098. Un matrimonio ideale – Novella

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Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 7 giugno 1914, poi in Tutt’e tre, Bemporad, Firenze 1924.
«Serate africane! Il mare, quand’era scirocco, veniva a frangersi impetuoso sotto quella terrazza bianca, che pareva allora, con le sue tende svolazzanti, una tolda di nave. S’intravedevano i fanali del vecchio molo, la lanterna verde del faro…»

Novella dalla Raccolta “Tutt’e tre” (1924)

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Un matrimonio ideale
Jean-Frédéric Bazille, Réunion de famille, 1867

Un matrimonio ideale – Audio lettura 1 – Legge Lorenzo Pieri
Un matrimonio ideale – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Un matrimonio ideale – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza
Un matrimonio ideale – Audio lettura 4 – Legge Valter Zanardi

10. Un matrimonio ideale – 1914

             Prima che andasse in Romania, non so per quale impresa, Poldo Carega, ingegnere appaltatore, o – come si qualificava nei biglietti da visita – «intraprenditore di lavori pubblici», ponendosi le due manacce pelose sul petto erculeo soleva dire:

             – Io sono il Continente!

             E, passando le braccia al collo della moglie e della figliuola:

             – E queste le mie isole!

             Perché la moglie era nata in Sicilia, e la figliuola in Sardegna.

             Non s’aspettava, ritornando in Italia dopo circa quattro anni, di ritrovare una delle due isole, la Sardegna (cioè la figliuola Margherita) divenuta… che Russia e Russia, cari miei! diciamo l’Europa; ma è poco! diciamo addirittura il mappamondo.

             Povero Poldo Carega, gli parve un tradimento! Restò dapprima sbalordito, a mirarla da sotto in su:

             – Oh Dio, Margherita, e che hai fatto?

             Poi si voltò contro la moglie, come se per colpa di lei la figliuola fosse tanto cresciuta; e diede in tali escandescenze, che parve volesse impazzire. La moglie, afflittissima, gemeva:

             – Ma se te l’ho scritto e riscritto, Poldo mio, tante volte! Quasi in ogni lettera te l’ho scritto!

             Glielo aveva scritto e riscritto, difatti, sì; ma come avrebbe potuto Poldo Carega creder tanto? Da lontano, quella crescenza prodigiosa della figliuola gli era sembrata una delle solite esagerazioni della moglie.

             – Esagerazioni, eh già! Perché io, per te, sono stata sempre esagerata!

             Era una spina, questa, per la signora Rossana: il concetto, cioè, che tutti, non il marito soltanto, s’erano formato di lei, ch’ella fosse esagerata.

             Questo concetto dipendeva, a suo credere, dalla disgrazia comune a tutta la famiglia, la soverchia altezza.

             Della sua, la signora Rossana aveva un dispetto acerbo e smanioso, perché le impediva di essere, come avrebbe voluto e come dentro di sé si sentiva, una gattina sentimentale. Così lunga, gracile e languida, soffriva, soffriva tanto; ma nessuno voleva credere ai suoi languori, alle sue sofferenze; e tutti, sorridendo, le rispondevano:

             –    Via via, signora Rossana, esagerazioni!

             –    Ebbene, eccotela qua; guardala, ora, la mia esagerazione!

             E la signora Rossana, indignata, indicava al marito la figliuola, ch’era un’esagerazione per davvero.

             Margherita intanto piangeva, guardando il padre, il quale le si era fatto accosto, anzi sotto, per misurare di quanto ella lo avesse superato.

             Per lo meno, d’un palmo e mezzo. Ma pareva del doppio. Perché non era soltanto l’altezza; o piuttosto, l’altezza per se stessa forse non avrebbe tanto avventato, se non l’avesse resa spettacolosa la corpulenza immane, il volume delle guance e dei due menti e del seno e dei fianchi poderosi.

             Nell’esuberanza soffocante di tanta carne si aprivano però, come smarriti, due occhi limpidi e chiari, da bambina, che facevano pena a un tempo e paura. Quella pena stessa, quella stessa paura, che forse doveva provare l’anima di lei per il proprio corpo così enormemente cresciuto. A mano a mano che questo era cresciuto fino ad assumere quelle proporzioni mostruose, l’anima atterrita si doveva certo esser fatta dentro di lei piccina piccina, con certe voglie timide e angosciose di toccare le piccole cose gentili e delicate, ma pur non osando toccarle per non vederle quasi sparire al contatto delle schiaccianti mani.

             Mangiava come un uccellino; si poteva dire che quasi non mangiava più. Ma non giovava a nulla! Da più di due anni non usciva di casa, perché tutti per via si voltavano e si fermavano stupiti a mirarla. In casa, stava quanto più poteva seduta, per non dare a se stessa spettacolo della sua grandezza, vedendo piccoli e bassi tutti gli oggetti delle stanze. Naturalmente, questa mancanza di moto le aveva appesantito sempre più la grassezza; ma ormai ella s’era rassegnata alla sua disgrazia; non voleva più darsi pensiero di nulla; certi giorni nemmeno si pettinava, e rimaneva sdrajata, inerte, a leggere o a guardarsi le unghie. Così…

             Poldo Carega, giovialone, urlone, tutto fuoco prima della partenza per la Romania, diventò, subito dopo il ritorno, un funerale. Andai a trovarlo, pochi giorni dopo, per parlargli d’affari; non volle neanche darmi ascolto.

             – Che vuoi che m’importi più ormai degli affari! – esclamò, scrollandosi tutto. – Non m’importa più di niente, caro mio!

             Aveva lavorato con accanimento tanti e tanti anni per quell’unica figliuola, per l’avvenire di lei; e d’anno in anno il suo amore paterno era cresciuto. Ma ecco che la figliuola, come per una tacita scommessa, approfittando della lunga assenza di lui, d’intesa con la madre (nessuno poteva levare dal capo a Poldo Carega che la moglie non c’entrasse per qualche cosa):

             – Ah, – dice, – cresce il tuo amore per me d’anno in anno? Aspetta, che ti faccio vedere come cresco anch’io in pochi anni! Diventerò così grande, che il tuo amore non potrà più abbracciarmi.

             E, difatti, gli erano cascate le braccia, nel rivederla, povero Poldo Carega! Ma non solo le braccia; l’anima e il fiato gli erano cascati, e tutti i sogni che aveva fatti per lei, tutte le speranze!

             Dico la verità, non ebbi il coraggio di confortarlo. Sapevo che egli, quattr’anni addietro, prima di partire per la Romania, non avrebbe veduto male al suo ritorno, cioè quando la figliuola sarebbe stata in età, un matrimonio di lei con me. Me ne andai ranco ranco, con la coda tra le gambe, appena questo ricordo mi sorse; e, come fui ben lontano, presi a riflettere amaramente:

             «E proprio una sciagura senza rimedio, povero Carega! Egli lo capirà: un uomo della mia statura, e anche un po’ più alto di me, non va a sposare certamente quella colonna, quell’obelisco! Siamo giusti: a parer piccoli, quando non si è, si ribella l’amor proprio mascolino. Dei bassi non ne parliamo. Degli altissimi come lei, già a trovarne uno: si contano su le dita, ma anche a trovarne uno, si sa che gli uomini altissimi hanno un debole per le donne piccoline. Superbi della loro statura, guardano con dispetto, anzi quasi con rancore, quei pochi che possono rivaleggiare con essi, e scoprono subito in loro certi difetti che essi, è ovvio dirlo, non hanno: le gambe troppo lunghe, la testa troppo piccola, ecc. ecc. Insomma, non soffrono rivali; vogliono esser soli. Figuriamoci se sposerebbero una donna della loro statura. E poi, perché? per parere scappati da un baraccone da fiera?».

             Queste riflessioni, come le feci io allora, da un pezzo senza dubbio aveva dovuto farle anche lei, la povera Margherita, per trarne la conseguenza che, nelle supreme regioni a cui per sua disgrazia era ascesa, non avrebbe trovato mai un marito. Un pioppo, sì, un acero, un cerro. Ma ogni giovanotto, guardandola, le avrebbe detto:

             – Cala prima, bella mia, cala! cala!

             E come poteva calare, povera Margherita?

             Non passarono neanche tre mesi dal suo ritorno a Cesena, che Poldo Carega, non reggendogli l’animo di rimanere nella città dove la sua sciagura s’era compiuta così a tradimento, se ne partì con tutta la famiglia, fosco come un temporale; e per più di dieci anni non si ebbero più notizie di lui.

             Finalmente, un bel giorno, giunse a mio padre una lettera da un paesello su la costa meridionale della Sicilia, di fronte all’Africa, dove Poldo Carega s’era recato per la costruzione del porto. Voleva che mio padre gli mandasse laggiù uno dei figliuoli per ajutarlo nell’impresa.

             Andai io, per curiosità di rivedere dopo tanto tempo Margherita.

             M’aspettavo di ritrovarla cupa, gelida, nelle sue superne alture, funebre e ravvolta di nebbie perpetue, poiché già doveva aver presso a trenta anni – e dunque ormai zitellona.

             «Figuriamoci, a dir poco, come la Jungfrau», pensavo, durante il viaggio.

             Ma che! Allegrona la ritrovai, e quasi non sapevo credere ai miei occhi, allegrona, come non l’avevo mai veduta! Più grassa di prima, e allegrona! Non tardai però a scoprire la ragione di tanta allegria.

             Come ingegnere governativo, addetto alla sorveglianza dei lavori del porto, c’era laggiù un certo omino alto poco più d’un metro, calvo, miope, panciutello, ma pieno d’ingegno e di spirito, che rideva lui per primo della sua piccolezza, come Margherita, adesso, della sua altezza: l’ingegnere Cosimo Todi. E quest’ingegnere Cosimo Todi veniva quasi ogni sera con altri amici a cenare su la terrazza a mare di Poldo Carega.

             Serate africane! Il mare, quand’era scirocco, veniva a frangersi impetuoso sotto quella terrazza bianca, che pareva allora, con le sue tende svolazzanti, una tolda di nave. S’intravedevano i fanali del vecchio molo, la lanterna verde del faro: i lumi tra l’alberatura dei bastimenti ormeggiati, e dalla spiaggia esalava quel tanfo denso, caldo, acre di sale e di muffa, delle alghe morte, appacciamate, misto all’odor della pece e del catrame.

             E si chiacchierava, ridendo e bevendo, fino a tardi, su quella terrazza bianca, che dava la sera un delizioso compenso della soffocante calura della giornata.

             Più di tutti Margherita e l’ingegner Cosimo Todi ridevano, capite? della loro disgrazia, ch’era opposta e comune.

             L’ingegner Todi non aveva potuto trovar moglie per la stessa ragione per cui Margherita non aveva potuto trovar marito.

             Veramente lui, l’ingegner Todi, non l’aveva mai cercata, una moglie, sicurissimo che non una ma cento ne avrebbe trovate subito, che se lo sarebbero preso per la lucrosa professione. Ma grazie tante! E poi?

             No no: ingegno, garbo, giovialità (doti tutte, che non aveva nessunissima difficoltà a riconoscersi) non sarebbero bastate (come tante gentili amiche gli volevano far credere) a compensare quei tre palmi di statura che gli mancavano.

             No no: quelle doti in lui potevano aver pregio solo perché egli guadagnava da quaranta a cinquanta mila lire l’anno. E senza dubbio, se si fosse lasciato prendere all’amo, tre mesi dopo, si sarebbe sentito dire dalla moglie che l’ingegno, Dio mio, doveva servirgli per comprendere ch’ella, con un marito come lui, non poteva fare a meno d’un amante, e fingere di non accorgersene, e seguitare ad amarla nonostante il tradimento o i tradimenti. E il garbo e la giovialità, servirgli per aprire la porta e accogliere graziosamente il signore o i signori che gli facevano l’onore di venire a corteggiare la sua signora.

             Queste cose diceva e rappresentava con molta comicità di frasi e di gesti l’ingegner Cosimo Todi, facendo ridere tutti e più di tutti Margherita Carega, che si buttava indietro per far liberamente sobbalzare alle risate l’enorme seno e il ventre.

             Finché una di quelle sere il Todi, per il piacere di vederla ridere così burlescamente non uscì a dire che la moglie ideale per lui sarebbe stata lei, Margherita Carega.

             – Lei! lei, sì! Proprio lei!

             Per miracolo la tavola si tenne su le quattro zampe. La vidi sussultare come per un terremoto, e cader bicchieri e bottiglie.

             – Seriamente, seriamente… – badava a ripetere il Todi coi braccini levati in atto di parare, tra il fragore della risata interminabile. – Vi dico seriamente! Riflettete bene, signori miei. Sarebbe il matrimonio ideale! Una vendetta meravigliosa contro la natura sarebbe! sì! sì! contro la natura che ha fatto lei tanto grande, e me così piccolo! Pensate un po’, pensate un po’: senza far ridere o sbalordire, né io potrei sposare una nana, né lei un gigante! Ma noi due sì; noi due possiamo sposarci benissimo! E saremmo una coppia, se ci ponete mente, perfetta, di perfetta equiparazione; perché lei ha d’avanzo quel tanto che manca a me; e ci compenseremmo a vicenda!

             Non ne potevamo più: avevamo tutti le lacrime agli occhi e ci dolevano i fianchi.

             – Ma avrebbe lei questo coraggio? – gridò il Todi, balzando sulla seggiola e appuntando in atto di sfida l’indice contro Margherita.

             Questa allora sorse in piedi, col faccione congestionato dalle risa. Vi assicuro che era di tutta la testa più alta di lui pur così montato sulla seggiola.

             – Io, il coraggio? – gli disse. – Ma dovrebbe averlo lei, scusi, il coraggio di sposar me!

             Applaudimmo tutti, a lungo, strepitosamente, a questa bella risposta.

             –    Io ce l’ho! – gridò allora il Todi. – Non ce l’avrà lei! Scommettiamo?

             –    Accetti, accetti la scommessa, signorina Margherita! – le gridammo tutti, incitando. – Lo pigli in parola!

             –    Ebbene, sì, accetto! – rispose lei. – Vediamo un po’ chi se ne pente!

             –    Io? Ah, io no, di certo! – esclamò il Todi; e, saltando dalla seggiola, seriissimamente, si fece innanzi a Poldo Carega, s’inchinò e gli disse:

             –    Ho l’onore, ingegner Carega, di chiederle la mano della signorina Margherita, sua figlia.

             Quel che successe, rinunzio a descriverlo. Parevamo tutti impazziti. Era una burla? Era sul serio? Chi sa! Si faceva per burla, come se fosse una cosa seria.

             Si ordinò lo Champagne: l’ingegner Todi fu portato in trionfo a sedere accanto alla gigantesca sposina, e i brindisi alle faustissime nozze non finirono più.

             Così, proposto dapprima per burla, si concluse sul serio quel matrimonio ideale d’un nano con una gigantessa.

             Il coraggio l’una e l’altro non dovevano averlo tanto per sé, cioè per tollerar lei un marito come lui e lui una moglie come lei, quanto per gli altri, voglio dire per resistere alle beffe della gente, che domani li avrebbe visti insieme marito e moglie. Ma l’ingegner Todi e Margherita Carega ebbero tanto spirito da tener fronte a queste beffe e da goderci per giunta, come se veramente fosse un matrimonio per chiasso, di carnevale.

             Vi assicuro però che tutto il paese – naturalmente – da principio ruppe in un’omerica risata, ma poi vide bene e sto per dire che stimò anch’esso ragionevolissima la loro unione, la quale stabiliva tra i due spropositi della natura una specie di equilibrio e come un’equa, per quanto comica, riparazione.

             Sei mesi dopo, il matrimonio fu celebrato. Quell’omino coraggioso, già abbastanza maturo e pur così panciutello com’era, si fece alpinista, voglio dire fece sua, davanti agli uomini e a Dio, quella montagna e… – voi ridete? Ma sappiate, cari miei, che Margherita Todi-Carega ha adesso due figliuoli, nati a un parto… Parturiunt montes…  – Due topi, – voi credete?

             Che topi! A dodici anni, sono già alti quanto la mamma. Ed è raggiante Margherita Todi-Carega: trionfa tra quei due piccoli colossi degni di lei; mentre lui, invece, l’omettino ormai vecchierello – che volete? – soffre, sì, ma non per causa di lei, badiamo! Lei lo ama, lo stima, gli è grata e lo cura; ha proprio tutti i riguardi per lui. Soffre, il povero ingegner Todi, perché naturalmente, con gli anni, gli cominciano a seccare e a pesare un po’ troppo le beffe della gente; teme che lo facciano scapitare di fronte ai figliuoli, da cui vuol essere rispettato, come un padre sul serio.

             I figliuoli lo rispettano; ma via, se vogliamo dire, non è neanche bella la loro condizione con un padre così minuscolo che par fatto e messo su quasi per ischerzo.

             Questa afflizione c’è, innegabilmente. Perché la vita non sa esser tutta e sempre una farsa. Un marito e una moglie possono far ridere finché vogliono; ma la paternità non può non essere una cosa seria.

Raccolta Tutt’e tre
01 – Tutt’e tre – 1913
02 – L’ombra del rimorso – 1914
03 – Il bottone della palandrana – 1913
04 – Marsina stretta – 1904
05 – Il marito di mia moglie – 1903
06 – La maestrina Boccarmè – 1899
07 – Acqua e lì – 1897
08 – Come gemelle – 1903
09 – Filo d’aria – 1914
10 – Un matrimonio ideale – 1914
11 – Ritorno – 1923
12 – Tu ridi – 1912
13 – Un po’ di vino – 1923
14 – La liberazione del re – 1914
15 – I due compari – 1912

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