerina si stizzì allora maggiormente.

             –    Ma non sei buono da rompere il grugno a qualcuno, di’ un po’? Ti lasci canzonare così, sorridendo, da questi mascalzoni?

             –    Eh via! – disse don Paranza. – Non vedi che scherzano, tra compagni?

             –    E io non voglio! – rimbeccò Venerina, accesa di sdegno. – Scherzino tra loro, e non, stupidamente, con un forestiere che non può loro rispondere per le rime.

             Si sentiva, quasi quasi, messa in berlina anche lei. Il Cleen la guardava, e quegli sguardi fieri gli parevano vampate di passione per lui: gli piaceva quello sdegno; ma ogni qualvolta gli veniva di manifestarle ciò che sentiva o di confidarle qualcosa, gli pareva d’urtare contro un muro, e taceva e sorrideva, senza intendere che quella bontà sorridente, in certi casi, non poteva piacere a Venerina.

             Era colpa sua, intanto, se gli altri erano maleducati? se egli ancora non poteva uscire per le strade, che subito una frotta di monellacci non lo attorniasse? Minacciava, e faceva peggio: quelli si sbandavano con grida e lazzi e rumori sguajati.

             Venerina n’era furibonda.

             –    Storpiane qualcuno! Da’ una buona lezione! È possibile che tu debba diventare lo zimbello del paese?

             –    Bei consigli! – sbuffava don Pietro. – Invece di raccomandargli la prudenza!

             –    Con questi cani? Il bastone ci vuole, il bastone!

             –    Smetteranno, smetteranno, sta’ quieta, appena L’arso avrà imparato.

             –    Lars! – gridava Venerina, infuriandosi ora anche contro lo zio che chiamava a quel modo il fidanzato, come tutto il paese.

             –    Ma se è lo stesso! – sospirava, seccato, don Pietro, alzando le spalle.

             –    Cambiati codesto nome! – ripigliava Venerina, esasperata, rivolta al Cleen. – Bel piacere sentirsi chiamare la moglie de L’arso!

             –    E non ti chiamano adesso la nipote di Don Paranza? Che male c’è? Lui L’arso, e io, Paranza. Allegramente!

             Non rideva più, ora, Venerina nell’insegnare al fidanzato la propria lingua: certe bili anzi ci pigliava!

             – Vedi? – gli diceva. – Si sa che ti burlano, se dici così! Chiaro, chiaro! Ci vuol tanto, Maria Santissima?

             Il povero Cleen – che poteva fare? – sorrideva, mansueto, e si provava a pronunziar meglio. Ma poi, dopo due giorni, doveva ripartire; e di quelle lezioni, così spesso interrotte, non riusciva a profittare quanto Venerina avrebbe desiderato.

             – Sei come l’uovo, caro mio!

             Questi dispettucci parevano puerili a don Pietro, condannato a far la guardia, e se ne infastidiva. La sua presenza intanto impacciava peggio il Cleen, che non arrivava ancora a comprendere perché ci fosse bisogno di lui: non era egli il fidanzato di Venerina? non poteva uscir solo con lei a passeggiare lassù, su l’altipiano, in campagna? Lo aveva proposto un giorno; ma dalla stessa Venerina si era sentito domandare:

             –    Sei pazzo?

             –    Perché?

             –    Qua i fidanzati non si lasciano soli, neppure per un momento.

             –   Ci vuole il lampione! – sbuffava don Pietro.

             E il Cleen s’avviliva di tutte queste costrizioni, che gli ammiserivano lo spirito e lo intontivano. Cominciava a sentire una sorda irritazione, un segreto rodio, nel vedersi trattato, in quel paese, e considerato quasi come uno stupido, e temeva di istupidirsi davvero.

*******

             VII. Ma che non fosse stupido, lo sapeva bene padron Di Nica, dal modo con cui gli disimpegnava le commissioni e gli affari con quei ladri agenti di Tunisi e di Malta. Non voleva dirlo – al solito – non per negare il merito e la lode, ma per le conseguenze della lode, ecco.

             Credette tuttavia di dimostrargli largamente quanto fosse contento di lui con l’accordargli dieci giorni di licenza, nell’occasione del matrimonio.

             –   Pochi, dieci giorni? Ma bastano, caro mio! – disse a don Pietro che se ne mostrava mal contento. – Vedrai, in dieci giorni, che bel figliuolo maschio ti mettono su! Potrei al massimo concedere che, rimbarcandosi, si porti la sposa a Tunisi e a Malta, per un viaggetto di nozze. E giovine serio: mi fido. Ma non potrei di più.

             Spiritò alla proposta di don Pietro di far da testimonio nelle nozze.

             –   Non per quel buon giovine, capirai; ma se, Dio liberi, mi ci provassi una volta, non farei più altro in vita mia. Niente, niente, caro Pietro! Manderò alla sposa un regaluccio, in considerazione della nostra antica amicizia, ma non lo dire a nessuno: mi raccomando !

             Dal canto suo, la zia donna Rosolina si strizzò, si strizzò in petto il buon cuore che Dio le aveva dato e venne fuori con un altro regaluccio a Venerina: un pajo d’orecchini a pendaglio, del mille e cinque. Faceva però la finezza di offrire agli sposi, per quei dieci giorni di luna di miele, la sua campagna sotto il Monte Cioccafa.

             –   Purché, la mobilia, mi raccomando!

             Camminavano sole quelle quattro seggiole sgangherate, a chiamarle col frullo delle dita, dai tanti tarli che le popolavano! E il tanfo di rinchiuso in quella decrepita stamberga, perduta tra gli alberi lassù, era insopportabile.

             Subito Venerina, arrivata in carrozza con lo sposo, e i due zii, dopo la celebrazione del matrimonio, corse a spalancare tutti i balconi e le finestre.

             –    Le tende! I cortinaggi! – strillava donna Rosolina, provandosi a correr dietro l’impetuosa nipote.

             –    Lasci che prendano un po’ d’aria! Guardi guardi come respirano! Ah che delizia!

             –    Sì, ma, con la luce, perdono il colore.

             –    Non sono di broccato, zia!

             Quell’oretta passata lassù con gli sposi fu un vero supplizio per donna Rosolina. Soffrì nel veder toccare questo o quell’oggetto, come se si fosse sentita strappare quei mezzi riccetti unti di tintura che le virgolavano la fronte; soffrì nel vedere entrare coi pesanti scarponi ferrati la famiglia del garzone per porgere gli omaggi agli sposini.

             Stava quel garzone a guardia del podere e abitava con la famiglia nel cortile acciottolato della villa, con la cisterna in mezzo, in una stanzaccia buja: casa e stalla insieme. Perplesso, se avesse fatto bene o male, recava in dono un paniere di frutta fresche.

             Lars Cleen contemplava stupito quegli esseri umani che gli parevano d’un altro mondo, vestiti a quel modo, così anneriti dal sole. Gli parevano siffattamente strani e diversi da lui, che si meravigliava poi nel veder loro battere le palpebre, com’egli le batteva, e muovere le labbra, com’egli le moveva. Ma che dicevano?

             Sorridendo, la moglie del garzone annunziava che uno dei cinque figliuoli, il secondo, aveva le febbri da due mesi e se ne stava lì, su lo strame, come un morticino.

             – Non si riconosce più, figlio mio!

             Sorrideva, non perché non ne sentisse pena, ma per non mostrare la propria afflizione mentre i padroni erano in festa.

             – Verrò a vederlo, – le promise Venerina.

             – Nonsi! Che dice, Voscenza  – esclamò angustiata la contadina. – Ci lasci stare, noi poveretti, Voscenza, goda. Che bello sposo! Ci crede che non ho il coraggio di guardarlo?

             –    E me? – domandò don Paranza. – Non sono bello io? E sono pure sposo, oh! di donna Rosolina. Due coppie!

             –    Zitto là – gridò questa, sentendosi tutta rimescolare. – Non voglio che si dicano neppure per ischerzo, certe cose!

             Venerina rideva come una matta.

             – Sul serio! sul serio! – protestava don Pietro.

             E insistette tanto su quel brutto scherzo, per far festa alla nipote, che la zitellona non volle tornarsene sola con lui, in carrozza, al paese. Ordinò al garzone che montasse in cassetta, accanto al cocchiere.

             –    Le male lingue… non si sa mai! con un mattacelo come voi.

             –    Ah, cara donna Rosolina! che ne volete più di me, ormai? non posso farvi più nulla io! – le disse don Pietro in carrozza, di ritorno, scotendo la testa e soffiando per il naso un gran sospiro, come se si sgonfiasse di tutta quell’allegria dimostrata alla nipote. – Vorrei aver fatto felice quella povera figliuola!

             Gli pareva di aver raggiunto ormai lo scopo della sua lunga, travagliata, scombinata esistenza. Che gli restava più da fare ormai? mettersi a disposizione della morte, con la coscienza tranquilla, sì, ma angosciata. Altri quattro giorni di noja… e poi, lì…

             La carrozza passava vicino al camposanto, aereo su l’altipiano che rosseggiava nei fuochi del tramonto.

             – Lì, e che ho concluso?

             Donna Rosolina, accanto a lui, con le labbra appuntite e gli occhi fissi, acuti, si sforzava d’immaginare che cosa facessero in quel momento gli sposi, rimasti soli, e dominava le smanie da cui si sentiva prendere e che si traducevano in acre stizza contro quell’omaccio, ormai vecchio, che le stava a fianco. Si voltò a guardarlo, lo vide con gli occhi chiusi: credette che dormisse.

             – Su, su, a momenti siamo arrivati.

             Don Pietro riaprì gli occhi rossi di pianto contenuto, e brontolò:

             – Lo so, sposina. Penso ai gronghi di questa sera. Chi me li cucina?

*******

             VIII. Superato il primo impaccio, vivissimo, della improvvisa intrinsechezza più che ogni altra intima, con un uomo che le pareva ancora quasi piovuto dal cielo, Venerina prese a proteggere e a condurre per mano, come un bambino, il marito incantato dagli spettacoli che gli offriva la campagna, quella natura per lui così strana e quasi violenta.

             Si fermava a contemplare a lungo certi tronchi enormi, stravolti, d’olivi, pieni di groppi, di sproni, di giunture storpie, nodose, e non rifiniva d’esclamare:

             – Il sole! il sole! – come se in quei tronchi vedesse viva, impressa, tutta quella cocente rabbia solare, da cui si sentiva stordito e quasi ubriacato.

             Lo vedeva da per tutto, il sole, e specialmente negli occhi e nelle labbra ardenti e succhiose di Venerina, che rideva di quelle sue meraviglie e lo trascinava via, per mostrargli altre cose che le parevano più degne d’esser vedute: la grotta del Cioccafa, per esempio. Ma egli si arrestava, quando ella se l’aspettava meno, davanti a certe cose per lei così comuni.

             – Ebbene, fichi d’India. Che stai a guardare?

             Proprio un fanciullo le pareva, e gli scoppiava a ridere in faccia, dopo averlo guardato un po’, così allocchito per niente! e lo scoteva, gli soffiava sugli occhi, per rompere quello stupore che talvolta lo rendeva attonito.

             –   Svegliati ! svegliati !

             E allora egli sorrideva, la abbracciava, e si lasciava condurre, abbandonato a lei, come un cieco.

             Ricadeva sempre a parlarle, con le stesse frasi d’orrore, della famiglia del garzone, a cui entrambi avevano fatto la visita promessa. Non si poteva dar pace che quella gente abitasse lì, in quella stanzaccia, ch’era divenuta quasi una grotta fumida e fetida, e invano Venerina gli ripeteva:

             –    Ma se togli loro l’asino, il porcellino e le galline dalla camera, non vi possono più dormire in pace. Devono star lì tutti insieme; fanno una famiglia sola.

             –    Orribile! orribile! – esclamava egli, agitando in aria le mani.

             E quel povero ragazzo, lì, sul pagliericcio per terra, ingiallito dalle febbri continue e quasi ischeletrito? Lo curavano con certi loro decotti infallibili. Sarebbe guarito, come erano guariti gli altri. E, intanto, il poverino, che pena! se ne stava a rosicchiare, svogliato, un tozzo di pan nero.

             –   Non ci pensare! – gli diceva Venerina, che pur se ne affliggeva, ma non tanto, sapendo che la povera gente vive così. Credeva che dovesse saperlo anche lui, il marito, e perciò, nel vederlo così afflitto, sempre più si raffermava nell’idea che egli fosse di una bontà non comune, quasi morbosa, e questo le dispiaceva.

             Passarono presto quei dieci giorni in campagna. Ritornati in paese, Venerina accompagnò fino al vaporetto il marito, ma non volle imbarcarsi con lui per il viaggio di nozze concesso dal Di Nica.

             Don Pietro ve la spingeva.

             –   Vedrai Tunisi, che quei cari nostri fratelli francesi, sempre aggraziati, ci hanno presa di furto. Vedrai Malta, dove tuo zio bestione andò a rovinarsi. Magari potessi venirci anch’io! Vedresti di che cuore mi schiaffeggerei, se m’incontrassi con me stesso per le vie de La Valletta, com’ero allora, giovane patriota imbecille.

             No, no; Venerina non volle saperne: il mare le faceva paura, e poi si vergognava, in mezzo a tutti quegli uomini.

             –   E non sei con tuo marito? – insisteva don Pietro. – Tutte così, le nostre donne! Non debbono far mai piacere ai loro uomini. Tu che ne dici? – domandava al Cleen.

             Non diceva nulla, lui: guardava Venerina col desiderio di averla con sé, ma non voleva che ella facesse un sacrifizio o che avesse veramente a soffrire del viaggio.

             –   Ho capito! – concluse don Paranza, – sei un gran babbalacchìo!

             Lars non comprese la parola siciliana dello zio, ma sorrise vedendo riderne tanto Venerina. E, poco dopo, partì solo.

             Appena si fu allontanato dal porto, dopo gli ultimi saluti col fazzoletto alla sposa che agitava il suo dalla banchina del Molo e ormai quasi non si distingueva più, egli provò istintivamente un gran sollievo, che pur lo rese più triste, a pensarci. S’accorse ora, lì, solo davanti allo spettacolo del mare, d’aver sofferto in quei dieci giorni una grande oppressione nell’intimità pur tanto cara con la giovane sposa. Ora poteva pensare liberamente, espandere la propria anima, senza dover più sforzare il cervello a indovinare, a intendere i pensieri, i sentimenti di quella creatura tanto diversa da lui e che tuttavia gli apparteneva così intimamente.

             Si confortò sperando che col tempo si sarebbe adattato alle nuove condizioni d’esistenza, si sarebbe messo a pensare, a sentire come Venerina, o che questa, con l’affetto, con l’intimità sarebbe riuscita a trovar la’ via fino a lui per non lasciarlo più solo, così, in quell’esilio angoscioso della mente e del cuore.

             Venerina e lo zio, intanto, parlavano di lui nella nuova casetta, in cui anche don Pietro aveva preso stanza.

             –   Sì, – diceva lei, sorridendo, – è proprio come tu hai detto!

             – Babbalacchio? Minchione? – domandava don Paranza. – Va’ là, è buono, è buono…

             –    E buono che significa, zio? – osservava, sospirando, Venerina.

             –    Quest’è vero! – riconosceva don Pietro. – Infatti, i birbaccioni, oggi, si chiamano uomini accorti, e tuo zio per il primo li rispetta. Ma speriamo che l’aria del nostro mare, che dev’essere, sai, più salato di quello del suo paese, gli giovi. Ho gran paura anch’io, però, che somigli troppo a me, quanto a giudizio.

             Gli si era affezionato, lui, don Pietro, ma non si proponeva, neppure per curiosità, di cercar d’indovinare com’egli la pensasse, né gli veniva in mente di consigliarlo a Venerina.

             – Vedrai, – anzi le diceva, – vedrai che a poco a poco prenderà gli usi del nostro paese. Testa, ne ha.

             Prima di partire, il Cleen aveva suggerito a Venerina di non lasciar andar più il vecchio zio alla pesca; ma don Pietro, non solo non volle saperne, ma anche s’arrabbiò:

             –    Non sapete più che farvene adesso de’ miei gronghi? Bene, bene. Me li mangerò io solo.

             –    Non è per questo, zio! – esclamò Venerina.

             –    E allora volete farmi morire? – riprese don Paranza. – C’era ai miei tempi un povero contadino che aveva novantacinque anni, e ogni santa mattina saliva dalla campagna a Girgenti con una gran cesta d’erbaggi su le spalle, e andava tutto il giorno in giro per venderli. Lo videro così vecchio, ne sentirono pietà, pensarono di ricoverarlo all’ospedale e lo fecero morire dopo tre giorni. L’equilibrio, cara mia! Toltagli la cesta dalle spalle, quel poveretto perdette l’equilibrio e morì. Così io, se mi togliete la lenza. Gronghi han da essere: stasera e domani sera e fin che campo.

             E se ne andava con gli attrezzi e col lanternino alla scogliera del porto.

             Sola, Venerina si metteva anche a pensare al marito lontano. Lo aspettava con ansia, sì, in quei primi giorni; ma non sapeva neppur desiderarlo altrimenti che così; due giorni in casa e il resto della settimana fuori; due giorni con lui, e il resto della settimana, sola, ad aspettare ogni sera che lo zio tornasse dalla pesca; e poi, la cena; e poi, a letto, sì, sola. Si contentava? No. Neppure lei, così. Troppo poco… E restava a lungo assorta in una segreta aspettazione, che pure le ispirava una certa ambascia, quasi di sgomento.

             – Quando?

*******

             IX. – Ih, che prescia! – esclamò don Paranza, appena si accorse delle prime nausee, dei primi capogiri. – Lo previde quel boja d’Agostino! Di’ un po’,hai avuto paura che tuo zio non ci arrivasse a sentire la bella musica del gattino?

             – Zio! – gli gridò Venerina, offesa e sorridente.

             Era felice: le era venuto il da fare, in quelle lunghe sere nella casa sola: cuffiette, bavaglini, fasce, carnicine… – e non le sere soltanto. Non ebbe più tempo né voglia di curarsi di sé, tutta in pensiero già per l’angioletto che sarebbe venuto, – dal cielo, zia Rosolina! dal cielo! – gridava alla zitellona pudibonda, abbracciandola con furia e scombinandola tutta.

             – E me lo terrà lei a battesimo, lei e zio Pietro!

             Donna Rosolina apriva e chiudeva gli occhi, mandava giù saliva, con l’angoscia nel naso, fra le strette di quella santa figliuola che pareva impazzita e non aveva nessun riguardo per tutti i suoi cerotti.

             –    Piano piano, sì, volentieri. Purché gli mettiate un nome cristiano. Io non lo so ancora chiamare tuo marito.

             –    Lo chiami L’arso, come lo chiamano tutti! – le rispondeva ridendo Venerina. – Non me n’importa più, adesso!

             Non le importava più di niente, ora: non s’acconciava neppure un pochino, quand’egli doveva arrivare.

             – Rifatti un po’ i capelli, almeno! – le consigliava donna Rosolina. – Non stai bene, così.

             Venerina scrollava le spalle:

             – Ormai! Chi n’ha avuto, n’ha avuto. Così, se mi vuole! E se non mi vuole, mi lasci in pace: tanto meglio!

             Era così esclusiva la gioja di quella sua nuova attesa, che il Cleen non si sentiva chiamato a parteciparne, come di gioja anche sua: si sentiva lasciato da parte, e n’era lieto soltanto per lei quasi che il figlio nascituro non dovesse appartenere anche a lui, nato lì in quel paese non suo, da quella madre che non si curava neppure di sapere quel che egli ne sentisse e ne pensasse.

             Lei aveva già trovato il suo posto nella vita: aveva la sua casetta, il marito; tra breve avrebbe avuto anche il figlio desiderato; e non pensava che lui, straniero, era sul principio di quella sua nuova esistenza e aspettava che ella gli tendesse la mano per guidarlo. Non curante, o ignara, lei lo lasciava lì, alla soglia, escluso, smarrito.

             E ripartiva, e lontano, per quel mare, su quel guscio di noce, si sentiva sempre più solo e più angosciato. I compagni, nel vederlo così triste, non lo deridevano più come prima, è vero, ma non si curavano di lui, proprio come se non ci fosse; nessuno gli domandava: «Che hai?». Era il forestiere. Chi sa com’era fatto e perché era così!

             Non se ne sarebbe afflitto tanto, egli, se anche a casa sua, come lì sul vaporetto, non si fosse sentito estraneo. Casa sua? Questa, in quel borgo di Sicilia? No, no! Il cuore gli volava ancora lontano, lassù, al paese natale, alla casa antica, ove sua madre era morta, ove abitava la sorella, che forse in quel punto pensava a lui e forse lo credeva felice.

*******

             X. Una speranza ancora resisteva in lui, ultimo argine, ultimo riparo contro la malinconia che lo invadeva e lo soffocava: che si vedesse, che si riconoscesse nel suo bambino appena nato e si sentisse in lui, e con lui, lì, in quella terra d’esilio, meno solo, non più solo.

             Ma anche questa speranza gli venne subito meno, appena guardato il figlioletto, nato di due giorni, durante la sua assenza. Somigliava tutto alla madre.

             – Nero, nero, povero ninno mio! Sicilianaccio – gli disse Venerina dal letto, mentre egli lo contemplava, deluso, nella cuna. – Richiudi la cortina. Me lo farai svegliare. Non mi ha fatto dormire tutta la notte, poverino: ha le dogliette. Ora riposa, e io vorrei profittarne.

             Il Cleen baciò in fronte, commosso, la moglie: riaccostò gli scuri e uscì dalla camera in punta di piedi. Appena solo, si premette le mani sul volto e soffocò il pianto irrompente.

             Che sperava? Un segno, almeno un segno in quell’esseruccio, nel colore degli occhi, nella prima peluria del capo, che lo palesasse suo, straniero anche lui, e che gli richiamasse il suo paese lontano. Che sperava? Quand’anche, quand’anche, non sarebbe forse cresciuto lì, come tutti gli altri ragazzi del paese, sotto quel sole cocente, con quelle abitudini di vita, alle quali egli si sentiva estraneo, allevato quasi soltanto dalla madre e perciò con gli stessi pensieri, con gli stessi sentimenti di lei? Che sperava? Straniero, straniero anche per suo figlio.

             Ora, nei due giorni che passava in casa, cercava di nascondere il suo animo; né gli riusciva difficile, poiché nessuno badava a lui: don Pietro se n’andava al solito alla pesca, e Venerina era tutta intenta al bambino, che non gli lasciava neppur toccare:

             – Me io fai piangere… Non sai tenerlo! Via, via, esci un po’ di casa. Che stai a guardarmi? Vedi come mi sono ridotta? Su, va’ a fare una visita alla zia Rosolina, che non viene da tre giorni. Forse vuol fatta davvero la corte, come dice zio Pietro.

             Ci andò una volta il Cleen, per far piacere alla moglie, ma ebbe dalla zitellona tale accoglienza, che giurò di non ritornarci più, né solo né accompagnato.

             –   Solo, gnomo, – gli disse donna Rosolina, vergognosa e stizzita, con gli occhi bassi. – Mi dispiace, ma debbo dirvelo. Nipote, capisco; siete mio nipote, ma la gente vi sa forestiere, con certi costumi curiosi, e chi sa che cosa può sospettare. Solo, gnomo. Verrò io più tardi a casa vostra, se non volete venire qua con Venerina.

             Si vide, così, messo alla porta, e non seppe, né potè riderne come Venerina, quand’egli le raccontò l’avventura. Ma se ella sapeva che quella vecchia era così fastidiosamente matta, perché spingerlo a fargli fare quella ridicola figura? voleva forse ridere anche lei alle sue spalle? – No.

             – E difficile, lo so: siamo orsi, caro mio! Tu poi sei così, ancora come una mosca senza capo. Non ti vuoi svegliare? Va’ a trovare lo zio, almeno: sta al porto. Tra voi uomini, v’intenderete. Io sono donna, e non posso tenerti conversazione: ho tanto da fare!

             Egli la guardava, la guardava e gli veniva di domandarle: «Non mi ami più?». Venerina, sentendo che non si moveva, alzava gli occhi dal cucito, lo vedeva con quell’aria smarrita e rompeva in una gaja risata:

             – Che vuoi da me? Un omaccione tanto, che se ne sta in casa come un ragazzino, Dio benedetto! Impara un po’ a vivere come i nostri uomini: più fuori che dentro. Non posso vederti così. Mi fai rabbia e pena.

             Fuori non lo vedeva. Ma dall’aria triste, con cui egli si disponeva a uscire, cacciato così di casa, come un cane caduto in disgrazia, avrebbe potuto argomentare come egli si trascinasse per le vie del paese, in cui la sorte lo aveva gettato, e che egli già odiava.

             Non sapendo dove andare, si recava all’agenzia del Di Nica. Trovava ogni volta il vecchio dietro gli scritturali, col collo allungato e gli occhiali su la punta del naso, per vedere che cosa essi scrivessero nei registri. Non perché diffidasse, ma, chi sa! si fa presto, per una momentanea distrazione, a scrivere una cifra per un’altra, a sbagliare una somma; e poi, per osservare la calligrafia, ecco. La calligrafia era il suo debole: voleva i registri puliti. Intanto in quella stanzetta umida e buja, a pian terreno, certi giorni, alle quattro, ci si vedeva a mala pena: si dovevano accendere i lumi.

             –    È una vergogna, padron Di Nica! Con tanti bei denari…

             –    Quali denari? – domandava il Di Nica. – Se me li date voi! E poi, niente! Qua ho cominciato; qua voglio finire.

             Vedendo entrare il Cleen, si angustiava: – Emo’? Emo’? Emo’?

             Gli andava incontro, col capo reclinato indietro per poter guardare attraverso gli occhiali insellati su la punta del naso, e diceva:

             – Che cosa volete, figlio mio? Niente? E allora, prendetevi una seggiola, e sedete là, fuori della porta.

             Temeva che gli scritturali si distraessero davvero, e poi non voleva che colui sapesse gli affari dell’agenzia prima del viaggio.

             Il Cleen sedeva un po’ lì, su la porta. Nessuno, dunque, lo voleva? Già egli non portava più il berretto di pelo; era vestito come tutti gli altri; eppure, ecco, la gente si voltava a osservarlo, quasi che egli si tenesse esposto lì, davanti all’agenzia; e a un tratto si vedeva girar innanzi su le mani e sui piedi, a ruota, un monellaccio, che per quella bravura da pagliaccetto gli chiedeva poi un soldo; e tutti ridevano.

             – Che c’è? che c’è? – gridava padron Di Nica, facendosi alla porta. – Teatrino? Marionette?

             I monellacci si sbandavano urlando, fischiando.

             – Caro mio, – diceva allora il Di Nica al Cleen, – voi lo capite, sono selvaggi. Andatevene; fatemi questo piacere.

             E il Cleen se ne andava. Anche quel vecchio, con la sua tirchieria diffidente, gli era venuto in uggia. Si recava su la spiaggia, tutta ingombra di zolfo accatastato, e con un senso profondo d’amarezza e di disgusto assisteva alla fatica bestiale di tutta quella gente, sotto la vampa del sole. Perché, coi tesori che si ricavavano da quel traffico, non si pensava a far lavorare più umanamente tutti quegli infelici ridotti peggio delle bestie da soma? Perché non si pensava a costruire le banchine su le due scogliere del nuovo porto, dove si ancoravano i vapori mercantili? Da quella banchine non si sarebbe fatto più presto l’imbarco dello zolfo, coi carri o coi vagoncini?

             – Non ti scappi mai di bocca una parola su questo argomento! – gli raccomandò don Paranza, una sera, dopo cena. – Vuoi finire come Gesù Cristo? Tutti i ricchi del paese hanno interesse che le banchine non siano costruite, perché sono i proprietarii delle spigonare, che portano lo zolfo dalla spiaggia sui vapori. Bada, sai! Ti mettono in croce.

             Sì, e intanto su la spiaggia nuda, tra i depositi di zolfo, correvano scoperte le fogne, che appestavano il paese; e tutti si lamentavano e nessuno badava a provveder d’acqua sufficiente il paese assetato. A che serviva tutto quel denaro con tanto accanimento guadagnato? Chi se ne giovava? Tutti ricchi e tutti poveri! Non un teatro, né un luogo o un mezzo di onesto svago, dopo tanto e così enorme lavoro. Appena sera, il paese pareva morto, vegliato da quei quattro lampioncini a petrolio. E pareva che gli uomini, tra le brighe continue e le diffidenze di quella guerra di lucro, non avessero neanche tempo di badare all’amore, se le donne si mostravano così svogliate, neghittose. Il marito era fatto per lavorare; la moglie per badare alla casa e far figliuoli. «Qua?», pensava il Cleen, «qua, tutta la vita?» E si sentiva stringere la gola sempre più da un nodo di pianto.

*******

             XI. – L’Hammerfest! arriva l’Hammerfest! corse ad annunziare a Venerina don Paranza, tutto ansante. – Ho l’avviso, guarda: arriverà oggi! E L’arso è partito. Porco diavolo! Chi sa se farà a tempo a rivedere il cognato e gli amici ! Scappò dal Di Nica, con l’avviso in mano:

             – Agostino, l’Hammerfest!

             Il Di Nica lo guardò, come se lo credesse ammattito.

             –    Chi è? Non lo conosco!

             –    Il vapore di mio nipote.

             –    E che vuoi da me? Salutamelo!

             Si mise a ridere, con gli occhi chiusi, d’una sua speciale risatina nel naso, sentendo le bestialità che scappavano a don Pietro nel tumultuoso dispiacere che gli cagionava quel contrattempo.

             –    Se si potesse…

             –    Eh già! – gli rispose il Di Nica. – Detto fatto. Ora telegrafo a Tunisi, e lo faccio tornare a rotta di collo. Non dubitare.

             –    Sempre grazioso sei stato! – gli gridò don Paranza, lasciandolo in asso. – Quanto ti voglio bene!

             E tornò a casa, a pararsi, per la visita a bordo. Su L’Hammerfest, appena entrato in porto, fu accolto con gran festa da tutti i marinai compagni del Cleen. Egli, che per gli affari del viceconsolato se la sbrigava con quattro frasucce solite, dovette quella volta violentare orribilmente la sua immaginaria conoscenza della lingua francese, per rispondere a tutte le domande che gli venivano rivolte a tempesta sul Cleen; e ridusse in uno stato compassionevole la sua povera camicia inamidata, tanto sudò per lo stento di far comprendere a quei diavoli che egli propriamente non era il suocero de L’arso, perché la sposa di lui non era propriamente sua figlia, quantunque come figlia la avesse allevata fin da bambina. Non lo capirono, o non vollero capirlo. – Beau-père! Beau-père!

              –   E va bene! – esclamava don Paranza. – Sono diventato beau-père!

             Non sarebbe stato niente se, in qualità di beau-père, non avessero voluto ubriacarlo, non ostante le sue vivaci proteste:

             –   Je ne boìs pas de vin.

             Non era vino. Chi sa che diavolo gli avevano messo in corpo. Si sentiva avvampare. E che enorme fatica per far entrare in testa a tutto l’equipaggio che voleva assolutamente conoscere la sposina, che non era possibile, così, tutti insieme!

             –   Il solo beau-frère! il solo beau-frère! Dov’è? Vous seulement! Venez! veneti

             E se lo condusse in casa. Il cognato non sapeva ancora della nascita del bambino: aveva recato soltanto alla sposa alcuni doni, per incarico della moglie lontana. Era dispiacentissimo di non poter riabbracciare Lars. Fra tre giorni l’Hammerfest doveva ripartire per Marsiglia.

             Venerina non potè scambiare una parola con quel giovine dalla statura gigantesca, che le richiamò vivissimo alla memoria il giorno che Lars era stato portato su la barella, moribondo, nell’altra casa dello zio. Sì, a lui ella aveva recato l’occorrente per scrivere quella lettera all’abbandonato; da lui aveva ricevuto la borsetta, e per averlo veduto piangere a quel modo ella s’era presa tanta cura del povero infermo. E ora, ora Lars era suo marito, e quel colosso biondo e sorridente, chino su la culla, suo parente, suo cognato. Volle che lo zio le ripetesse in siciliano ciò che egli diceva per il piccino,   –   Dice che somiglia a te, – rispose don Paranza. – Ma non ci credere, sai: somiglia a me, invece.

             Con quella porcheria che gli avevano cacciato nello stomaco, a bordo, se lo lasciò scappare, don Paranza. Non voleva mostrare il tenerissimo affetto che gli era nato per quel bimbo, ch’egli chiamava gattino. Venerina si mise a ridere.

             –    Zio, e che dice adesso? – gli domandò poco dopo, sentendo parlare lo straniero, suo cognato.

             –    Abbi pazienza, figlia mia! – sbuffò don Paranza. – Non posso attendere a tutt’e due… Ah, Oui… L’arso, sì. Dommage! che rabbia, dice… Eh! certo, non sarà possibile vederlo… se il capitano, capisci?… già! già! oui… Engagement… impegni commerciali, capisci! Il vapore non può aspettare.

             Eppure quest’ultimo strazio non fu risparmiato al Cleen. Per un ritardo nell’arrivo delle polizze di carico, l’Hammerfest dovette rimandare d’un giorno la partenza. Si disponeva già a salpare da Porto Empedocle, quando il vaporetto del Di Nica entrò nel Molo.

             Lars Cleen si precipitò su una lancia, e volò a bordo del suo piroscafo, col cuore in tumulto. Non ragionava più! Ah, partire, fuggire coi suoi compagni, parlare di nuovo la sua lingua, sentirsi in patria, lì, sul suo piroscafo – eccolo! grande! bello! – fuggire da quell’esilio, da quella morte! – Si buttò tra le braccia del cognato, se lo strinse a sé fin quasi a soffocarlo, scoppiando irresistibilmente in un pianto dirotto.

             Ma quando i compagni intorno gli chiesero, costernati, la cagione di quel pianto convulso, egli rientrò in sé, mentì, disse che piangeva soltanto per la gioja di rivederli.

             Solo il cognato non gli chiese nulla: gli lesse negli occhi la disperazione, il violento proposito con cui era volato a bordo, e lo guardò per fargli intendere che egli aveva compreso. Non c’era tempo da perdere: sonava già la campana per dare il segno della partenza.

             Poco dopo Lars Cleen dalla lancia vedeva uscire dal porto l’Hammerfest e lo salutava col fazzoletto bagnato di lagrime, mentre altre lagrime gli sgorgavano dagli occhi, senza fine. Comandò al barcajolo di remare fino all’uscita del porto per poter vedere liberamente il piroscafo allontanarsi man mano nel mare sconfinato, e allontanarsi con lui la sua patria, la sua anima, la sua vita. Eccolo, più lontano… più lontano ancora… spariva…

             – Torniamo? – gli domandò, sbadigliando, il barcajolo.

             Egli accennò di sì, col capo.

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