Di Pietro Seddio.
Scrivendo, invertendo storie, creando personaggi mi sarai liberato e solo così i fantasmi mi avrebbero abbandonato. Sapevo che sarei stato a combattere da solo, strenuamente con la sola arma che possedevo, la scrittura la quale mi avrebbe preservato da tutti gli attacchi.
Io sono figlio e uomo del Caos
Per gentile concessione dell’ Autore
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Io sono figlio e uomo del Caos
Capitolo 11
Il mondo letterario
Riprendendo il discorso da dove l’ho interrotto, riferendomi alla mia nuova esperienza evidenzio che molti critici hanno cercato di focalizzare le prerogative del mio essere più maturo, con una buona dose di esperienze, ansioso di novità, curioso e poeta. E’ vero e per quanto riguarda l’essere considerato poeta, come ebbi a scrivere a mia sorella, avevo già composto metà del volumetto in versi: “Mal giocondo” e in cuor mio mi sentivo soddisfatto.
Nel contempo avevo fatto incetta di classici latini e italiani leggendo anche i poeti a me contemporanei che mi aiutarono molto a scrivere anche poesie. Avvertivo un certo scetticismo, lo sprezzo per il mondo e queste sensazioni le esternai a mia sorella poco prima di partire per Roma. Nonostante questi sentimenti, (o sensazioni) forse ancora non definibili, avevo una certa fiducia in alcuni progetti nei quali credevo.
Tutto questo non era facile, comprensibile e qualche volta entrai in profonda crisi. Alla fine decisi di mettermi a scrivere forse per allontanare quei fantasmi che sembravano impossessarsi, sempre di più, della mia mente e questo non potevo permetterlo.
Avevo chiaro, ormai, che la mia strada da percorrere fosse quella della letteratura che mi avrebbe consentito di sopravvivere e nel contempo sfogarmi.
Scrivendo, invertendo storie, creando personaggi mi sarai liberato e solo così i fantasmi mi avrebbero abbandonato. Sapevo che sarei stato a combattere da solo, strenuamente con la sola arma che possedevo, la scrittura la quale mi avrebbe preservato da tutti gli attacchi. Ero ancora giovane ma già consapevole del destino che mi era stato riservato.
Come punto di riferimento, trovai alloggio nella casa di mio zio, un eroe garibaldino ormai dimenticato che sembrava squagliarsi giornalmente crogiolandosi nei ricordi passati e già quasi sbiaditi. Era diventato consigliere di prefettura, ma conduceva una vita grama, abulica. Fu capace, per indolenza, a rifiutare la carica di prefetto per non allontanarsi da Roma.
Compresi perfettamente la trasformazione di un eroe che era diventato l’ombra di se stesso, un fantasma, più volte pensai. Diventerà, in un secondo tempo, il prototipo dei vecchi lottatori del Risorgimento così mal ridotti dalle esaltanti vicende politiche di quella terza Italia. Che dire ancora di lui?, finirà sul piano della prosa più modesta.
Ricordo ancora che viveva con una ex cantante che sposò in un secondo tempo. Questa annotazione spesso, tramite lettere, la riferivo a mia sorella Lina e a mio cognato Calogero De Castro. Un modo come l’altro per vincere la solitudine che mi opprimeva da mane a sera. Per quell’innato senso di libertà lasciai l’abitazione di mio zio e mi trasferii in una pensione in via delle Colonnette, non distante dalla casa dello stesso mio zio.
La straduccia era stretta, sicché dalla terrazza della casa dello zio si poteva facilmente comunicare con la stanza da me abitata. Così ci si chiamava anche due volte al giorno, secondo il disordinato variare dell’ora del pranzo e della casa. Questa seconda mia abitazione è stata abbattuta. Dava sul quartiere di Ripetta e sull’ansa del Tevere fra ponte Margherita, Ponte Cavour e Ponte Umberto, e, al di là del fiume, sul Lungotevere Prati. Mi rimase così impresso che, quando si presentò l’occasione citai tutto nel mio famoso romanzo con il quale arrivai al successo. Ma cosa mi era costato? Quali sacrifici mi avevano obbligato a scriverlo? Condividevo l’appartamento con un altro studente, e le finestre erano prospicienti il fiume.
Riuscivo a vedere in fondo Monte Mario, Ponte Margherita ed il nuovo quartiere di Prati fino a Castel Sant’Angelo. Si dominava anche il vecchio ponte di Ripetta e il nuovo che si andava costruendo accanto, il Ponte Umberto e tutte le vecchie casa di Tordinona che seguivano la voluta ampia del fiume.
In fondo, da quest’altra parte, si scorgevano le verdi alture del Gianicolo, col fontanone di San Pietro in Montorio e si vedeva anche la statua equestre di Garibaldi. Nonostante il tempo trascorso ho la fortuna di ricordare tutto con nitidezza.
Ricordo, che nonostante fossi circondato da questo spettacolare panorama, io ero ancora posseduto da una tristezza a tratti baldanzosa, e si vede, ancora, che sono evidenti i segni dell’inquieta negazione della realtà, che sarà il costante mio convincimento.
Mi ero messo a scrivere un primo testo teatrale: “Gli uccelli dell’alto”, apportando alcune modifiche e di questo mio lavoro informai, come solitamente facevo, mia sorella Lina. Ultimato il lavoro provvidi a lanciare le carte dalla finestra. Mi cimentai con un’altra commedia “Le popolane” che diedi a due attori assai noti. Non fu l’unica, ma nessuna venne rappresentata. Il tempo, forse galantuomo, ha risucchiato queste mie prime esperienze di scrittore teatrale e tutti i testi sono andati distrutti. Mi convinsi che la strada del teatro non mi si addiceva perché per la realizzazione della rappresentazione concorrevano tanti elementi quasi sempre non dipendenti dalla mia volontà. Allora? Era meglio darci un taglio netto.
Ebbi notizia nell’ottobre del 1887 che mia sorella Lina si sposava ed io, così, anche per diletto, non mi negai scrivendo qualche poesia. Ma confesso che mi lasciai prendere dalla fantasia e alla fine non celebrai le nozze di mia sorella, ma un certo modo di esprimere la mia conoscenza culturale che fece deviare l’amore della sposa nei confronti dello sposo.
Continuai, comunque, una volta che Lina si era sposata, ad inviarle lettere cercando di raccontare anche i particolari proprio perché quel filo interiore volevo non si interrompesse mai. Era l’unico punto di riferimento considerato l’abisso tra me e mio padre e l’incapacità di comunicare, attraverso lettere, con mia madre che comunque rimaneva sempre viva nei miei pensieri. E la sua mancanza mi procurava il sanguinamento interiore, spesso mi prostrava.
Quando non ero impegnato con la scrittura mi facevo delle ampie passeggiate e quindi visitai l’Anfiteatro Flavio, gli archi di Costantino e di Tito, così ho visto le rovine del Foro, il Palatino, e preso da questo senso nuovo, scrissi una poesia: “La caccia di Domiziano”.
E poi il Campidoglio ammirando la statua di Marc’Aurelio, poi l’Ara Coeli, la via Vittorio Emanuele raggiungendo il Ponte Ripetta fermandomi a guardare l’acqua del Tevere che scorreva tumultuosa, frettolosa, quasi a volersi perdere in altri lidi forse meno affollati e rumorosi.
Io poi andai a Bonn, come è notizia certificata, ma ritornai ancora a Roma e confesso che questa volta trovai la città diversa, essendo stato testimone dello scandalo della Banca Romana e avendo percezione dei sommovimenti dei Fasci Siciliani.
Quindi tanta delusione, dove si vedevano miseri impiegati, professorucci, ridevoli letterati, interni squallidi, infime pensioncine, caffè intorno alla stazione con tipi strambi, sovreccitati, infelici solitari. Nemmeno i movimenti avevano quell’attrazione che avevo notato la prima volta che ero arrivato in quella città.
Molto probabilmente all’eccitazione giovanile ora era presente la consapevole maturità che mi faceva osservare tutto con una diversa prospettiva. L’unica sensazione piacevole allorquando guardavo “il Colosseo al lume di luna”.
I vent’anni, caro Seddio, sempre illuminati da raggi di luce misteriosa che fanno vedere le cose in modo diverso. Mi era accaduto quando era arrivata a Girgenti la luce elettrica che mi aveva dato la possibilità di vedere cose che prima non avevo visto, così mentre mi portavo a Roma, ero certo di non vedere più quanto registrato a Girgenti e Porto Empedocle. Dovevo vivere in un altro mondo, ma così non è stato e mi sono ritrovato circondato da un’umanità in continua sofferenza. Ma allora la vita era proprio tutta una illusione? Deleteria per ogni uomo? Ma Roma non era la capitale del mondo? Si. Ma questo, compresi subito, non la riservava dall’essere abitata dagli stessi uomini, donne, vecchi, bambini. Ed io cominciai ad odiare le folle. Proprio in una poesia, contenuta in quel primo volume di versi, ho elencato tutte quelle entità che si muovevano, che sembravano fantocci, pupi, fantasmi, e questo provocò ancora un’altra lacerazione nel mio cuore. Voglio ricordare un verso, per far comprendere il mio stato d’animo:
“Oh viaggio curioso delle vite sciocche d’innumerevoli mortali! Oh per le vie de la città spedite che retata di drammi originali”.
Scrivevo tutto il mio disappunto e questo mi diede la possibilità di partecipare all’altrui miseria, provando tanta pietà seppur non mancò in me la derisione, il disamore, il disprezzo. A volte mi odiavo perché sentivo di non essere coerente e sembrava che certi sentimenti mutassero improvvisamente lasciandomi un po’ del tutto interdetto.
Odiai, ecco, odiai anche la vecchiaia. Mi domandavo che tipo di poesia scrivevo? Da dove arrivavano quei concetti che certo non mi garantivano una benevolenza. Sarei sempre stato odiato, contrastato, contestato. Non capivo, in quel momento, che nel mio cuore si era insinuato il virulento senso dell’odio, quello stesso che è rimasto e che per un verso mi si è riversato addosso.
La mia gioventù annegava in questo groviglio di pensieri, di deduzioni, ed anche negli insetti vedevo i portatori di punizioni e distruzione.
E come sempre accadeva lo comunicavo a mia sorella che certo sarà rimasta sorpresa per quegli scritti che denunziavano tutto il mio malessere. Ma può un giovane essere assillato da queste problematiche? Possibile che non riuscivo a vedere altro?
Giustamente è stato detto che sono state malinconie giovanili ed anche “allegre” in un certo senso, seppur corrispondevano a un modulo costante e tutt’altro che esteriore della mia anima.
Balenò, a quel punto, l’idea di strapparmi la maschera per continuare ad esercitare quella professione se non volevo precipitare in una sorta di pessimismo che avrebbe condizionato la mia vena creatrice. E comunque ero riuscito a terminare il volume di poesie.
Siccome, caro Seddio, delle mie opere, in tutti questi lunghissimi anni, si è parlato, scritto, analizzato, anche a sproposito, come ho già sostenuto, non mi soffermerò sulle stesse perché le analisi si possono facilmente leggere ed è facile acquistare un qualsiasi testo per comprendere la mia opera, purché la si valuti con attenzione, ma soprattutto si sappia leggere tra le righe; è importante questa precisazione.
In questo frattempo, mentre mi trovavo a dibattermi con i miei non felici pensieri, con le mie negative riflessioni e con le mie sconcertanti esperienze, sapevo che incombeva un altro impegno che mi teneva desto e nervoso. Non avevo certo dimenticato dell’impegno preso dai miei genitori per quanto atteneva il matrimonio che sembrava essere imminente.
Forse si riderà, ma in più occasioni, mi mettevo di fronte allo specchio, mi guardavo a lungo e poi, quasi a voce alta, mi dicevo: “Ma sono proprio deciso a compiere questo passo?
E qui mi permetto una parentesi facendo riferimento allo specchio che sarà, in seguito, un vero protagonista con il quale non solo io mi confrontavo, ma ho costretto alcuni dei miei personaggi a farlo per constatare il risultato finale. Una sorta di gioco che alla fine tanto gioco non si è rivelato, e comunque un gioco assai crudele.
Scrivendomi alla Sapienza decisi di non frequentare la facoltà di legge in quanto volevo concentrami su quella di lettere seppur tante furono le motivazioni.
Comunque quella fu la mia decisione. Mi trovai a dover constatare che la maggior parte dei docenti erano già avanti negli anni, non preparati culturalmente e cercai di adeguarmi. Ricordo che il professore Nannarelli ripeteva sempre le stesse lezioni dantesche; il professor Lignana insegnava il sanscrito e non ammetteva contradditori, poi c’era il professor Onorato Occioni, veneziano, sessant’enne che insegnava letteratura italiana e che era anche Magnifico Rettore proprio dell’Ateneo.
Ho saputo che Gabriele D’Annunzio fu un suo allievo. Lo stesso scrittore avrà, anche lui, modo di ricordare questo professore.
Io, non ero per niente entusiasta del metodo di insegnamento di questo docente giacché consideravo quelle lezioni di modestissima fattura adatte a studenti di liceo e, forse era già scritto, tra me e questo docente scoppiò la grana. Io e un mio compagno, constatando l’errore del docente, ci scambiammo degli sguardi critici che colpirono l’attenzione del docente il quale non ci pensò due volte a rimproverarmi anche pesantemente.
Non potei sopportare e rispondendogli a tono, prima di lasciare l’aula, gli spiattellai cosa pensavo di lui e del suo metodo d’insegnamento. Essendo rettore provvide a riunire il Consiglio della Facoltà che mi deferì al Consiglio di disciplina. Il risultato finale: dovetti abbandonare l’università. Per fortuna che intervenne direttamente il professore Ernest Monaci, che insegnava una materia nuova, la filologia romanza, ed era abbastanza giovane il quale mi consigliò di cambiare aria, si, andare via da Roma, perché ormai ero segnato e nessun ateneo più avrebbe consentito la mia iscrizione. Ecco, intuii che quella mafia della quale avevo avuto certezza in Sicilia, me la ritrovavo a Roma e nello specifico all’interno degli atenei.
Per un anno comunque assistetti alle lezioni del professore Monaci il quale alla fine mi convinse di espatriare e per essere precisi di frequentare l’università a Bonn dove insegnava il professor Foerster, anche lui la materia filologia romanza. Accettai con predisposizione costruttiva quell’indicazione così mi avventurai ad andare a Bonn potendo contare sull’appoggio finanziario, più oneroso, da parte di mio padre. Si pensò di andare a Berlino, ma alla fine, dopo alcune oculate disamine, si decise per Bonn facendo prevalere il senso del dovere.
Ma prima di andare a Bonn, decisi di fare ritorno a Girgenti per trascorrere un periodo d’estate con i miei che già non vedevo da tempo.
Volli, tra le altre cose, visitare la biblioteca Lucchesi Palli, dove già ero stato e che nel tempo era stata gestita da un grande studioso di testi arabi, ma vi ritrovai le stesse carenze, lo stesso abbandono. Che delusione!
C’erano, questa volta, alcuni bibliotecari, ma certo non si curavano affatto né dei libri, messi alla rinfusa, né degli scaffali impolverati e pieni di ragnatele che consentivano a topi e scarafaggi di passeggiare tranquillamente mentre gli addetti mangiavano e per niente assolvevano i loro incarichi. Tutto era in disordine, completo abbandono e provai tanta pena, convinto che Girgenti non sarebbe mai riuscita a risollevarsi.
La Biblioteca Lucchesiana è una biblioteca situata nel centro storico della città di Agrigento, in Sicilia. Nasce nel 1765 grazie all’opera del vescovo di Agrigento, Andrea Lucchesi Palli, membro della famiglia principesca dei Lucchese Palli. Il vescovo lasciò la biblioteca in eredità agli agrigentini, ma questa fu vittima di infestazioni e frane e fu trascurata fino al 1977, anno in cui iniziarono i lavori di restauro.
La biblioteca, ormai, si è dotata di più di 60.000 volumi, manoscritti, codici miniati e incunaboli. Nel XVIII secolo furono costruiti, nel centro della città di Agrigento in via Duomo, una serie di palazzi tra cui il complesso dei Padri Liguorini, il Palazzo vescovile e numerose dimore signorili. La conformazione generale della via, rimasta poi inalterata, fu data per volontà dei vescovi, spinti dal desiderio di riaffermare la supremazia della diocesi sulla città agli abitanti. In particolare, al vescovo Andrea Lucchesi Palli si deve la ristrutturazione del Palazzo vescovile e la costruzione, nel 1765, della stessa Biblioteca in posizione adiacente al Palazzo.
Nei primi anni di vita, la biblioteca godette di notevole prestigio e prosperità, grazie soprattutto alla mole notevole di libri e oggetti donati dal vescovo. Questi, infatti, già da diversi anni possedeva una vasta collezione di volumi (circa 20.000 tra libri di scienze, diritto, teologia e letteratura), e rari oggetti antichi, come gemme, pietre dure, antiche monete romane, greche e siciliane: il tutto fu reso disponibile agli studiosi per la consultazione. Il vescovo donò alla biblioteca anche mobili, come tavoli di lettura e scaffalature pregiate, e fece incidere sul marmo il regolamento d’uso della Biblioteca, che era gestita da una delegazione di canonici.
“Andrea conte Lucchese Palli, Vescovo di Agrigento, apre al pubblico la sua biblioteca ogni giorno feriale, 2 ore prima e 2 ore dopo il mezzogiorno. Tutti possono entrare liberamente, ma nessuno lo faccia di nascosto. Nessuno prenda da sé dagli scaffali il libro che vuole, ma lo richieda al personale e lo tratti bene, non lo danneggi con tagli e colpi di punteruolo, non vi scriva delle note, non ci metta dei segnalibri e non strappi i fogli. Non si ci appoggi sopra e se si deve scrivere, non ci si metta sopra la carta, e l’inchiostro e la sabbia si tengano lontani a destra. Il chiacchierone, il pigro, lo sfaccendato stiano lontani. Si tenga il silenzio e non si disturbino gli altri leggendo ad alta voce. Chi va chiuda i libro; se è piccolo lo lasci sul tavolo e chiami l’addetto. Non si paga niente, si va più ricchi, si ritorna spesso”.
Nel 1768, con la morte del vescovo, si scatenò una contesa tra l’amministrazione della biblioteca e la famiglia dei Lucchese Palli, che si risolse con l’affidamento del patrimonio scientifico all’amministrazione e di quello finanziario agli eredi della famiglia principesca. I primi segni del decadimento della struttura iniziarono a vedersi nel periodo che va dal 20 giugno 1862 al 10 marzo 1899, in cui l’amministrazione era affidata al Comune di Agrigento. In tale periodo, infatti, si verificarono perdite importanti, come la dispersione e la scomparsa di alcuni manoscritti greci, arabi e latini e di alcuni elementi del patrimonio antiquario della biblioteca.
Da questo periodo in avanti, la biblioteca fu gestita malamente e con scarse risorse fino alla seconda metà del XX secolo. Parte del grande salone interno, ospita la statua raffigurante Andrea Lucchesi Palli. Un primo tentativo di restaurare la biblioteca fu fatto nel secondo dopoguerra, ma fu interrotto da una serie di eventi che la coinvolsero negli anni sessanta. Primo tra questi, un’infestazione di termiti che colpì la biblioteca nel 1963, e che fece crollare completamente il tetto del salone principale e delle due stanze adiacenti.
Successivamente, la frana di Agrigento del 1966 e dopo pochi anni il terremoto del Belice del 1968 provocarono l’interruzione definitiva dei lavori di restauro e il conseguente trasferimento dei volumi nel museo civico. Il tetto della sala di lettura rimase scoperchiato fino ai lavori di restauro del decennio successivo. Nel 1978, i lavori di consolidamento ripresero, dando anche l’opportunità alla Soprintendenza dei beni librari della Sicilia occidentale di catalogare e censire i testi che erano stati spostati al museo civico.
La biblioteca fu riaperta ufficialmente al pubblico nel 1990. La Biblioteca Lucchesiana è situata in via Duomo 94, tra la chiesa di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori e il museo diocesano, posto all’interno del palazzo vescovile. Si articola su tre piani: al piano terra si trovano l’ingresso e un ampio salone, attrezzato per accogliere convegni e per la riproduzione di diapositive e filmati. Tale salone è stato dotato anche di alcune vetrine per esporre temporaneamente elementi del patrimonio. Al primo piano sono presenti altre due sale, con scaffali di legno restaurati dalla Soprintendenza dei Beni Artistici e Storici e la statua di monsignor Lucchesi Palli. Al secondo piano, si trovano altre sale con scaffalatura in metallo e gli uffici.
Per lungo tempo non fu chiara la posizione giuridica della biblioteca: per essere considerata comunale, infatti, questa sarebbe dovuta essere donata da Andrea Lucchesi Palli direttamente al Comune di Agrigento. Egli, tuttavia, lasciò la biblioteca in eredità al popolo agrigentino, tramite un atto di donazione che fu redatto con grande minuzia e confermato da un notaio pochi giorni prima della morte del vescovo. Inoltre, poiché il patrimonio librario è stato devoluto ai cittadini e non ai religiosi, la biblioteca non può neanche considerarsi una biblioteca privata di proprietà di un ente religioso. La personalità giuridica corretta è invece quella di ente morale autonomo. Ecco, caro amico mio, mi sono soffermato su questa descrizione perché da sempre sono stato interessato a questa biblioteca, importantissima, che spero nel futuro abbia migliore fortuna.
Purtroppo, e qui riprendo il discorso interrotto, non fu possibile raggiungere subito Bonn in quanto mi ritrovai ancora ammalato e per alcuni giorni fui costretto a rimanere a letto.
Poi mi fermai a Como per rimettermi prima di affrontare l’inverno in quella città così approfittai per prendere qualche lezione di tedesco. Per circa un mese abitai a Cavallasca, vicino Como, in casa del cognato e andai a finire in una villa che era stata della famiglia Imbonati e di Garibaldi che la scelse come quartier generale prima dello scontro di San Fermo. Conobbi una ragazza che per un certo verso sembrò farmi allontanare da mia cugina e ancora la ricordo, seppur debbo sottolineare che non mi innamorai più di tanto. Volutamente l’ho dimenticata e di lei non ho mai voluto dare alcuna indicazione.
In ottobre raggiunsi finalmente Bonn dove iniziai a prendere contatti, seppur fu molto difficile, in quei momenti, comunicare con loro anche per la difficoltà di linguaggio. Comunque confesso, che al di là di tanti problemi, non ultimo la salute, trascorsi un buon anno in piena allegria. Ero sereno, studiavo e trascorrevo le mie giornate senza sussulti. E poi il denaro non mi mancava. Mi piaceva vestirmi in modo elegante così poter entrare nelle simpatie di famiglie borghesi, di burocrati, militari presenti in quella città. La stessa non mi fu inospitale tanto che affermai di trovarmi in mezzo a “gente molto garbata”.
Lo scrivevo sempre a mia sorella, alla quale avevo detto che albergavo presso l’Hotel zum Munster, constatando che la vita era meno cara di quella di Roma. Conducevo una vita ordinata: la mattina colazione abbondante, a mezzogiorno il pranzo con un brodo o una minestra assai gustosa, poi un tocco di carne ben cucinata con abbondante contorno, frutta, dolce e caffe, e poi alle sedici una birra e poi intorno alle diciotto un piatto di carne o pesce accompagnata con insalata o formaggio e frutta. Per questo i soldi che mio padre mi mandava, trecento marchi, mi bastavamo. Ricordo che l’albergo si trovava di fronte alla cattedrale cattolica. Poi mi trasferii al n. 1 di via Neuthor dove pagavo 25 marchi per le due stanze ammobiliate in modo ineccepibile e per tutte le spese alla fine pagavo mensilmente quasi 61 marchi. La casa era scaldata in modo confortante e mi ricordavano quelle siciliane abitate da famiglie borghesi.
La stanza adibita a studio aveva delle scansie adibite a libreria, e tutto si presentava soddisfacente per le mie esigenze. Dal poggiolo in angolo si godeva un magnifico panorama e vedevo il Reno, i monti, la campagna, la città.
Le altre due finestre davano sulla piazza dove sorgeva la magnifica chiesa gotica dei protestanti. Non ci si crederà ma ho sempre avuto la fortuna, o sfortuna, di abitare quasi sempre di fronte a delle chiese. Comunque Bonn era una città silenziosa, per eccellenza, e poi questa mia nuova abitazione, lo confesso, la consideravo come il simbolo del silenzio.
Pietro Seddio
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