Per una fenomenologia dell’io pirandelliano (Con Audio lettura)

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Di Biagio Lauritano

Per Pirandello connettere l’esperienza alle nostre emozioni ci consente di accedere a quella che oserei definire l’ombra del vissuto in modo che il nostro io consiste nell’avvertire noi stessi e, nello stesso tempo, gli altri in un flusso vitale e continuo degli eventi: il concetto pirandelliano di vita è tutto qui.

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io Pirandelliano
Immagine dal Web

Per una fenomenologia dell’io pirandelliano

Per gentile concessione dell’Autore

Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza. 

Pirandello rifugge da ogni tentativo di adeguarsi a verità prestabilite che, soffocando i sentimenti in rigidi schemi ripetitivi e alienanti, alimentano la forma ovvero l’immagine deformata e superficiale della vita. Per Pirandello connettere l’esperienza alle nostre emozioni ci consente di accedere a quella che oserei definire l’ombra del vissuto in modo che il nostro io consiste nell’avvertire noi stessi e, nello stesso tempo, gli altri in un flusso vitale e continuo degli eventi: il concetto pirandelliano di vita è tutto qui.

Il primo tentativo in questa direzione viene fatto da Pirandello con “Il fu Mattia Pascal”. In questo romanzo assistiamo al progressivo svuotamento della capacità percettiva del protagonista, che inscenando due suicidi, alla fine sembrerebbe tornare al punto di partenza poiché ossessionato da una perenne ricerca dell’a priori, come se volesse trovare un principio del Tutto ovvero della vita e del sapere. Ma in realtà alla fine del romanzo Mattia Pascal è l’alter ego di se stesso, colui che, nel tentativo ossimorico di scoprire le sue pulsioni più intime, ha perso la capacità razionale di comunicare con la società.

Detto tentativo prosegue con i “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”, in cui il protagonista porta alle estreme conseguenze il tema del doppio arrestandosi di fronte al caos dell’oggettività perché impossibilitato a connetterla con la soggettività ovvero con il proprio io colpito da uno shock emozionale. In altre parole i sentimenti del protagonista rimangono intrappolati in circolo vizioso non trovando riscontro nella dimensione di un reale intraducibile e alla deriva. Le pulsioni interiori del protagonista, che vorrebbero anticipare la realizzazione pragmatica nella vita quotidiana, rimandano a un luogo e un tempo indefiniti alimentando un’attesa priva di entusiasmo nei confronti del futuro.

È invece con “Uno, nessuno e centomila” che arriva la svolta. Alla fine del romanzo Vitangelo Moscarda riesce ad immedesimarsi nella natura per liberarsi dallo spettro del proprio passato ovvero delle innumerevoli maschere che è costretto a indossare nel vano tentativo di dare un significato alla forma. La vita di Vitangelo viene così a rappresentare le pulsioni più nascoste dell’io che consistono, in questo caso, nella valorizzazione del diverso, di quello che c’è fuori di noi, nello specifico dell’immediatamente percettibile. È in questo modo che il protagonista del romanzo annulla il circolo vizioso del ritorno a se stesso ovvero alla solitudine innescando così un meccanismo automatico che, partendo dal proprio inconscio, ci proietta al di fuori di noi e, paradossalmente, dentro di noi consentendoci di “ascoltare le nostre pulsioni intime” attraverso le sensazioni della percezione, punti di contatto tra io e realtà. Nonostante le sensazioni siano “fluide ed inafferrabili” ovvero solo per chi si illude rappresentano l’ombra del nostro vissuto, non dobbiamo dimenticare che Vitangelo, alla fine del romanzo, diventa un tutt’uno con lo scorrere del tempo in modo che non gli sia più possibile distinguere tra tempo soggettivo e tempo oggettivo, tra ricordi passati, percezione del presente e previsione del futuro; anzi quest’ultima viene meno alla ratio del protagonista poiché vanificata dalla perenne attesa del nuovo la quale gli regala, ogni volta che si sente privato della ragione di un’esistenza autentica, l’ombra del vissuto ovvero il proprio futuro.

Biagio Lauritano
11 marzo 2023

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