Di Pietro Seddio.
Non ebbi esitazione a fondare la Compagnia Teatrale alla quale aderirono mio figlio Stefano, Orio Vergani, Massimo Bontempelli, Giovanni Cavicchioli, Giuseppe Prezzolini, Antonio Beltramelli, Leo Ferreri, Lamberto Picasso, Guido Salvini, Maria Letizia Celli e Claudio Argenteri. Si prese in affitto un locale teatrale, agibile, presso il Palazzo Odescalchi pagando 3.300 lire al mese.
Io sono figlio e uomo del Caos
Per gentile concessione dell’ Autore
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Io sono figlio e uomo del Caos
Capitolo 18
Gli amici letterati
In molte occasioni, nel corso della mia vita, mi sono trovato di fronte a diverse situazioni per le quali era necessario e decisivo prendere decisioni anche in una frazione di secondo e per il mio istinto di considerarmi autonomo, libero, decidevo, così qualche volta quella importante determinazione presa si sarebbe rilevata controproducente per non dire fallimentare.
In questo caso proteso a non pensare ponderatamente, mi riconoscevo in mio padre sempre alla ricerca del nuovo, di tentare maggior fortuna, di ottenere di più sentendosi uno spirito libero e come tale anarchico. Voleva ed era disposto a tutto.
Così aveva fatto e la sua testardaggine, tutta sicula, lo aveva portato al fallimento, agli incontri pericolosi, quasi a perdere la sua vita.
Ma a Girgenti, a Porto Empedocle, lo rispettavano, rispettavano don Stefano Pirandello, seppur dubitavo che in tanti lo stimassero. Ad ogni buon conto anche io mi sentivo un uomo libero e per questo volevo sempre di più, anche rischiare nonostante mi trovassi bene, pur economicamente, e quindi avrei potuto continuare quel tran tran.
Avvertivo, però, da qualche tempo, una certa insoddisfazione dovuta proprio alla mia attività letteraria. Quasi schiavizzato perché gironzolavano tante persone, tutte dinamiche in verità, e mi davano il senso di essere tanti ragni che si affaccendavano per spartirsi la preda. Ero io e la mia professione redditizia la preda. Per questo mi stavano attorno, si confrontavano, proponevano e quasi sempre mi coinvolgevano in un modo che non potevo rifiutare.
Erano loro a programmare le rappresentazioni, a scegliere le città, i giorni, i mesi, le durate dei tanti viaggi ed io mi dovevo trovare pronto ad andare dove loro avevano deciso. Treno, aereo, nave, anche macchina per essere presente alle rappresentazioni che alla fine producevano applausi per me e per loro guadagni. Io pronto a ringraziare sul palcoscenico, una vera comparsata, gli inchini, i sorrisi, poi il ritorno all’albergo e di nuovo in compagnia con la mia solitudine. Ma quello che più mi angosciava era l’assistere, molte volte, alla mercificazione che subivano le mie opere con rappresentazioni che mi deludevano quanto mi disgustavano.
Io ero costretto, da altri, ad assistere senza intervenire. No, non poteva continuare quella storia.
Mi ritrovai nel 1924, con mio figlio Stefano e Orio Vergani a fondare a Roma un Teatro d’Arte che io personalmente avrei diretto come capocomico. Una mia compagnia dove potevo decidere e stabilire tutte le regole precise per ottenere delle ottime rappresentazioni. Si trattava delle mie opere. In verità in quegli anni erano sorte tante compagnie teatrali, ma poche ne erano rimaste. Spese di gestioni enormi e insufficienti incassi. Sembrava che il pubblico si fosse disamorato del teatro.
Comunque io non ebbi esitazione a fondare la Compagnia Teatrale alla quale aderirono mio figlio Stefano, Orio Vergani, Massimo Bontempelli, Giovanni Cavicchioli, Giuseppe Prezzolini, Antonio Beltramelli, Leo Ferreri, Lamberto Picasso, Guido Salvini, Maria Letizia Celli e Claudio Argenteri.
Voglio ricordare che mio figlio Stefano ora si chiamava Stefano Landi perché non voleva competere con il mio cognome in quanto anche lui aveva scelto l’attività artistica nel campo della pittura. E’ noto che ancora viene ricordato come Stefano Landi, pittore.
Si prese in affitto un locale teatrale, agibile, presso il Palazzo Odescalchi pagando 3.300 lire al mese. Occorreva migliorarlo ed io mi impegnai a seguire da vicino e interesse tutte le opere di rifacimento e migliorie. In quel periodo, con mio figlio, ci mettemmo a leggere centinaia di copioni per poter scegliere il repertorio e in questo mi aiutò Tilgher. Scegliemmo autori come Bontempelli, De Stefani, Giovannetti fra gli italiani, Dunsany, Vildrac, Schnizler, Evreinov e Ramuz, tra gli stranieri. Fu deciso di rappresentare, la prima volta, un’opera mia “La Sagra del Signore della Nave” alla quale avevo lavorato l’anno precedente. Opera in cui avevo cercato di mischiare il sacro e il profano facendo risaltare un certo verismo condensato con una visione pessimistica esistenziale senza alcun riscatto.
Furono prese opportune strategie per la rappresentazione considerato che erano previsti sulla scena moltissimi personaggi e non mi vergogno a dire che per fare in modo che il tempo della preparazione fosse ridotto, anche io materialmente presi parte attiva. Quella prima rappresentazione vide anche la presenza dei principi di Casa reale e Mussolini che, ricordo, si presentò in stivaloni e frustino. La sua autorità non doveva mai essere messa in discussione, anche in situazioni amene come una rappresentazione teatrale.
Tra attori e comparse sul palcoscenico ne salirono centotrenta. Che dire? Fu un vero successo, ringraziando, anche allora, tutti coloro che a vario titolo avevano collaborato e con molta soddisfazione, accolto dagli applausi scroscianti, mi presentai sul palcoscenico, sorridente e come è stato detto: “pieno di gioia infantile”. Avvertii di essere finalmente io, Luigi Pirandello, autore e capocomico. E non era poco, mi creda Seddio. Lei ne saprà qualche cosa.
Il successo e poi? Un altro evento che ha fatto drizzare le orecchie a decine e decine di critici che hanno iniziato a scrivere e lo fanno ancora oggi. L’evento dell’anno quello e tutti parlarono del Maestro, non più giovane, che ora, da qualche periodo, si accompagnava ad una giovane attrice: Marta Abba. Si, avevo conosciuto Marta Abba che in poco tempo divenne un’attrice facente parte della nostra compagnia.
L’accompagnava un curriculum artistico di tutto rispetto ed io accettai la sua presenza. Non era la sola ragazza all’interno della compagnia, ma fui preso, quasi subito, da un trasporto che mi avvicinò a lei fino a diventare la mia ideale compagna di vita.
Apriti cielo!, su questo rapporto. Anche allora, cosa non è stato detto seppur alcuni elementi evidenziati io li ho sempre condivisi, meno quando si è voluti entrare, forzando, nella sfera personale così cara ad entrambi e quindi sempre si è cercati di chiudere la porta lasciandoli fuori, e loro non contenti, hanno costruito castelli di carta. Recitò, nella nostra compagnia, allorquando si rappresentò l’opera di Massimo Bontempelli “Nostra Dea”, e si dimostrò professionale nella sua interpretazione ed io non potei non congratularmi con la stessa.
Era giovane e quindi andava incoraggiata, questo pensai, non avvertendo che già nel mio cuore s’insediava un altro sentimento per niente artistico, ma sentimentale, e questo sentimento germogliava dopo anni di sterilità interiore e sublimale.
Tutto sembrava girare finalmente per il verso giusto: la compagnia era formata da professionisti, seri imprenditori provvedevano a finanziare le spese, lo stesso Mussolini, fece pervenire la somma di 50.000 lire, ma nel contempo, per le entrate non sufficienti, si provvedeva a firmare cambiali e questo, saputo ch’era giusto, iniziò ad innervosirmi.
E’ vero, io ero preso dalle prove, dal trovarmi sempre vicino a Marta Abba che non disdegnava la mia presenza, ma mi arrivavano notizie non piacevoli per quanto riguardava la situazione finanziaria.
Penso che a questo punto, tralasciando per un momento le vicende della Compagnia, si voglia sapere la verità sul rapporto tra me a Marta Abba, seppur non è difficile capirlo, in quanto sono state pubblicate in tutte le salse le lettere da me inviate a lei e quelle ricevute dalla stessa. Epistolario tra noi due lungo, complicato, articolato, che è durato per tantissimo tempo, anche quando lei, lasciando l’Italia, andò negli Stati Uniti dove prese marito, e poi… poi si interruppe per sopravvenute problematiche, anche queste note e arcinote. Comunque sia, spendo alcune parole, seppur non riuscirò mai a colmare questa grande lacuna perché non entrerò mai nei particolari.
Certo, non posso negare, di aver maturato del sincero affetto, chiamatelo anche amore, che avrei desiderato vivere in piena simbiosi con lei, seppur ci dividevano molti anni, ma questo non vietò, soprattutto a me di indirizzare i migliori sentimenti nei suoi confronti. E lei, debbo dire, quasi un’alunna diligente, non ebbe mai a rifiutarmi, almeno nel mantenere quel rapporto intenso e puramente interiore, spirituale. Io non chiedevo altro; mi bastava riempire il mio spirito della sua presenza, considerato il vuoto che da tempo era nel mio cuore.
Certo, ho scritto, scritto lettere, anche un tantino compromettenti, se si vuole, (per soddisfare l’interesse materiale di molti curiosi) e lei mi ha risposto, ma posso affermare che, maturi e consapevoli, abbiamo vissuto quella lunga esperienza non perdendoci mai e soprattutto misurando sempre il limite che la nostra intelligenza ci proponeva giornalmente.
Perché avvenne tutto questo? Molto probabilmente in me si ridestarono i fantasmi sessuali che molte volte mi costringevano a chiedere di più seppur sapevo che certe richieste non avrebbero avuto seguito, ma quei fantasmi avevano pur diritto a manifestarsi anche perché rivelavano il tumulto del mio cuore. E’ vero che nel mio animo delirante aveva assunto il ruolo di “santa guida”, di “consigliera infallibile”, “di assoluta e unica ispiratrice”; diventò colei che con la sola sua presenza sia fisica che spirituale, o solo attraverso una lettera o un telegramma mi potesse salvare dalla depressione ridonandomi la vita, almeno quella pulsante nel mio cuore.
Uno sguardo o una sola parola di lei diventava un alito di vita indispensabile, e quando questo alito di vita non mi arrivò più perché Marta era in America, troppo lontana per un qualsiasi rapporto diretto, confesso che non ebbi la forza di lottare contro la depressione e l’angoscioso senso di solitudine che iniziò ad attanagliarmi ineluttabilmente.
Ormai è risaputo che quando incontrai Marta io ero già un uomo profondamente segnato da terribili esperienze e anche dalla celebrità che ha fatto di me una figura di grande spicco nel mondo delle lettere e del teatro seppur non mancarono i soliti maligni che fecero congetture che non ho intenzione né di ripetere né di ricordare. Cafoni intellettualmente e spiritualmente e mi accorgo, nonostante tutto, che esistono ancora.
L’apparizione di questa splendida attrice venticinquenne dai capelli rossi fiamma, mi rimescolò tutte le carte facendomi intravedere la possibilità di un rapporto-dialogo pieno e profondo, che mi era assolutamente mancato con mia moglie: Marta era un’artista intelligente e curiosa e quindi capace di sostenermi e di farsi sostenere.
Con piacere però affermo che la storia del teatro ricorderà Marta Abba come la più grande interprete dei personaggi pirandelliani: intraprese la carriera d’attrice con passione sincera rivelata dalle sue stesse parole scritte e dette.
Ed ecco uno stralcio di quello che lei ha scritto, parlando di me, come ammiratrice, come attrice, ma soprattutto come amica:
“Il poeta ha per materia le parole, lo scultore il marmo, il pittore i colori, il musicista suoni e strumenti; la materia dell’attrice è solo se stessa. Per realizzare un’immagine, un ritratto, un sentimento l’attrice opera solo su se stessa. E’ lo strumento della sua musica interiore: si scolpisce, si modella da se stessa. Questo terribile e angoscioso lavoro è la sua gloria e la sua pena maggiore. Sarà questo il mio modo di essere attrice, vivere nel teatro tutto ciò che la vita mi vieta, tutte le passioni che la realtà non mi concede, tutte le grandezze eroiche, le colpe fatali, le gioie sublimi, i sogni, le chimere, le speranze e le certezze che a me, donna, debbono forse per sempre essere negate!”.
Anche Marta Abba, forse sulla scia dello strano e contraddittorio astrattismo riflesso da me sui miei personaggi, cercò di costruirsi un suo particolare universo scenico: diceva ancora:
“Io vivo solo di teatro e per il teatro. Il resto non mi interessa se non quando può darmi un mezzo in più per esprimere un lato della verità che chiarifichi e depuri la mia sensibilità di donna; anzi cerco in tutti i modi di esserlo nel più infinito, ampio e molteplice dei modi, una donna completa nel teatro anche se poi avverrà che nella vita monca ed imperfetta, sarà la mia sensitiva anima femminile ad avere l’ultima parola! Se non posso essere per legge di natura, tutte le donne, voglio almeno rappresentare tutte le donne perché solo così potrò essere una vera attrice e non una commediante!”.
Ci si è chiesto: pirandellismo psicoanalitico o istintiva e sincera ricerca di se stessa?
Per me fu consequenziale concepire per lei il delirio di un amore specialissimo, quasi un sodalizio intellettuale e passionale che mi stravolse la vita con accentuate sfumature di vero e proprio perdimento; fu in verità uno straniamento, una passione allucinata, un amore incompleto e mai ricambiato. Forse la incontrai troppo tardi e in circostanze morali e giuridiche tali da non permettere una realizzazione alla luce del sole.
In tutto ho scritto 560 lettere, disperate, noiose, ossessive e queste sono la dimostrazione che erano ancora vivi in me i fantasmi, gli stessi del mio attorcigliato modo di elucubrare su ogni cosa, erano i lamenti di un povero vecchio genio che non sapeva affrontare la propria realtà. Diedi anche qualche risposta a precise domande:
“Voi desiderate da me una nota biografica e io mi trovo assai imbarazzato a fornirvela per la semplice ragione che ho dimenticato di vivere, l’ho dimenticato al punto da non saper dire niente della mia vita! Potrei forse dirvi che non la vivo la vita io, io la vita la scrivo!”.
Antitesi tra vita e forma, tra essere e divenire, tra sostanza e apparenza: è la mia vera tematica che può essere interpretata come rappresentazione del dissolvimento della persona, già un anticipo di “Uno, nessuno e centomila” l’ultimo dei miei romanzi, tra il vivere e il vedersi vivere nell’emblematica e struggente ricerca di sé. Anche con Marta fu un amore più scritto che vissuto e proprio questo costituì la vera anomalia. Prigioniera, imperatrice e despota nella mia mente, come fu scritto, Marta Abba, la fascinosa attrice detta “la Garbo del teatro”, mi permise di scrivere per lei e solo per lei, ma non divenne mai la mia amante. Così i tanti saggisti hanno scritto come se avessero vissuto quella mia esperienza unitamente a noi due che ormai eravamo sulla bocca di tutti o per meglio dire sulle pagine di tanti quotidiani che certo non si interessavano d’arte ma di pettegolezzi.
Nessun dottrinario del sesso saprebbe dimostrare che se Marta mi avesse amato davvero, io non avrei scritto “I Giganti della montagna” e tante altre preziose opere che le dedicai incondizionatamente e che poi le lasciai in eredità. Marta divenne l’arcigna e avidissima custode di tutto quel ben dell’intelletto, opponendosi ad ogni rappresentazione teatrale che non fosse ben pagata, frequentando i tribunali fino alla sua morte, avvenuta il 24 giugno 1988 alla vigilia del suo 88esimo compleanno, 52 anni dopo la mia morte.
Donna pratica e concreta, figlia di un commerciante lombardo, Marta non fu mai la diva moderna e carnale tendente al femminismo esasperato e dimostrativo, anzi più io mi accartocciavo spasmodicamente in quel suo petrarchismo, più subivo ed esibivo i turbamenti del mio cuore frustrato, più mi arrovellavo sull’insubordinazione del lancinante desiderio di lei, e meno Marta mi dava retta.
Più la passione mia diventava delirante e teatrale più lei diventava indifferente e lontana come se avesse capito che dietro tutte quelle dimostrazioni esasperate ed esasperanti io non sapevo amare nessuno seppur cercavo quasi in maniera maniacale un rapporto tutto di testa con me stesso e mai con una donna vera.
Nel lungo epistolario, infatti, Marta non rispose mai alle mie deliranti invocazioni né ai miei insistiti languori; Marta si è sempre sottratta con superiore indifferenza alla cronaca ribadita della mia disperazione, al canto tragico e masochistico della mia magniloquenza.
Marta dandomi sempre gentilmente del Lei e sempre chiamandomi Maestro mi rispondeva elencando mille questioni pratiche, soldi, attori, teatri, compagnie, date, raffreddori e viaggi, permettendosi perfino di commentare i miei lavori teatrali. E’ come se volesse spingermi a rinunciare al mio esasperante e contorto desiderio, dimostrandomi una vera indifferenza amorosa.
Marta non mi lusingò, non mi eccitò, non giocò al gatto e al topo, ignorò semplicemente l’erotismo, la gelosia, la passione di quell’innamorato celeberrimo, infelice e premuroso che ero io. Ma intravedendone i tesori pratici ed economici, diventò la padrona assoluta del teatro e della mia vita.
Per dieci anni Marta Abba ha dominato totalmente la mia esistenza col suo rispettoso e razionale “non amore”, col suo charme attoriale, con quella sua crudele “lontananza” anche se eravamo spesso insieme nei viaggi e negli alberghi.
La celebrità che mi accompagnava e mi perseguitava e la bellezza dell’attrice costituivano già un accoppiamento pruriginoso e interessante. Lei elegantissima con cappottino corto e attillato e una “cloche” di panno che le nascondeva tutti i capelli; io con completo grigio e borsalino a larghe falde; girammo, quella volta, per una intera settimana ospiti di autorità e aristocratici e mia zia Isora, che si doveva sposare l’anno dopo, ordinò alla Bolognese un completo da viaggio proprio come quello di Marta Abba.
Penso di aver raccontato una parte del necessario ritornando ai concetti sopra esposti e sono soddisfatto quando leggo: “E’ veramente un magmatico intrigo pirandelliano! Pirandello fedele ad una moglie che lo vede così infedele da impazzirne!”. Eppure nella realtà, non nella finzione, tutto si è svolto in questo modo, credere o non credere. Posso solo dire che alcune opere le ho scritte per lei dedicandogliele, come detto, e che hanno sempre riscosso un lusinghiero successo, anche se poi interpretate da tante altre bravi attrici.
Alla fine è solo l’arte a trionfare in quanto tutte le vicissitudini umane hanno un principio e una fine, tranne l’Arte che è immortale.
Il dramma teatrale riflette molto probabilmente la situazione che forse avvenne effettivamente, certo complicata dalla psiche un po’ contorta e dalla voglia di lei di far carriera attraverso me.
Si può anche affermare, liberamente, che sono stato proprio io a non aver voluto e potuto realizzare quel grande amore destinato ad ardere senza più spegnersi: un amore insoddisfatto, irraggiungibile, quasi una condanna. Ho riconosciuto nella elaborazione scenica la mia lancinante colpa, la mia tragica sorte; non è chiaro se Marta abbia capito fino in fondo quel mio patologico ritegno, quel pudore sdegnoso di sentirmi vecchio, quella mia strana vergogna, considerata quasi una oscenità, di dovermi proporre con quello aspetto proprio del vecchio ma con il cuore ancora giovane e caldo! Mi sentivo impossibilitato ad esprimere, come io stesso desideravo, un così grande amore destinato ad ardere in un limbo penoso e oscuro che non era degno di lei! Ebbi solo il coraggio di scrivere considerato che la scrittura mi era congeniale e poi con tale sistema non ero costretto ad avere la sua presenza che certo mi inquietava, e lo si può comprendere. Almeno lo spero.
Intanto Marta, forse per difendersi o forse per proporsi come attrice, cercava la realtà della sua esistenza in quella dei personaggi che creavo e che le dedicavo: sulla porta del suo camerino non c’era mai scritto il suo nome ma quello del personaggio che lei interpretava di volta in volta.
Non esistendo, a quei tempi, la possibilità di una qualsiasi convenienza sociale che rendesse attuabile una soluzione matrimoniale, il nostro fu un amore impossibile che Marta accettò con assoluta disinvoltura, cercando di rendere il suo rapporto con me esclusivamente professionale.
Io, tipico siciliano, invece mi struggevo, volutamente, in una follia d’amore che ha avuto sempre e solo lei come destinataria, lei come musa, lei come attrice, lei come tutto.
Nel gran palcoscenico della vita Marta Abba ed io siamo stati i protagonisti assoluti di un dramma vero che nessuno ha scritto per noi. Lei solida lombarda, rossa di capelli ricciuti pettinati alla greca, con bellissime labbra spesso scontrose ma che non appena rideva esprimevano una grazia luminosa che ravvivava ogni cosa; io, l’anziano genio siciliano, curvo, minuto e nervoso, scontroso e infelice con capelli d’argento e un pizzetto luciferino che valorizzava uno sguardo attento e penetrante; nel gioco fatale degli incontri, nei riflessi misteriosi delle nostre stelle, negli scontri feroci dei nostri destini, siamo stati chiamati ad impersonare uno strano e contraddittorio amore non soddisfatto, quindi anche noi “segnati”, come tanti, dal passaggio dell’angelo nero della infelicità. Ed ecco uno stralcio della nostra corrispondenza:
“Marta mia, mia, mia, sono una mosca senza capo; scrivo di te e per te ma non andrei avanti di una sola parola se la tua divina immagine ispiratrice mi abbandonasse per un solo istante. Aiutami, aiutami per carità, Marta mia, non mi lasciare, non m’abbandonare; ho tanto bisogno di te, di sentirti uguale e vicina: scrivimi, fatti viva, ho tutta la mia vita in te. La mia arte sei tu, senza il tuo respiro, muore!”.
Lei rispondeva solo a volte e mai sui sentimenti:
“Ho un gran raffreddore: la recita è andata benissimo ma il finale del primo atto necessita di qualche lieve modifica: il terzo atto mi pare giusto!”.
Libera nella sua prorompente bellezza e nella sua crudele indifferenza, Marta si permetteva perfino di giudicare i testi e i personaggi che mi appartenevano; io nel mio innamoramento totalizzante accettavo tutto come espiazione di una colpa non voluta commettere. Quando nel 1934 tornai da Stoccolma con il Nobel, lei non si trovò alla stazione ad accogliermi e confesso che la cercai a lungo, ma inutilmente.
Marta non fu presente neppure quando tornai dal Sud America carico di gloria; lei si trovava alle Terme di Salsomaggiore e io non vedendola mi sono sentito così male che i miei figli dovettero intervenire per soccorrermi.
Ma quando Marta nel 1936 partì per l’America, io, sempre più preda della mia infelicità, ero sulla banchina a salutarla per l’ultima volta: sapevo che Marta non sarebbe più tornata e sentivo, provando tanto scoramento, che mai più l’avrei rivista.
Spendo ancora qualche pensiero postumo riportandomi a quando Marta aveva 78 anni ed era ancora bellissima e fascinosa, appena sfiorata da quell’ombra un po’ “fané” che il tempo, quando è generoso, stende sui gesti e sui modi dei più fortunati.
Manteneva tutte le seduzioni che mi avvinghiarono; il suo fascino e il suo glamour avevano qualcosa di prodigioso per la sua età. In verità, tutte le volte che concesse interviste si dimostrò assai discreta, puntuale, riservata e nei miei confronti espresse parole di riconoscenza, di affetto, anche di gratitudine.
Tutto sarebbe andato diversamente se il copione fosse stato scritto da una mano più leggera e spregiudicata. Se Marta fosse stata una platinata attricetta hollywoodiana tutta curve che voleva fare solo carriera avrebbe, come in una pubblicità del “Campari” tanto di moda negli anni ‘30, preso il suo complessato e nervoso vecchietto e “in quella atroce notte di Como” gli avrebbe tolto cravatta, camicia e gilet facendogli vedere tutte le stelle del paradiso!
E tutto sarebbe finito lì. Ma essendo una grande signora, mantenne il suo charme che l’ha contraddistinta per tutta la vita sia come donna, sia come attrice, certamente una delle più brave, importanti, preparate del Novecento.
Pietro Seddio
Io sono figlio e uomo del Caos
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