Dono della Vergine Maria – Audio lettura 3

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Legge Valter Zanardi
«La gente però non sapeva ancor bene, se crederlo matto o imbroglione. Chi diceva matto, e chi imbroglione. Eretico era di certo; forse, indemoniato.»

Prima pubblicazione: Il Marzocco, 22 e 29 ottobre 1899, poi in L’uomo solo, Bemporad Milano 1922.

Dono della Vergine Maria
Artista sconosciuto, A Man Praying to the Virgin and Child. Immagine da ArtUK.com

Dono della Vergine Maria

Legge Valter Zanardi

Da Youtube

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             † Assunta.

             † Filomena.

             † Crocifissa.

             † Angelica.

             † Margherita.

             † …

             Così: una crocetta e il nome della figlia morta accanto. Cinque, in colonna. Poi una sesta, che aspettava il nome dell’ultima: Agata, a cui poco ormai restava da patire.

             Don Nuccio D’Alagna si turò le orecchie per non sentirla tossire di là; e quasi fosse suo lo spasimo di quella tosse, strizzò gli occhi e tutta la faccia squallida, irta di peli grigi; poi s’alzò.

             Era come perduto in quella sua enorme giacca, che non si sapeva più di che colore fosse e che dava a vedere che anche la carità, se ci si mette, può apparire beffarda. La aveva certo avuta in elemosina quella vecchia giacca. E don Nuccio, per rimediare, dov’era possibile, al soverchio della carità, teneva più volte rimboccate sui magri polsi le maniche. Ma ogni cosa, come quella giacca, la sua miseria, le sue disgrazie, la nudità della casa pur tutta piena di sole, ma anche di mosche, dava l’impressione di una esagerazione quasi inverosimile.

             Prima di recarsi di là, aspettò un pezzetto, sapendo che la figlia non voleva che accorresse a lei, subito dopo quegli accessi di tosse; e intanto cancellò col dito quel camposanto segnato sul piano del tavolino.

             Oltre al lettuccio dell’inferma, in quell’altra camera, c’era soltanto una seggiola sgangherata e un pagliericcio arrotolato per terra, che il vecchio ogni sera si trascinava nella stanza vicina per buttarvisi a dormir vestito. Ma eran rimaste stampate a muro, sulla vecchia carta da parato scolorita, qua e là strappata e con gli strambelli pendenti, le impronte degli altri mobili pegnorati e svenduti; e ancora attaccato al muro qualche resto dei ragnateli un tempo nascosti da quei mobili.

             La luce era tanta, in quella stanza nuda e sonora, che quasi si mangiava il pallore del viso emaciato dell’inferma giacente sul letto. Si vedevano solo in quel viso le fosse azzurre degli occhi. Ma in compenso poi, tutt’intorno, sul guanciale un incendio, al sole, dei capelli rossi di lei. E lei che, zitta zitta, a quel sole che le veniva sul letto si guardava le mani, o si avvolgeva attorno alle dita i riccioli di quei magnifici capelli. Così zitta, così quieta, che a guardarla e a guardar poi attorno la camera, in tutta quella luce, se non fosse stato per il ronzio di qualche mosca, quasi non sarebbe parsa vera.

             Don Nuccio, seduto su quell’unica seggiola, s’era messo a pensare a una cosa bella bella per la figliuola: alla sola cosa a lei ormai desiderabile, che Dio cioè le aprisse la mente, che quel duro patire lì sul saccone sudicio di quel letto nella casa vuota la persuadesse a chiedere d’esser portata all’ospedale, dove nessuna delle sorelle, morte prima, era voluta andare.

             Ci si moriva lo stesso? No: don Nuccio scoteva un dito, con convinzione: era un’altra cosa; più pulita.

             Rivedeva difatti col pensiero una lunga corsia, lucida, con tanti e tanti lettini bianchi in fila, di qua e di là, e un finestrone ampio in fondo sull’azzurro del cielo; rivedeva le suore di carità, con quelle grandi ali bianche in capo e quel tintinnio delle medaglie appese al rosario, a ogni passo; rivedeva pure un vecchio sacerdote che lo conduceva per mano l’ungo quella corsia: egli guardava smarrito, angosciato dalla commozione, su questo e su quel letto; alla fine il prete gli diceva: «Qua» e lo attirava presso la sponda d’uno di quei letti, ove giaceva moribonda, irriconoscibile, quella sciagurata che, dopo avergli messo al mondo sei creaturine, se n’era scappata di casa per andar poi a finir lì. – Eccola! – Già a lui era morta la prima figlia, Assunta, di dodici anni.

             –    Come te! quella non ti perdona.

             –    Nuccio D’Alagna, – lo aveva ammonito severamente il vecchio sacerdote. – Siamo davanti alla morte.

             –    Sì, padre. Dio lo vuole, e io la perdono.

             –    Anche a nome delle figlie?

             –    Una è morta, padre. A nome delle altre cinque che le terranno dietro.

             Tutte, davvero, una dopo l’altra. Ed egli, ora, era quasi inebetito. Se l’erano portata via con loro, la sua anima, le cinque figliuole morte. Per quest’ultima gliene restava un filo appena. Ma pur quel filo era ancora acceso in punta; aveva ancora in punta come una fiammellina. La sua fede. La morte, la vita, gli uomini, da anni soffiavano, soffiavano per spegnergliela: non c’erano riusciti.

             Una mattina aveva veduto aprire a un suo vicino di casa, che abitava dirimpetto, lo sportello della gabbiola per cacciarne via un ciuffolotto ammaestrato ch’egli, alcuni giorni addietro, gli aveva venduto per pochi soldi.

             Era d’inverno e pioveva. Il povero uccellino era venuto a batter le alucce ai vetri dell’antica finestra, quasi a chiedergli ajuto e ospitalità.

             Aveva aperto la finestra, e che carezze a quel capino bagnato dalla pioggia! Poi se l’era posato su la spalla come un tempo, ed esso a bezzicargli il lobo dell’orecchio. Si ricordava dunque! Lo riconosceva! Ma perché quel vicino lo aveva cacciato via dalla gabbia?

             Non aveva tardato a capirlo, don Nuccio. Aveva già notato da alcuni giorni, che la gente per via lo scansava, e che qualcuno, vedendolo passare, faceva certi atti.

             L’uccellino gli era rimasto in casa, tutto l’inverno, a saltellare e a svolare cantando per le due stanzette, contento di qualche briciola di pane. Poi, venuto il bel tempo, se n’era andato via; non tutt’a un tratto, però: erano state prima scappatine sui tetti delle prossime case: ritornava la sera; poi non era tornato più.

             E pazienza, cacciar via un uccellino! Ma cacciar via anche lui, buttarlo in mezzo a una strada, con la figlia moribonda… C’era coscienza?

             – La coscienza, don Nuccio mio, io ce l’ho! Ma sono anche ricevitore del lotto – gli aveva detto lo Spiga, che da tant’anni lo teneva nel suo botteghino.

             Ogni mestiere, ogni professione vuole una sua particolar coscienza. E uno che sia ricevitore del lotto, si può dire che commetta una cattiva azione, togliendo il pane di bocca a un vecchio, il quale, con la fama di jettatore che gli hanno fatta in paese, certo non chiama più gente al banco a giocare?

             Don Nuccio s’era dovuto arrendere a questa lampante verità; e se n’era andato da quel botteghino piangendo. Era un sabato sera; e nella casa dirimpetto, quello stesso vicino che aveva cacciato il ciuffolotto dalla gabbia, festeggiava una vincita al lotto. E l’aveva registrata lui, don Nuccio, al banco, la scommessa di quel vicino. Ecco una prova della sua jettatura.

             Seduto presso la finestra, guardava nella casa dirimpetto la mensa imbandita e i convitati che schiamazzavano mangiando e bevendo. A un certo punto, uno s’era alzato ed era venuto a sbattergli in faccia gli scuri della finestra.

             Così voleva Dio.

             Lo diceva senz’ombra d’irrisione, don Nuccio D’Alagna, che se tutto questo gli accadeva, era segno che Dio voleva così. Era anzi il suo modo d’intercalare. E, ogni volta, s’aggiustava sui polsi la rimboccatura delle maniche.

             – Un corno! – gli rispondeva però, volta per volta, don Bartolo Scimpri: l’unico che non avesse paura, ormai, d’avvicinarlo.

             Sperticatamente alto di statura, ossuto e nero come un tizzone, questo don Bartolo Scimpri, benché da parecchi anni scomunicato, vestiva ancora da prete. Le maniche della vecchia tonaca unta e inverdita avevano il difetto opposto di quelle della giacca di don Nuccio: gli arrivavano poco più giù dei gomiti lasciandogli scoperti gli avambracci pelosi. E scoperti aveva anche, sotto, non solo i piedacci imbarcati in due grossi scarponi contadineschi, ma spesso perfino i fusoli delle gambe cotti dal sole, perché le calze di cotone a furia di rimboccarle da capo attortigliate in un punto perché si reggessero, s’erano slabbrate e gli ricadevano sulla fiocca dei piedi.

             Allegramente si vantava della sua bruttezza, di quella sua fronte, che dalla sommità del capo calvo pareva gli scivolasse giù giù fino alla punta dell’enorme naso, dandogli una stranissima somiglianza col tacchino.

             – Questa è la vela! – esclamava, battendosi la fronte. – Ci soffia lo spirito divino!

             Poi si prendeva con due dita il nasone:

             – E questo, il timone!

             Aspirava fortemente una boccata d’aria e, al rumore che l’aria faceva nel naso otturato, alzava subito quelle due dita e le scoteva in aria come se le fosse scottate.

             Era in guerra aperta con tutto il clero, perché il clero – a suo dire – aveva azzoppato Dio. Il diavolo, invece, aveva camminato. Bisognava a ogni costo ringiovanire Dio, farlo viaggiare in ferrovia, col progresso, senza tanti misteri, per fargli sorpassare il diavolo.

             – Luce elettrica! Luce elettrica! – gridava, agitando le lunghe braccia smanicate. – Lo so io a chi giova tanta oscurità! E Dio vuol dire Luce!

             Era tempo di finirla con tutta quella sciocca commedia delle pratiche esteriori del culto: messe e quarant’ore. E paragonava il prete nella lunga funzione del consacrar l’ostia per poi inghiottirsela al gatto che prima scherza col topo e poi se lo mangia.

             Egli avrebbe edificato la Chiesa Nuova. Già pensava ai capitoli della Nuova Fede. Ci pensava la notte, e li scriveva. Ma prima bisognava trovare il tesoro. Come? Per mezzo della sonnambula. Ne aveva una, che lo ajutava anche a indovinar le malattie. Perché don Bartolo curava anche i malati. Li curava con certi intrugli, estratti da erbe speciali, sempre secondo le indicazioni di quella sonnambula.

             Si contavano miracoli di guarigioni. Ma don Bartolo non se ne inorgogliva. La salute del corpo la ridava gratis a chi avesse fiducia nei suoi mezzi curativi. Aspirava a ben altro lui! A preparare alle genti la salute dell’anima.

             La gente però non sapeva ancor bene, se crederlo matto o imbroglione. Chi diceva matto, e chi imbroglione. Eretico era di certo; forse, indemoniato. Il tugurio dov’abitava, in un suo poderetto vicino al camposanto, sul paese, pareva l’officina d’un mago. I contadini dei dintorni vi si recavano la notte, incappucciati e con un lanternino in mano, per farsi insegnare dalla sonnambula il luogo preciso di certe trovature, tesori nascosti che dicevano di saper sotterrati nelle campagne del circondario al tempo della rivoluzione. E mentre don Bartolo addormentava la sonnambula, muto, spettrale, con le mani sospese sul capo di lei, al lume vacillante d’un lampadino a olio, tremavano. Tremavano, allorché, lasciando nel tugurio la donna addormentata, egli li invitava a uscir con lui all’aperto e li faceva inginocchiare sulla nuda terra, sotto il cielo stellato, e, inginocchiato anche lui, prima tendeva l’orecchio ai sommessi rumori della notte, poi diceva misteriosamente:

             – Ssss… – eccolo! eccolo!

             E levando la fronte, si dava a improvvisare stranissime preghiere, che a quelli parevano evocazioni diaboliche e bestemmie. Rientrando, diceva:

             – Dio si prega così, nel suo tempio, coi grilli e con le rane. Ora all’opera!

             E se qualche tarlo si svegliava nell’antica cassapanca che pareva una bara, là in un angolo, o la fiammella del lampadino crepitava a un soffio d’aria, un brivido coglieva quei contadini intenti e raggelati dalla paura.

             Trovato il tesoro, sarebbe sorta la Chiesa Nuova, aperta all’aria e al sole, senz’altari e senz’immagini. Ciò che i nuovi sacerdoti vi avrebbero fatto, don Bartolo veniva ogni giorno a spiegarlo a don Nuccio D’Alagna, il quale era pure il solo che, almeno in apparenza, stesse a sentirlo senza ribellarsi o scappar via con le mani agli orecchi.

             – Lasciamo fare a Dio! – arrischiava soltanto, con un sospiro, a quando a quando.

             Ma don Bartolo gli dava subito sulla voce:

             – Un corno!

             E gli dava da ricopiare, per elemosina, a un tanto a pagina, i capitoli della Nuova Fede che scarabocchiava la notte. Gli portava anche da mangiare e qualche magica droga per la figliuola ammalata.

             Appena andato via, don Nuccio scappava in chiesa a chieder perdono a Dio Padre, a Gesù, alla Vergine, a tutti i Santi, di quanto gli toccava d’udire, delle diavolerie che gli toccava di ricopiar la sera, per necessità. Lui come lui, si sarebbe lasciato piuttosto morir di fame; ma era per la figlia, per quella povera anima innocente! I fedeli cristiani lo avevano.tutti abbandonato. Poteva esser volere di Dio che in quella miseria, nera come la pece, l’unico lume di carità gli venisse da quel demonio in veste da prete? Che fare, Signore, che fare? Che gran peccato aveva commesso perché anche quel boccone di pane dovesse parergli attossicato per la mano che glielo porgeva? Certo un potere diabolico esercitava quell’uomo su lui.

             – Liberatemene, Vergine Maria, liberatemene Voi!

             Inginocchiato sullo scalino innanzi alla nicchia della Vergine, lì tutta parata di gemme e d’ori, vestita di raso azzurro, col manto bianco stellato d’oro, don Nuccio alzava gli occhi lagrimosi al volto sorridente della Madre divina. A lei si rivolgeva di preferenza perché gl’impetrasse da Dio il perdono, non tanto per il pane maledetto che mangiava, non tanto per quelle scritture diaboliche che gli toccava di ricopiare, quanto per un altro peccato, senza dubbio più grave di tutti. Lo confessava tremando. Si prestava a farsi addormentare da don Bartolo, come la sonnambula.

             La prima volta lo aveva fatto per la figlia, per trovare nel sonno magnetico l’erba che gliela doveva guarire. L’erba non si era trovata; ma egli seguitava ancora a farsi addormentare per provar quella delizia nuova, la beatitudine di quel sonno strano.

             – Voliamo, don Nuccio, voliamo! – gli diceva don Bartolo, tenendogli i pol lici delle due mani, mentr’egli già dormiva e vedeva. – Vi sentite le ali? Bene, facciamoci una bella volatina per sollievo. Vi conduco io.

             La figliuola stava a guardare dal letto con tanto d’occhi sbarrati, sgomenta, angosciata, levata su un gomito: vedeva le palpebre chiuse del padre fervere come se nella rapidità vertiginosa del volo la vista di lui, abbarbagliata, fosse smarrita nell’immensità d’uno spettacolo luminoso.

             –    Acqua… tant’acqua… tant’acqua… – diceva difatti, ansando, don Nuccio; e pareva che la sua voce arrivasse da lontano lontano.

             –    Passiamo questo mare, – rispondeva cupamente don Bartolo con la fronte contratta, quasi in un supremo sforzo di volontà. – Scendiamo a Napoli, don Nuccio: vedrete che bella città! Poi ripigliamo il volo e andiamo a Roma a molestare il papa, ronzandogli attorno in forma di calabrone.

             –    Ah, Vergine Maria, Madre Santissima, – andava poi a pregar don Nuccio davanti alla nicchia, – liberatemi Voi da questo demonio che mi tiene!

             E lo teneva davvero: bastava che don Bartolo lo guardasse in un certo modo, perché d’un tratto avvertisse un curioso abbandono di tutte le membra, e gli occhi gli si chiudessero da sé. E prima ancora che don Bartolo ponesse il piede su la scala, egli, seduto accanto alla figlia, presentiva ogni volta, con un tremore di tutto il corpo, la venuta di lui.

             – Eccolo, viene, – diceva.

             E, poco dopo, difatti, ecco don Bartolo che salutava il padre e la figlia col cupo vocione:

             –    Benedicite.

             –    Viene, – disse anche quel giorno don Nuccio alla figlia, la quale, dopo quel forte assalto di tosse, s’era sentita subito meglio, davvero sollevata, e insolitamente s’era messa a parlare, non di guarigione, no – fino a tanto non si lusingava – ma, chi sa! d’una breve tregua del male, che le permettesse di lasciare un po’ il letto.

             Sentendola parlar così, don Nuccio s’era sentito morire. O Vergine Maria, che quello fosse l’ultimo giorno? Perché anche le altre figliuole, così: – «Meglio, meglio,» – ed erano spirate poco dopo. Questa, dunque, la liberazione che la Vergine gli concedeva? Ah, ma non questa, non questa aveva invocata tante volte; ma la propria morte: che la figlia, allora, nel vedersi sola, si sarebbe lasciata portare all’ospedale. Doveva restar solo lui, invece? assistere anche alla morte di quell’ultima innocente? Così voleva Dio?

             Don Nuccio strinse le pugna. Se la sua figliuola moriva, egli non aveva più bisogno di nulla; di nessuno; tanto meno poi di colui che, soccorrendo ai bisogni del corpo, gli dannava l’anima.

             Si levò in piedi; si premette forte le mani sulla faccia.

             –    Papà, che hai? – gli domandò la figlia, sorpresa.

             –    Viene, viene, – rispose, quasi parlando tra sé; e apriva e chiudeva le mani, senza curarsi di nascondere l’agitazione.

             –    E se viene? – fece Agatina, sorridendo

             – Lo caccio via! – disse allora don Nuccio; e uscì risoluto dalla camera. Questo voleva Dio, e perciò lo lasciava in vita e gli toglieva la figlia: voleva un atto di ribellione alla tirannia di quel demonio; voleva dargli tempo di far penitenza del suo gran peccato. E mosse incontro a don Bartolo per fermarlo sull’entrata.

             Don Bartolo saliva pian piano gli ultimi scalini. Alzò il capo, vide don Nuccio sul pianerottolo a capo di scale e lo salutò al solito:

             – Benedicite.

              –   Piano, fermatevi, – prese a dire concitatamente don Nuccio D’Alagna, quasi senza fiato, parandoglisi davanti, con le braccia protese. – Qua oggi deve entrare il Signore, per mia figlia.

             – Ci siamo? – domandò afflitto e premuroso don Bartolo, interpretando l’agitazione del vecchio come cagionata dall’imminente sciagura. – Lasciatemela vedere.

             –   No, vi dico! – riprese convulso don Nuccio, trattenendolo per un braccio. – In nome di Dio vi dico: non entrate!

             Don Bartolo lo guardò, stordito.

             –    Perché?

             –    Perché Dio mi comanda così! Andate via! L’anima mia forse è dannata; ma rispettate quella d’una innocente che sta per comparire davanti alla giustizia divina!

             –    Ah, mi scacci? – disse trasecolato don Bartolo Scimpri, appuntandosi l’indice d’una mano sul petto. – Scacci me? – incalzò, trasfigurandosi nello sdegno, drizzandosi sul busto. – Anche tu dunque, povero verme, come tutta questa mandra di bestie, mi credi un demonio? Rispondi!

             Don Nuccio s’era addossato al muro presso la porta: non si reggeva più in piedi, e a ogni parola di don Bartolo pareva diventasse più piccolo.

             –   Brutto vigliacco ingrato! – seguitò questi allora. – Anche tu ti metti contro di me, codiando la gente che t’ha preso a calci come un cane rognoso? Mordi la mano che t’ha dato il pane? Io, t’ho dannato l’anima? Verme di terra! ti schiaccerei sotto il piede, se non mi facessi schifo e pietà insieme! Guardami negli occhi! guardami! Chi ti darà da sfamarti? chi ti darà da sotterrare la figlia? Scappa, scappa in chiesa, va’ a chiederlo a quella tua Vergine parata come una sgualdrina!

             Rimase un pezzo a fissarlo con occhi terribili; poi, come se, in tempo che lo fissava, avesse maturato in sé una feroce vendetta, scoppiò in una risata di scherno; ripeté tre volte, con crescente sprezzo:

             –   Bestia… bestia… bestia… E se n’andò.

             Don Nuccio cadde sui ginocchi, annichilito. Quanto tempo stette lì, sul pianerottolo, come un sacco vuoto? Chi lo portò in chiesa, davanti alla nicchia della Vergine? Si ritrovò là, come in sogno, prosternato, con la faccia sullo scalino della nicchia; poi, rizzandosi sui ginocchi, un flutto di parole che non gli parvero nemmeno sue gli sgorgò fervido, impetuoso dalle labbra:

             – Tanto ho penato, tante ne ho viste, e ancora non ho finito… Vergine Santa, e sempre l’ho lodata! Morire io prima, no, Voi non avete voluto: sia fatta la Vostra santa volontà! Comandatemi, e sempre, fino all’ultimo, V’ubbidirò! Ecco, io stesso, con le mie mani sono venuto a offrirvi l’ultima figlia mia, l’ultimo sangue mio: prendetevela presto, Madre degli afflitti; non me la fate penare più! Lo so, né soli né abbandonati: abbiamo l’ajuto Vostro prezioso, e a codeste mani pietose e benedette ci raccomandiamo. O sante mani, o dolci mani, mani che sanano ogni piaga: beato il capo su cui si posano in cielo! Codeste mani, se io ne sono degno, ora mi soccorreranno, m’ajuteranno a provvedere alla figlia mia. O Vergine santa, i ceri e la bara. Come farò? Farete Voi: provvederete Voi: è vero? è vero?

             E a un tratto, nel delirio della preghiera, vide il miracolo. Un riso muto, quasi da pazzo, gli s’allargò smisuratamente nella faccia trasfigurata.

             – Sì? – disse, e ammutolì subito dopo, piegandosi indietro, atterrito, a sedere sui talloni, con le braccia conserte al petto.

             Sul volto della Vergine, in un baleno, il sorriso degli occhi e delle labbra s’era fatto vivo; le ferveva negli occhi, vivo, il riso delle labbra; e da quelle labbra egli vide muoversi senza suono di voce una parola:

             – Tieni.

             E la Vergine moveva la mano, da cui pendeva un rosario d’oro e di perle.

             – Tieni,  – ripetevano le labbra, più visibilmente, poiché egli se ne stava lì come impietrito. Vive, Dio, vive, vive quelle labbra; e con così vivo, vivo e pressante invito il gesto della mano e anche del capo, anche del capo ora, accompagnava l’offerta, che egli si sentì forzato a protendersi, ad allungare una mano tremante verso la mano della Vergine; e già stava per riceverne il rosario, quando dall’ombra dell’altra navata della chiesa un grido rimbombò come un tuono:

             –   Ah, ladro!

             E don Nuccio cadde, come fulminato.

             Subito un uomo accorse, vociando, lo afferrò per le braccia, lo tirò su in piedi, scrollandolo, malmenandolo.

             –   Ladro! vecchio e ladro! Dentro la casa del Signore? Spogliare la santa Vergine? Ladro! ladro!

             E lo trascinava, così apostrofandolo e sputandogli in faccia verso la porta della chiesa. Accorse gente dalla piazza, e ora tra un coro d’imprecazioni rafforzate da calci, da sputi e da spintoni, don Nuccio D’Alagna, insensato:

             –   Dono, – balbettava gemendo, – dono della Vergine Maria.

             Ma intravedendo su la piazza assolata l’ombra del cippo che sorgeva davanti la chiesa, come se quell’ombra si rizzasse d’improvviso dalla piazza, assumendo l’immagine di don Bartolo Scimpri, colossale, che scoteva il capo di nuovo in quella sua risata diabolica, diede un grido e s’abbandonò, inerte, tra le braccia della gente che lo trascinava.

Dono della Vergine Maria – Audio lettura 1 – Legge Giuseppe Tizza
Dono della Vergine Maria – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Dono della Vergine Maria – Audio lettura 3 – Legge Valter Zanardi

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