Di Pietro Seddio.
Poi agli inizi del Novecento ci si riuniva presso i caffè letterari, come ad esempio al Caffè Greco, un classico e tranquillo ritrovo, poi al caffè Busi, in via Veneto, di fronte al famoso albergo Excelsior. Anche qui ebbi occasione di incontrare altri amici, tra cui Ugo Ojetti, Pascarella, e Nino Martoglio.
Io sono figlio e uomo del Caos
Per gentile concessione dell’ Autore
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Io sono figlio e uomo del Caos
Capitolo 13
Eventi politici a Roma
Ero ritornato a Roma, la stessa città colpita tempo addietro dallo scandalo della Banca Romana che tanto scalpore aveva suscitato.
E’ risaputo ormai che lo scandalo della Banca Romana è stato un caso politico-finanziario di rilevanza nazionale che fu al centro delle cronache italiane dal 1892 al 1894 e che ebbe come elemento centrale la scoperta delle attività illecite del governatore della Banca Romana nel decennio precedente. Furono coinvolti presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari e giornalisti. La banca venne liquidata dalla Banca d’Italia, istituita a seguito dello scandalo per riformare il sistema bancario.
Quello in questione fu il primo grave scandalo della storia dell’Italia unita ed emerse a seguito dello scoppio della bolla immobiliare seguita all’istituzione di Roma come nuova capitale del regno, evidenziando la grave crisi di solvibilità della Banca Romana causata dall’aver finanziato l’espansione edilizia e le richieste della classe politica.
Venne istituita una commissione parlamentare e una inchiesta penale che misero sotto giudizio il governo, a partire da Francesco Crispi e Giovanni Giolitti.
Il processo si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati e l’erario statale dovette far fronte al buco causato dalla cattiva gestione dei crediti.
La vicenda mise in luce la necessità di istituire un’unica banca centrale per l’emissione della moneta e col potere di decidere la politica monetaria. Le conseguenze politiche furono minime e già nel dicembre 1893 Crispi tornò ad essere presidente del Consiglio dei ministri per la terza volta.
Io seguii la vicenda un po’ distaccato giacché avevo compreso che i politici, in generale, non sono affidabili e, stante il loro potere, sono capaci di tutto, anche cambiare la carte in tavola. Il famoso gioco delle tre carte dove a vincere è sempre lo stesso giocatore facendo pagare agli altri, agli allocchi, agli sciocchi che sono sempre gli stessi.
Il popolo che crede di essere potente e poi si fa governare da quattro delinquenti e il gioco è fatto.
Furono coinvolti uomini politici di alto rango, finanzieri, faccendieri, uomini senza scrupoli e si cercò, durante i procedimenti penali, di mescolare le carte, si ripeteva il noto gioco delle le tre carte, ma questa volta a condurre il gioco erano in molti, potenti, e quindi la storia assunse un ruolo importante tanto che, molti quotidiani assai conosciuti per lungo tempo, non smisero di parlare dello scandalo.
La deflagrazione dello scandalo fece approvare in pochi mesi la più volte reiterata proposta di istituire una banca unica per l’emissione e la politica monetaria. Dal 20 dicembre 1892, giorno in cui l’on. Colajanni lo denunciò in parlamento, una parvenza di banca centrale viene istituita con la legge (10 agosto 1893, n. 44).
Fu in verità tutta una parvenza in quanto si trattò di una manovra politica che dava un colpo al cerchio e uno alla botte.
La Banca d’Italia, infatti, non era ancora la banca delle banche, e nemmeno aveva l’esclusiva della stampa delle banconote. Non aveva poteri effettivi di politica economica e monetaria. L’emissione rimaneva anzi a “mezzadria” con Banco di Napoli e Banco di Sicilia e solo la legge bancaria del 1926, dopo oltre tre decenni e una buona serie di scandali, istituì la vigilanza sul credito, la figura del Governatore con relativi poteri, e finalmente concentrò l’emissione in un solo istituto, al quale venne conferita l’intera riserva aurea.
Sul piano politico la vittima eccellente fu Giolitti. Se il processo ha assolto tutti gli imputati non ha certo rimosso i sospetti di coinvolgimento degli uomini politici. La sentenza fu anzi un atto di accusa, perché Tanlongo e soci furono assolti per insufficienza di prove e nelle motivazioni la corte diede credito alla testimonianza dell’agente Montalto. La sottrazione dei documenti c’è stata, ma non è stato possibile risalire agli autori del reato. La crisi politica che scoppiò dopo le assoluzioni portò alle dimissioni di Giolitti (15 dicembre 1893), e al ritorno di Crispi al governo. Il presidente dimissionario si rivalse giocando la carta del plico, un tentativo che gli si ritorse contro costringendolo addirittura ad espatriare per le denunce di Crispi e della moglie e l’inchiesta sulle carte scomparse. Giolitti tornerà al governo dopo dieci anni di oblio politico.
Ecco, io ero tornato in quella città, la Roma, caput mundi dove si trovavano i più alti poteri laici e religiosi e spesso si trovavano d’accordo su come fregare il popolino. Oserei dire: il gioco della parti. Ricorda qualche cosa? Sorvoliamo.
Mio padre continuava a passarmi un decoroso mensile e già vivevo con la qualifica di professionista delle lettere. Cercavo di impegnarmi nel lavoro e nello studio e soprattutto non volevo fare inaridire la mia vena creatrice che mi prendeva senza lasciarmi tregua. Sentivo che qualcuno, anzi, più di qualcuno (i miei cari fantasmi) mi seguivano ed io sentivo il loro ansimare, i loro passi felpati e seppur non parlavano io memorizzavo le loro voci. Era tutto così assurdo, mi chiedevo, ma comunque continuavo, continuavo in quanto la mia voglia isolana non poteva essere tradita.
Mi ero prefisso di raggiungere il mio obiettivo da lì a pochi anni, se non fossi riuscito avrei mollato tutto. In definitiva ero professore, con tanto di laurea, e questo mi avrebbe consentito una vita discreta, anche nel caso in cui avrei messo su famiglia.
Ma al momento ero libero da qualsiasi vincolo e cercavo di condurre, a Roma, in quel periodo, una vita da scapolone seppur non mi soddisfaceva tanto. Ma questa era la situazione. Trovai Roma, anche dal punto di vista letterario, umbertina e frequentata da letterati, scrittori, giornalisti, poeti provenienti da altre regioni, soprattutto dall’Italia meridionale e insulare e tanti erano i giornali e i quotidiani che potevi trovare in ogni angolo della strada. I soliti strilloni ti invitavano a comprare e ti sottolineavano, con la loro voce strozzata, il titolo che più poteva colpirti e invogliarti a comprare almeno uno dei tanti quotidiani suggeriti.
Molti di questi letterati, artisti in genere, li conoscevo, di altri ne sentivo parlare e comunque i rioni per bene erano frequentati da Carducci, Martini, Nencioni, Verga, Capuana, De Amicis, Cesareo, Panzachi, Pascarella, D’Annunzio e tanti altri. Di alcuni già si parlava, non sempre entusiasticamente, di altri si leggeva di tanto in tanto qualche trafiletto, a volte perché si erano comportati non in modo confacente alla loro nomea. Ma essendo giovani era a loro tutto permesso e magari qualcuno esagerava per avere un titolo sul giornale. Per i pittori e gli scultori ci si accontentava di osservare le loro opere non sempre comprese ed esaltate.
Frequentavo i bar, i luoghi di incontro, e questo mi dava la possibilità di conoscere, di sapere, di confrontarmi dandomi l’occasione per irrobustire ancor di più il mio pensiero che poi avrei sfruttato quando mi sarei messo di fronte alla mia macchina da scrivere e creare opere, personaggi, considerazioni, contraddizioni, suggerimenti filosofici, etici, un insieme di opportunità che mi sarebbero servite da lì a poco. Poi la vicinanza con Zola, Verga, Fleres e l’amicizia solida con Capuana e così ebbi l’occasione, silenziosamente, di inserirmi senza dare tanto nell’occhio in quel gruppo di solidi letterati che già pubblicavano ed avevano successo.
Io intanto avevo tradotto le Elegie romane del Goethe e fu proprio Ugo Flores, anche lui siciliano, di Messina, che divenne un mio carissimo amico ad incitarmi. Ricordo con quanto interesse scrissi due testi (poco conosciuti in verità, ma per me importanti), “Laomache” e “Scamandro”, due poemetti greci che si è detto sono le cose meno belle della mia produzione.
Sono d’accordo fino ad un certo punto. Non voglio dimenticare che già da qualche tempo avevo iniziato a dipingere perché mi aiutava a rilassarmi e fu anche per questo che conobbi alcuni pittori, grazie a Tommaso Marinetti, esponente di ideologie avanzate, autore del futurismo al quale movimento facevano parte anche illustri pittori assai conosciuti e celebrati.
Non solo ero amico di Fleres, ma anche di Capuana che dopo circa cinque anni era ritornato a Roma per poi essere richiamato a Catania per ricoprire la cattedra di Stilistica che era appartenuta a Mario Rapisardi. Per Capuana fu quello un periodo di intenso lavoro che riuscì a pubblicare importanti opere. Fu lui a consigliarmi di scrivere il mio primo romanzo che portai a termine dando allo stesso un titolo: “L’Esclusa”, mentre mi trovavo sul Monte Cave, in un convento abbandonato. Alloggiai in una ex cella monacale soffrendo i primi freddi autunnali.
Mi creda Seddio, di quel periodo ricordo tutto perfettamente, e dire che di anni ne sono passati, ma la spensieratezza che ci accomunava ha lasciato solchi profondi. Intanto io, sempre su consiglio di Capuana, ero riuscito a terminare il secondo romanzo, “Il turno”, e posso dire che la critica ufficiale non fu parca, anzi sembrò capire il senso di quelle trame.
Ecco, pensi, che quasi tutte le riunioni si volgevano in casa di Capuana, poi in quella di Ugo Fleres, al quinto piano di uno stabile al Lungotevere Mellini, e poi in via San Nicola da Tolentino per andare poi in via Nazionale. A volte invece in casa di Giuseppe Mantica, al Corso, di fronte ad Aragno, o in casa mia, il Porto di Ripetta e dopo il mio matrimonio, in via Sistina, sul Tritone, poi in via Vittoria Colonna, nel Palazzo Odescalchi. Quando era assente Capuana, il Flores si assumeva la funzione di guida del gruppo, e perfino maestro di stile. Infatti, lo stesso, cercava di restaurare la tradizionale pulizia della prosa letteraria italiana nel contesto veristico della letteratura di quegli anni romani.
Io cominciai la mia carriera di professore al Magistero nel 1897, la cattedra che era stata lasciata dal Mantica. Avevo altri amici, come il messinese Salvatore Saya, compositore di musica alla Sinagoga, Italo Palmarini, novelliere, e altri con i quali intrattenevo un ottimo rapporto culturale, letterario ed anche di divertimento.
Non eravamo certo secchioni, musoni, assorti in chissà quali elucubrazioni. No, professionisti certamenper te, artisti nel senso più bello della parola, ma anche giovani, pieni di speranze e aspettative.
Io cercai di apprendere il più possibile perché la mia sete di conoscenza sembrava non avesse fine. E bene ho fatto analizzando come si è poi svolta la mia attività di scrittore più che da professore.
Dopo aver trascorso un po’ di tempo a parlare di movimenti letterari, finivamo la serata giocando a tressette o scopone e sempre più erano i letterati e artisti in genere che venivano a trovarci, quasi tutti che frequentavano l’Università di Roma.
Poi agli inizi del Novecento ci si riuniva presso i caffè letterari, come ad esempio al Caffè Greco, un classico e tranquillo ritrovo, poi al caffè Busi, in via Veneto, di fronte al famoso albergo Excelsior. Anche qui ebbi occasione di incontrare altri amici, tra cui Ugo Ojetti, Pascarella, e Nino Martoglio, con il quale instaurai un vero rapporto amicale e che mi spinse a scrivere per il teatro, io che pensavo di non essere predisposto a questa forma d’arte. Se avessi saputo come poi sarebbe finita!
Nonostante tutta questa atmosfera, confesso che forse ero il solo a non ritenermi soddisfatto perché nel mio cervello erano sempre presenti quei benedetti (o maledetti) fantasmi. Intanto a Roma era venuta ad abitare una scrittrice proveniente dalla Sardegna, Grazia Deledda, che nei miei confronti non ebbe mai un atteggiamento positivo, anzi mi ha sempre avversato dichiarandosi nemica forse perché leggendo il mio romanzo “Suo marito”, secondo lei, il riferimento alla sua vita privata, era quanto mai palese e per questo non volle mai avere incontri o contatti. A furia di incontrarci con gli amici e fare proposte letterarie, nacque l’idea di costituire un giornale di gruppo, che chiamammo “Ariel”.
La testata fu disegnata da Flores e rappresentava, accanto al titolo, un genietto che brandiva un oggetto che stava fra una penna e una bacchetta. La fondazione fu decisa in casa di Giuseppe Mantica, versando come quota la somma di lire cento. Io, Ugo Fleres, Giuseppe Chiovenda fummo nominati redattori, mentre Italo Carlo Falbo, assunse la carica di direttore responsabile.
Ma la vita del giornale fu alquanto breve per una serie di motivi, comunque fu una gran bella esperienza ed io ebbi la possibilità di scrivere e pubblicare tutta una serie di articoli. Uno dei motivi, strettamente personali, il fatto che non ero sempre disposto ai compromessi, ritenendomi uno spirito libero e quindi non propenso a sottostare a regole impartite dagli altri. Forse questo è stato considerato il mio limite, ma è difficile che un cavallo diventi somaro o viceversa.
Voglio ricordare che in quella rivista pubblicai anche un mio atto unico teatrale che definitivamente prese il titolo “La morsa” interpretato da Zacconi e letto da Capuana in casa sua. Questo testo fu causa di un violento litigio con Flavio Andò, attore siciliano, che nonostante le promesse non riuscì mai a rappresentarlo ed io gli scrissi un lettera di protesta che portò quell’attore a sfidarmi a duello. Grazie alla mediazione di Boutet, il duello fu annullato ma io per anni non volli più sapere di scrivere per il teatro. Ecco la motivazione vera di questo mio diniego, quindi correggo tutte le altre interpretazioni scritte.
Ed io che credevo di vivere in un’isola felice, circondato da seri e provati artisti. No, mi illudevo, perché come è risaputo, ho avuto anche con un altro celebre attore siciliano, Angelo Musco, degli alterchi che poi mi costrinsero ad allontanarlo e a non fargli più rappresentare opere mie. Avevo dell’arte teatrale, una volta avvicinatomi, un’idea precisa spesso non condivisa da questi interpreti che ancora si muovevano come i guitti della Commedia dell’Arte. Tutto, anche per i drammi, loro, per garantirsi gli applausi, spesso ne svilivano il contesto dell’opera, adattandolo alla loro proterva sete di gloria e di protagonismo.
Comunque sia finita con la rivista, io continuai a scrivere novelle e qualche saggio che vennero pubblicate su riviste specializzate.
La più importante collaborazione fu con la rivista fiorentina “Marzocco” di proprietà dei fratelli Orvieto che pubblicava anche opere di Pascoli e D’Annunzio. Già fin d’allora i rapporti con questo poeta, scrittore sui generis, non furono mai improntanti sulla collaborazione e giustamente è stato sempre scritto che fummo nemici i quali purtroppo per molti anni si trovarono vicini e sempre antagonisti. Il mio destino.
Io certo non potevo competere con la sua eleganza sfegatata: due dita di polsini inamidati fuori dalle maniche, il colletto alto, il tubino e giacche di taglio molto ardito. No, non avrei mai potuto indossare quegli “abiti”, e non era solo per questo, ne parlerò più avanti. Poi collaborai con la rivista fondata da Lo Gnoli, “L’Italia” e proprio nel 1897 pubblicai la novella “Vexilla regis” e trovò pure pubblicazione la poesia del Carducci “La chiesa di Polenta”.
Confesso, con tutta sincerità, che nonostante la mia attività letteraria, con pubblicazioni di vario genere, mi accorgevo che non venivo mai considerato, quasi del tutto dimenticato, e questo mi faceva stare male seppur il mio intendimento a continuare era alquanto presente e stimolante. Avevo sempre l’aiuto di Capuana che cercava di scrollarmi quel pessimismo che si andava formando, quasi a creare una seconda coscienza.
Io continuavo, la domenica, a frequentare i convegni domenicali in casa dello stesso, ed era questo incontro che, a volte, mi ridava la carica, seppur per breve tempo. Trascorrevo il mio tempo a scrivere, a preparare trame, a immaginare personaggi, a tentare di uscire da un certo mio immobilismo perché alla fine volevo essere riconosciuto per quello che potevo valere, sentendo in me, quella carica che mi portava a sperare. Non sapevo che il mio desiderio, seppur in condizioni quasi disperate, si sarebbe realizzato. Ma ancora tutto era in embrione. L’unica certezza? Mi sarei sposato quanto prima con una donna siciliana. Inutile dire che questo matrimonio, come sempre, fu portato avanti da mio padre che non voleva che io continuassi a rimanere scapolo.
Va bene la letteratura, il lavoro, ma per Dio, un giovane che comincia ad avere la sua età, non può rimanere scapolo e magari lui in cuor suo sperava di diventare nonno. Ecco, essere nonno ed io sposato e padre. Ebbe la complicità dell’altro padre-socio, Calogero Portulano, che dava in sposa la giovane figlia Antonietta. Intanto la mia mente cominciava ad affollarsi di domande, di riflessioni, di riluttanti convinzioni, e certo mi davano una certa inquietudine tanto che qualche amico di allora mi incitava a sorridere e non dimostrare quella serietà che mi aggrottava la fronte e mi rimpiccioliva gli occhi. Senza volerlo stavo iniziando a creare l’uomo farneticante che avrebbe avuto un ruolo decisivo tanto che sarà identificato con me stesso.
Mi sembra opportuno, prima di andare avanti a raccontare, soffermarmi per sottolineare alcuni passaggi che riguardano esclusivamente la mia interiorità che non prescindeva dall’acquisita maturità ed esperienza in quel periodo a contatto con tanti amici, conoscenti, artisti in genere. Avevo, per dare un primo saggio della mia nuova interpretazione della vita, nel suo complesso, scritto un testo “Arte e coscienza d’oggi”, preparata intorno al 1893 dove effettuavo un esame di coscienza compiuto con tanta sincerità. Tentavo di valutare la coscienza contemporanea e guardandomi attorno ho cercato di fare delle precise considerazioni.
Emerse, tra le altre cose, che ero distante da Dio, e quindi mi professai ateo, suscitando, com’era prevedibile, un mare di polemiche. Da qui l’idea che presentavo un uomo farneticante, compresso dal suo stesso pensiero ingarbugliato, arido, cinico e per niente credibile. Ecco cosa si pensava di me, di quello che intendevo dire e magari non riuscivo ad essere chiaro. Ma dentro di me lo ero e fin troppo. Studiate attentamente queste mie esternazioni, giustamente è stato scritto che si intravedeva, nelle parole, il piglio giovanile capace di esprimersi in questo modo e negavano che avessi ricevuto influsso da alcuni classici di autorevoli uomini del pensiero. Ed era quindi giusto supporre che possedevo ancora una cultura giovanile e superficiale, ma stranamente tutta la mia vita è stata un continua conferma di quei pensieri.
E’ anche vero che la mia intuizione si presentava senza mutamento e quindi si configurava in una realtà di solitudine, di dissociazione, di ribellione e di profonda coperta passività. E’ stato duro, assai duro cercare di convincermi che avrei potuto ribaltare quelle analisi, ma alla fine non ci sono riuscito del tutto. Capii, a mie spese, che su queste basi si è aperto il processo della trasformazione e delle metamorfosi dei personaggi e quindi mi convinsi che la vendetta era fatta e l’arte avrebbe vendicato la vita. Allorquando scattò il congegno mi accorsi di essere chiuso in una gabbia e mi adeguai a vivere vibratamente, agitatamente, impazientemente giacché provvisto di un’insita capacità di contrasto e di focosa reazione. Tutta la mia ribellione risultava dai miei scritti. Ed ecco che la sofferenza e la passione, che diventeranno disperazione, da quel momento non mi hanno più lasciato.
Tutto il mondo sembrava volermi schiacciare; ero vittima dei miei stessi incubi, quelli vissuti e sempre presenti, al Caos, dove mi ero convinto che solo ribellandosi si possono ottenere le cose per non parlare di quella ossessiva presenza dei fantasmi che certo non contribuivano a rasserenarmi. Su questi aspetti tanto si è scritto, ma ora sono io a parlarne personalmente e spero di poter mettere in evidenza le vere motivazioni che mi hanno accompagnato nel corso della mia vita.
Ed ora mi trovavo ad affrontare un altro problema che io non avevo creato ma del quale sarei subito rimasto vittima, incapace di ribellarmi e che, lo si sa, mi ha provocato un mare di sofferenze, di incomprensioni, di inquietudini, di aneliti per il suicidio, insomma un vero inferno che vivevo in terra, sempre pellegrino contro ogni mia ferma volontà. Quasi improvvisamente, senza che me ne accorgessi, caro Seddio, mi trovai ad avere sulle spalle trent’anni consapevole che negli ultimi anni tutto era cambiato e se avessi voluto fare un primo consuntivo non potevo considerarmi soddisfatto a parte il successo come scrittore, ma i problemi che avevo davanti mi sembravano davvero invalicabili, soprattutto quelli familiari e se a casa non hai pace, tranquillità, non puoi mai considerarti soddisfatto. Se ti manca la pace interiore sarai sempre a combattere non solo con i tuoi fantasmi, ma con le persone più vicine, più care, ed in questo caso mia moglie Antonietta che non migliorava per niente, anzi sembrava peggiorare di giorno in giorno. Certo quel crac finanziario delle zolfare l’aveva segnata profondamente ed io dubitavo che tutto sarebbe tornato normale, ma certo non disperavo in quanto sapevo a quale compito ero già chiamato.
Pietro Seddio
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