Di Pietro Seddio.
Mi accorsi, anche, che boicottavano le mie commedie tanto è vero che accorreva sempre meno pubblico con l’aggravarsi della situazione finanziaria e fu per questo che mi allontanai dall’Italia. Iniziò il mio peregrinare per sorreggere le sorti della Compagnia sperando che all’estero avessi maggior fortuna.
Io sono figlio e uomo del Caos
Per gentile concessione dell’ Autore
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Io sono figlio e uomo del Caos
Capitolo 20
L’interesse verso Mussolini
Come lei sa bene nel corso della mia esistenza mi sono trovato ad essere coinvolto direttamente in eventi che hanno determinato un paradigma che ha dato adito a tutta una serie di interpretazioni, come sempre diversamente coerenti, provocando tanta confusione seppur ammetto che determinate mie scelte, come quella di cui parlerò a momenti, non poteva passare inosservata in quanto io ormai ero il Pirandello nazionale, lo scrittore più letto, analizzato, criticato e per il momento storico che l’Italia stava vivendo, non si ammettevano colpi di testa, così come fu definita la mia decisione.
Per l’occasione furono rispolverati i miei trascorsi studenteschi a Palermo quando avevo simpatizzato per i Fasci Siciliani e da quel momento, anche se mi fossi fatto frate, sarei stato sempre definito “fascista”, seppur di questa ideologia, esplosa poi in tutta Italia, non condividevo tutto quanto veniva predicato, indicato, imposto. Sono a conoscenza che anche lei si è interessato di questo aspetto pubblicando un testo sul quale, com’è mio costume, non esprimo mai giudizi; saranno i lettori a farlo. La vicenda della quale sono stato protagonista, assai nota, si riferisce alla mia volontaria iscrizione al Partito Fascista attraverso un telegramma che inviai direttamente a Mussolini.
Questa mia decisione, importante per me, dopo qualche giorno che fu ritrovato il corpo di Giacomo Matteotti, martoriato, fu ritenuta un vero scandalo e da qui iniziarono a piovermi improperi, contumelie, anche da illustri politici di altre espressioni politiche e qui ricordo solo l’onorevole Amendola, del Partito Comunista, che ebbe a definirmi “accattone”.
Al momento mi è gratificante ricordare un giudizio espresso da uno dei critici più preparati che ho il piacere di citare: Gaspare Giudice che così ha scritto:
“Ma l’animo politico di Pirandello, come si vedrà, sarà diversamente complicato. Il caso contraddittorio del suo temperamento permetterà un sovrapporsi cronologico di esperienze e convinzione, fra le quali sarà presente anche questa radicaleggiante, assorbita nell’ambiente palermitano. Dato il suo gusto all’estremismo astratto, l’atteggiamento tra giacobino e socialista dei giovani universitari dovette attrarlo. Né si può pensare che alla sua intelligenza, comunque curiosa, potessero passare inosservati questi fermenti”.
E’ proprio la sintesi del mio gesto che, dopo un po’ di tempo, ho rivalutato cambiando le mie motivazioni giacché sono stato testimone diretto che quel partito, al quale mi ero iscritto, era pieno di contraddizioni, ma soprattutto era formato da inetti personaggi, lecchini, pronti anche a fare violenza, come effettivamente è accaduto. Mi spaventò l’idea che la cultura alla quale io mi appigliavo, da questi energumeni non trovava adesione e semmai eri contrario alle loro idee finivi male. Ne pagò un pegno anche Roberto Bracco, grande scrittore, che fu perseguitato, malmenato e la sua casa bruciata. Atto terribile che viene spesso ricordato.
Certo non posso non incolparmi per essere stato disattento, in quel momento, quando il sommovimento antidemocratico dei nazionalisti in camicia azzurra, dei dannunziani, di tutti gli sbandati in camicia nera, raccolti da Mussolini nei fasci di combattimento, che poi si chiamò Partito Fascista, e che ne fui attratto riconoscendomi anarchico e come tale, in quegli anni, di distruttore della mia stessa opera, iniziò ad avere un ruolo importante seppur ancora non si vedevano gli effetti deleteri che avrebbero prodotto.
Tra l’altro, quella ideologia, il fascismo, appariva alla superficie come un puro movimento irrazionale, quasi insensato, per non dire nichilista ed io riuscivo a vedere molti elementi positivi che mi erano cari, come il repubblicanesimo, l’anticlericalismo, l’antimilitarismo e quindi è facile comprendere perché quella mia decisione.
E poi, non mi vergogno ad affermarlo, mi piaceva Mussolini così come si presentava alle folle, come parlava, come parlava (un vero attore!, non di grido, ma sufficientemente attore) che portava avanti le sue idee sulle quali non era consigliabile discutere. C’era sempre il rischio di ricevere qualche buona dose di manganellate. Io continuavo intanto a scrivere e mi trovavo impelagato con la Compagnia che navigava in brutte acque finanziarie. Si rischiava la chiusura e questo mi dava da pensare. Ero tanto preso da quella atmosfera politica che non diedi peso nemmeno alla marcia su Roma che fu l’inizio d’un brutto periodo ormai noto a tutti.
In ogni caso si scatenò una vera caccia alle streghe perché sia dall’una che dall’altra parte ogni mio scritto veniva regolarmente analizzato, criticato, volutamente frainteso e posso dire che non riuscivo più ad avere pace, a concentrarmi perché nel momento in cui pensavo di scrivere un’opera dovevo sapermi districare per non incappare nelle feroci contrapposizioni che scardinavano il mio lavoro di scrittore, e non era facile essere d’accordo con i fascisti, con alcuni gerarchi che non mi vedevano di buon’occhio, e tra questi il noto “vate” Gabriele D’Annunzio. E’ stato evidenziato che mi autoproclamavo antidemocratico, seppur molti affermavano che ero da considerare il più democratico degli autori teatrali e questo scaturiva perché il mio teatro era, in un certo senso, l’ipostasi e la prosopopea della democrazia.
Era presente una convinzione che riguardava la legge della eguaglianza e della libertà di parola e a ciascuno fosse riconosciuto il diritto di esprimersi liberamente. Così appariva che ogni mio personaggio avesse il diritto a un certo punto di salire su una sublimata panchina e di pronunciare il proprio privato ed eccentrico pronunciamento. E’ stato anche detto che analizzando alcune mie opere apparivo incline ad un protestantesimo antidogmatico e democratico e che determinati personaggi sembrano far parte di una setta di protestanti, di strenui predicatori moralistici, che si difendono e attaccano nella stretta di un assedio cattolico.
Com’era difficile riuscire a capire dove venivo collocato, quale ruolo, per loro, svolgevo. In definitiva io mi sentivo cattolico quanto protestante, anarchico quanto moderato ed anche fascista e questo provocava un dibattito infuocato, spesso infarcito da invenzioni di sana pianta, e comunque qualcuno riusciva a stabilire la verità, ma era insufficiente perché ormai mi vedevano tutti come un disfattista, fascista, ateo, sobillatore.
Difficile comprendere che ero rimasto un introverso e che le mie dichiarazioni non potevano avere una radice intima e segreta, un senso di illuminazione di fatti importanti della coscienza. Molto probabilmente in un secondo tempo si è cercati di risolvere il problema dell’apparente dissociazione tra le singole parti della vita e dell’opera, ma io, in questa circostanza, caro mio, voglio solo dare ampia e veritiera testimonianza dei fatti così come accaduti e come da me vissuti.
Sarei uno stolto se non ammettessi che ho ricevuto alcuni privilegi dal fascismo, e in particolare da Mussolini che si sentiva orgoglioso di avermi tra le sue fila, così come io che sapevo di essere nelle sue grazie e attenzioni. Certamente avevamo bisogno l’uno dell’altro, ma ufficialmente mantenevamo delle debite distante: lui capo del governo e del suo partito, io scrittore seppur famoso. Fui coinvolto qualche volta a scrivere di Mussolini, della sua opera, del suo essere considerato il capo assoluto, il salvatore della patria che avrebbe risollevato le sorti degli italiani che erano entusiasti del loro Duce. E da più parti si sentiva profferire, anche a squarciagola: Duce, Duce, Duce. Anche io ero attratto da questo magnete e cercavo, per non sbilanciarmi troppo, di seguire il corso degli eventi.
Mi convinsi di tante cose e fui subito predisposto ad accettare la disciplina così la teoria della forma e della vita si presentava plastica alla manipolazione dell’ordine, dell’autorità, così contenta alle incongruenti metafore della retorica. E non ero scontento intuendo che si costruiva un clima di normalizzazione tanto che alcuni miei scritti comparivano sul giornale “L’Idea Nazionale”, facendomi consapevole che grazie a quella mia attività abbandonavo la solitudine sociale mostrando, interessato, una certa simpatia per i fascisti. Mi piaceva l’idea dell’ordine, della disciplina, dell’essere compatti, di professare idee alla luce del sole, e magari non mi accorgevo (non so se di proposito o perché rincoglionito) di altre realtà che certo non ponevano a favore di tutta la situazione politica e sociale che si viveva in Italia. Fui portato ad ammirare il generale Diaz e l’ammiraglio Thaon de Revel.
Ero consolato dai giudizi positivi espressi dal Duce nei confronti della mia attività letteraria esternando anche apertamente che alcune opere da me scritte e rappresentate le trovava interessanti e sublimi. Mi sentivo in una botte di ferro e constatavo che anche gli attacchi vigliacchi nei miei confronti si erano diradati. Mi sentivo arrivato, lo confermo e le dimostrazioni di stima che continuavano a pervenirmi da più parti, anche da lontano, mi consolavano ed ecco perché, forse per la prima volta, mi sentivo del tutto realizzato.
Spesso fui messo, dai giornalisti in particolar modo, a confronto con Mussolini ed era ineccepibile pensare che ci trovavamo ad essere considerati i due più importanti personaggi del momento. Preso da tanta consapevolezza, il 23 ottobre del 1923 al giornale “L’Idea Nazionale”, rilasciai questa ampia dichiarazione, che è stata sempre riportata in tutti i testi che parlano, ancora oggi, della mia esperienza fascista.
“Io ho sempre avuto per lui (intendendo riferirmi a Mussolini) una grandissima ammirazione, e credo di essere come pochi in grado di comprendere la bellezza di questa continua creazione di realtà che Mussolini compie: una realtà italiana e fascista che non subisce la realtà altrui. Mussolini sa, come pochi, che la realtà sta soltanto in potere dell’uomo di costruirla, e che la si crea soltanto con l’attività dello spirito”.
Non pensavo minimamente che ci potesse essere una parte di persone che nel leggere queste mie dichiarazioni inorridissero e mi compiangessero. Non mi accorgevo di essere entrato in quel congegno che altro non era che una gabbia dalla quale sarebbe stato difficile uscire. Non lo pensavo davvero. Ero inebriato e questo mi faceva sentire soddisfatto ed anche potente soprattutto nei confronti di altri letterati la cui fama ormai era sfuocata. Esistevo solo io, Luigi Pirandello che era riuscito ad offuscare anche la fama dell’altro grande: Gabriele D’Annunzio, che certo avrebbe fatto carte false per disarcionarmi e mettermi in un angolo. Ma al momento questa paura non mi sfiorava nemmeno. E comunque quello non fu l’unico articolo da me scritto in cui esprimevo ampia ammirazione per Mussolini e per il suo operato.
Riscriverei ancora, oggi, con la stessa determinazione? No, certamente. Gli eventi mi hanno fatto comprendere che avevo preso un abbaglio, ma mi confortava, se si può dire, la consapevolezza che non fui il solo. Era l’atmosfera impregnata che entrava dentro annebbiandoti la vista e il cervello ed io, che mi ritenevo un intellettuale, subii questo influsso e per qualche anno lo vissi e lo praticai, anzi lo esaltai suscitando, in chi mi avversava, una continua delazione nei miei confronti.
Non mi accorgevo che l’opposizione portata avanti da alcuni intellettuali cresceva e certo dopo la morte di Matteotti, altri continuavano a combattere Mussolini e quanti non erano d’accordo a cominciare da Amendola, Nitti, Albertini, Salvemini, Gramsci, Gobetti e tanti altri dei quali si sarebbe parlato a lungo. Non compresi, almeno da subito, che la morte di Matteotti era stata voluta dai fascisti, che molte ritorsioni nei confronti degli oppositori (ho già citato Roberto Bracco) come ad esempio Gramsci sarebbero state letali. Io, avvolto dal mio mondo dove mi crogiolavo, non mi accorgevo di niente così come non compresi che quella mia iscrizione fu sfruttata al massimo non solo dai fascisti, ma dallo stesso Duce.
E’ risaputo che quel mio gesto diede adito ai più facinorosi fascisti di prendermi come esempio di saggezza, lungimiranza, attaccamento ai principi sacri del dovere, dell’ordine, della giustizia. Ero io il vero punto di riferimento perché avevo mostrato coraggio nell’inviare il telegramma di iscrizione in un momento particolarmente agitato. Ecco, questa era la realtà che vivevo in quel momento ed oggi, pur facendone ammenda, certo non posso cancellare quanto di negativo ho commesso con quel mio gesto, poco pensato, poco adatto, proprio da chi non ha il cervello a posto ma crede di poter essere al di sopra della parti solo perché si ha un nome rispettato, acclamato. No, è solo miseria umana. E lo dico oggi, certo.
Se il mio gesto fu combattuto aspramente, da parte dei “camerati” venne espresso compiacimento attraverso una dichiarazione ufficiale, che voglio dettarle, così da controbilanciare l’intera questione, per onore di verità e per essere, nel racconto, meno partigiano di quanto si possa pensare.
“Lo scrittore più rappresentativo d’Italia e forse d’Europa, uno dei più alti spiriti che onorino oggi la Patria, aderisce alla dottrina fascista con una lettera che è, soprattutto, un atto di fede. Se il più tormentato spirito dell’età contemporanea, nella sua spasimosa negazione d’ogni certezza vede il Fascismo come l’unica dottrina atta a creare di continuo una sempre nuova realtà contingente che può permettere a un grande popolo slanci verso un avvenire di potenza, veramente il Fascismo deve essere un fatto storico d’importanza capitale. Ecco che la creazione politica più originale è intesa, cioè giustificata dal lume della intelligenza, dal creatore della più originale visione della vita contemporanea… Più tipico crisma non poteva dare l’intelligenza al fascismo”.
Che dire, condividevo solo una frase: “creatore della più originale visione della vita contemporanea”, e per me era già troppo e posso dire che quello scritto dimostrava come l’esaltazione ideologica non mi soddisfaceva del tutto, seppur accettavo quasi supinamente tutto quello che i “camerati” continuavano a scrivere su di me. E poi ci fu l’altro elemento, quando chiesi ufficialmente la tessera. Fu data ampia notizia come ampia fu la contestazione da parte degli avversari non solo del Fascismo, ma anche nei miei confronti. Niente più mi era perdonato.
Anche in questo caso i “camerati” pubblicarono una serie di articoli esaltando la mia intelligenza, la mia arte, ma soprattutto l’adesione convinta al Fascismo che per loro era un fiore all’occhiello, anche se quel fiore, in realtà, non emanava alcun profumo; ma loro facevano finta di niente. Ero l’uomo più appropriato per fare propaganda gratuita. Questa era la realtà che ancora non riuscivo a vedere. E’ ovvio che non si faceva mancare occasione per insultare i nemici politici e letterati. Ormai sembrava una guerra tra bande che non accennava a finire. Mantenevo comunque sempre vive le mie idee, al di là di quelle espresse dai miei personaggi, e proprio per la mia ritrosia a mettermi sempre in prima linea, facevo dire ai giornalisti fascisti, in modo artificioso, che ero d’accordo sui loro programmi, sulla loro visione della società e del mondo.
Ma in effetti non era per niente condivisibile quella strombazzata ideologica fatta a mio nome. A continuare su questa diffusione del mio pensiero voglio ricordare il giornalista Interlandi, al quale risposi, ma non ottenni grandi risultati, perché si continuò a presentare i miei pensieri come cardine di quella ideologia fascista che doveva essere corroborata dalla presenza di insigni personaggi, ed io facevo al loro caso.
Un altro giornalista, gerarca fascista fino al midollo, si prese la briga di scrivere e tra l’altro, nel pieno della sua euforia distorta, affermò:
“Ed ecco come il gesto di Pirandello, come lo schiocco di una frustata li destava di soprassalto. Bisognava decidersi!… Registriamo l’iscrizione al Partito di Luigi Pirandello tra i capolavori della sua vita… il ‘gregario più umile’ fu invece uno dei più illustri. E oggi ancora, e domani e sempre, l’arte sua, sposata alla sua fede di fascista e d’italiano, lo rivendica come una delle menti più felicemente rivoluzionaria del secolo di Mussolini”.
Ogni commento, mio caro Seddio è fuori luogo, ma fa comprendere le menti che erano all’interno di quel partito. Invece molti altri, che ho citato, continuavano a darmi addosso e proprio tra le tante parole velenose dissero che ero “un uomo volgare” dispiacendosi che ero considerato un letterato ed erano certi che la mia fama al più presto sarebbe stata dimenticata. Ahimè, non sono stati dei buoni profeti. Ma certo non potevo controbattere in quanto ho sempre sostenuto che il pensiero è libero, come la convinzione e se contrapposta all’interlocutore, questa non deve subire condizionamenti o ostracismi.
Non dimentico che altri letterati presero la mia difesa soprattutto perché si evitasse di continuare ad infangare la “figura morale dell’uomo insigne”. Anche il critico Tilgher, tirato per la giacca, mi difese apertamente, ma tutto questo cicalare non mi rendeva un uomo tranquillo e avrei voluto che la si finisse dall’una e dall’altra parte. Non riuscivo a trovare il bandolo della matassa ed allora profittando di una intervista al “Il piccolo” di Trieste, ebbi l’opportunità di mettere in evidenza il mio pensiero:
“La mia vita non è che lavoro e studio. Le mie opere, che alcuni credono non meditate e buttate giù di getto, sono invece il risultato di un lungo periodo di incubazione spirituale. Sono isolato dal mondo e non ho che il mio lavoro e la mia arte. La politica? Non me ne occupo, non me ne sono mai occupato. Se alludete al mio recente atto di adesione al fascismo, vi dirò che è stato compiuto allo scopo di aiutare il fascismo nella sua opera di rinnovamento e di ricostruzione”.
L’esito? Un buco nell’acqua perché quella dichiarazione fu interpretata a comodo e com’era prevedibile fu travisata, analizzata secondo indirizzi errati, per cui si ritornò da dove si era partiti. Se ne fecero promotori di questo cambio di visione alcuni giornalisti, fascisti, che continuavano a scrivere sul loro giornale: “L’Impero”. Questa caro Seddio era la situazione in cui mi trovavo.
Ma a tutto questo si contrapponeva l’attenzione positiva e la stima che Mussolini nutriva nei miei confronti non avendo timore di affermarlo in pubblico nonostante lo stesso nei confronti degli intellettuali aveva pronunciato pensieri non proprio edificanti. Come lo dimostro? Con un atto pratico, perché venne a dare un notevole contributo per risollevare le miseri sorti finanziarie della mia Compagnia che cominciava a boccheggiare. E quando andò in scena la mia opera “La Sagra del Signore della Nave”, nella sala Odescalchi, Mussolini fu presente e fu allora che lo stesso se ne uscì con un battezzo: da quel momento quel luogo si sarebbe chiamato “Teatro del Regime”. Confesso che ancora per un po’ arrivarono i contributi e non potei non essere grato al Duce, e forse sulla scorta di questi anelati aiuti, interrogato da un giornalista di Bergamo che scriveva sul giornale “Il pensiero”, ebbi a dichiarare apertamente:
“Io sono fascista. E non da ora; sono trent’anni che faccio il fascista”.
Per quella dichiarazione mi pervennero un mare di complimenti da tutti i facenti parte il Partito, anche di quelli più vicini al Duce. In ogni caso, al di là di tutte le informazioni che si diffondevano, nel bene e nel male, il mio vero obiettivo era quello di mandare avanti il teatro da me fondato attraverso la rappresentazione delle mie opere che, pur celebrate dalla critica, al momento della realtà rappresentativa non rispondeva la massiccia presenza del pubblico.
Debbo dare merito a qualche acuto critico che è stato evidenziato come la mia appartenenza al partito abbia avuto due momenti: il primo dove mostrai tutto il mio interesse, la mia accondiscendenza, la consapevolezza del mio gesto e poi un secondo nel quale, lentamente, dopo aver cominciato a conoscere molti esponenti, anche dirigenti d’alto rango, ascoltato i loro discorsi, registrati i loro programmi, e per evitare che il mio nome venisse sfruttato in mille modi, cominciai a defilarmi, evitai interventi diretti, insomma volevo ritrovare un po’ di pace e serenità.
Cosa ho visto in quel periodo? Se ne parla con riluttanza, ma testimonio che le strade erano invase dalle squadracce che tanto dolore hanno arrecato, esisteva un odio inspiegabile contro coloro che magari non aderivano alle loro ideologie.
La violenza che si esprimeva la si conosceva, palpabile, e loro, caotici, con i manganelli in mano, con tanto olio di ricino, armati di tutto punto, facevano non il bello ma solo il cattivo tempo. Io capivo, vedevo, e in cuor mio non condividevo, pensavo che Mussolini non fosse stato messo al corrente. Poteva essere?
Voglio a questo punto arrivare alla fine di questo così complesso racconto affermando che già in me, da qualche tempo, un male esorcizzava la paura delle autorità. Ne rivelavo questo male attraverso le mie parole cercando di trovare nuove dimensioni che potessero ridare lustro al concetto di libertà. Un certo nichilismo da me evidenziato, ora doveva ritrovare un nuovo ruolo e questo avvenne proponendo, non senza difficoltà, i “miti”, capaci di lanciare nuovi messaggi di speranze.
Fu un lavorio interiore non facile in quanto tentai paradossalmente di ristabilire un equilibrio fra l’ambito del raziocinio cosciente e la zona affettiva e perciò per definizione irrazionale, parzialmente, ma disperatamente alla ricerca di una razionalità di convivenza sociale. In tutto questo mio racconto, debbo ancora confessare, che ci sono le interpretazioni di taluni saggisti che hanno cercato di scavare, scavare riuscendo a volte a trovare ottime risposte, altre volte le loro parole sono rimaste vuote e magari, per consolarsi, hanno inventato facendomi dire cose che mai ho pronunziato. Se avessi saputo che la mia fama mi avesse così esposto.
Come ho detto, per fortuna, continuava la mia attività artistica e proprio in quel tempo mi ero trovato in Brasile dal quale ero ritornato verso la fine dell’anno 1927. Avevo rilasciato alcune dichiarazioni che a quanto pare non erano piaciute a Roma e proprio al mio ritorno fui convocato dal Segretario del Partito che mi contestò, e non tanto velatamente, che alcune di quelle mie dichiarazione non erano state gradite. Era presente tale Enrico Corradini che aspirava al ruolo di drammaturgo nazionale.
Di fronte a quella intimidazione, (non potevo rilasciare dichiarazioni come io credevo?) fui preso dalla rabbia tanto che presi la tessera del partito, la lacerai e la buttai sul tavolo sotto gli occhi di quel gerarca; non contento presi il distintivo e lo scaraventai, dopo di che con tanto sdegno me ne andai, e mi inseguirono perché ritornassi indietro sulle decisioni, non mancando di chiedermi tante scuse. Io sapevo di non essere ben visto da alcuni gerarchi, come ad esempio Farinacci e Corradini, appunto, che in mille occasioni mi avevano reso la vita difficile.
E poi? L’altra pagliacciata del regime, la nomina, assieme ad altri, ad Accademico d’Italia. E quando indossavamo la divisa delle grandi occasioni, non mi vergogno a dire che sembravamo tanto scheletri da parata. E questo, ancora una volta, non fu condiviso. Ormai intuivo di essere un vero intruso, fastidioso, consapevole che proprio quei signori avevano tradito tutti gli ideali che io avevo coltivato. Troppi interessi, troppi arrivismi, troppi tradimenti, troppe violenze, coercizioni che sfociavano in leggi sempre meno condivisibili. E poi dovevo fronteggiare sempre i tanti nemici tra cui D’Annunzio che voleva a tutti i costi essere messo in elenco per ricevere il Nobel.
Mi accorsi, anche, che boicottavano le mie commedie tanto è vero che accorreva sempre meno pubblico con l’aggravarsi della situazione finanziaria e fu per questo che mi allontanai dall’Italia. Iniziò il mio peregrinare per sorreggere le sorti della Compagnia sperando che all’estero avessi maggior fortuna.
Nel momento in cui, in Germania, si era pronti a mettere in scena “La favola del figlio cambiato”, arrivò un ordine di censura considerata “sovvertitrice e contraria alle direttive dello Stato popolare tedesco”, intuii che c’era lo zampino romano.
La situazione cominciava a pesare e non solo a me ma a quanti erano vicini alla mia attività, attori e maestranze. E proprio non mi rassegnavo perché qualche tempo prima Hitler in persona aveva assistito alla rappresentazione. Lo scoramento, inutile dirlo, ormai si era impossessato ancora una volta del mio cuore. Ma ritornai in Sicilia chiamato da Mussolini e partecipai al Convegno Volta. Poi fui in caricato esplicitamente dal Duce di dirigere e rappresentare un’opera scritta da D’Annunzio: “La figlia di Iorio”; continuavo a muovermi su di un terreno minato.
Poi la svolta, per me inaspettata che tanto rumore provocò in tutto il mondo letterario e non solo. Fui convocato (era il 1934) per ritirare il Premio Nobel per la letteratura. Ecco, dal lontano Caos, ora mi trovavo a Stoccolma per ritirare l’ambito premio, già sapendo che in molti avrebbero insinuato che molto proficua era stata la raccomandazione del Duce.
Io non avevo mai parlato con il Duce né tanto meno chiedere una raccomandazione, ma gli appetiti erano tanti e gli interessati mi avrebbero ucciso pur di evitarmi il ritiro dell’ambito premio.
Ebbi conferma che quel premio assegnatomi era andato di traverso a molti allorquando feci ritorno a Roma e nessuno venne alla stazione, solo Massimo Bontempelli e Paola Masino. Nessun giornalista o fotografo. Ma in cuor mio ero contento lo stesso per quell’ambito riconoscimento. E non fu l’unico sgarbo che ricevetti. Per contro fui ricevuto da Mussolini che espresse il suo compiacimento per il premio. Dopo quell’incontro feci ritorno a casa, visibilmente urtato.
Poi le tante guerre, in Etiopia, poi in Abissinia e poi tutto lo sfacelo che ormai interessava l’intera nazione. Tutto andava a rotoli, sempre in mano a dei facinorosi ed anche la cultura sembrava essere stata cancellata da tutti i programmi di propaganda. Sapevo che si voleva costituire un Teatro di Stato seppur non capivo e non sapevo lo scopo né l’utilità. Come spesso mi accadeva dovevo poi constatare che mi ero solamente illuso e quel progetto non si realizzò mai.
Ma io mi sentivo stanco, amareggiato, combattuto tra la realtà che mi circondava, e le soddisfazioni accumulate nel corso di tanti anni di intensa attività.
Il mio cuore, che già aveva fatto i capricci, non era a posto e avvertivo il peso di quegli spostamenti per essere presente alle rappresentazioni delle mie opere che ancora, a parte qualche problema, ricevevano consensi nonostante il pubblico non fosse mai sufficiente, ma io ero convinto che si era presi da quell’atmosfera contaminata, pericolosa, ed allora si preferiva rimanere a casa, aspettando tempi migliori.
Pietro Seddio
Io sono figlio e uomo del Caos
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