042. O di uno o di nessuno – Novella

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Prime pubblicazioni: in parte in Roma. Rassegna illustrata dell’Esposizione del 1911 il 15 aprile 1912. Completa in volume in La trappola, Treves 1915.
«D’indole mitissima, di poche parole e ritegnosa, Melina si era mostrata amica a tutt’e due, senz’ombra di preferenza né per l’uno né per l’altro. Erano due bravi giovani, bene educati e cordiali.»

Novella dalla Raccolta “La rallegrata” (1922)

Approfondimenti nel sito: 
Sezione Tematiche – Paolo Quazzolo – Un caso di “pirandellismo”: O di uno o di nessuno
Sezione Teatro – O di uno o di nessuno

««« Introduzione alle novelle

O di uno o di nessuno
Kotík Pravoslav (1889-1970), Two men and woman, 1928

O di uno o di nessuno – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
O di uno o di nessuno – Audio lettura 2 – Legge Valter Zanardi

O di uno o di nessuno – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza

12. O di uno o di nessuno – 1912. 

             I. Chi era stato? Uno de’ due, certamente. O forse un terzo, ignoto. Ma no: in coscienza, né l’uno né l’altro de’ due amici avevano alcun motivo di sospettarlo. Melina era buona, modesta; e poi, così disgustata dall’antica sua vita; a Roma non conosceva nessuno; viveva appartata e, se non proprio contenta, si dimostrava gratissima della condizione che le avevano fatta, richiamandola due anni addietro da Padova, dove, studenti allora d’università, l’avevano conosciuta.

             Vinto insieme un concorso al Ministero della guerra, collegata la loro vita in tutto, Tito Morena e Carlino Sanni avevano stimato prudente e giudizioso, due anni addietro, cioè ai primi aumenti dello stipendio, provvedere anche insieme al bisogno indispensabile d’una donna, che li curasse e salvasse dal rischio a cui erano esposti, seguitando ciascuno per suo conto a cercare una qualche sicura stabilità d’amore, di contrarre un triste legame, non men gravoso d’un matrimonio, per adesso e forse per sempre conteso loro dalle ristrettezze finanziarie e dalle difficoltà della vita.

             E avevano pensato a Melina, tenera e dolce amica degli studenti padovani, che erano soliti andar a trovare in via del Santo, nelle sere d’inverno e di primavera lassù. Ecco: Melina sarebbe stata la più adatta per loro: avrebbe recato con sé da Padova tutti i lieti ricordi della prima, spensierata gioventù. Le avevano scritto; aveva accettato; e allora (giudiziosamente, come sempre) avevano disposto che ella non coabitasse con loro. Le avevano preso in affitto due stanzette modeste in un quartiere lontano, fuori di porta, e lì andavano a trovarla, ora l’uno ora l’altro, così come s’erano accordati, senza invidia e senza gelosia.

             Tutto era andato bene per due anni, con soddisfazione d’entrambi.

             D’indole mitissima, di poche parole e ritegnosa, Melina si era mostrata amica a tutt’e due, senz’ombra di preferenza né per l’uno né per l’altro. Erano due bravi giovani, bene educati e cordiali. Certo, uno – Tito Morena – era più bello; ma Carlino Sanni (che non era poi brutto neanche lui, quantunque avesse la testa d’una forma curiosa) molto più vivace e grazioso dell’altro.

             L’annunzio inatteso, di quel caso impreveduto, gettò i due amici in preda a una profonda costernazione.

             Un figlio!

             Uno di loro due era stato, certamente, chi de’ due, né l’uno né l’altro, né la stessa Melina potevano sapere. Era una sciagura per tutti e tre; e nessuno de’ due amici s’arrischiò a domandare dapprima alla donna: «Tu chi credi?» per timore che l’altro potesse sospettare ch’egli intendesse con ciò di sottrarsi alla responsabilità, rovesciandola soltanto addosso a uno; né Melina tentò minimamente d’indurre l’uno o l’altro a credere che il padre fosse lui.

             Ella era nelle mani di tutti e due, e a tutti e due, non all’uno né all’altro, voleva affidarsi. Uno era stato; ma chi de* due ella non solo non poteva dire, ma non voleva nemmeno supporre.

             Legati ancora alla propria famiglia lontana, con tutti i ricordi dell’intimità domestica, Carlino Sanni e Tito Morena sapevano che questa intimità non poteva più essere per loro, staccati come già ne erano per sempre. Ma, in fondo, erano rimasti come due uccellini che, sotto le penne già cresciute e per necessità abituate al volo, avessero serbato e volessero custodir nascosto il tepore del nido che li aveva accolti implumi. Ne provavano intanto quasi vergogna, come per una debolezza che, a confessarla, avrebbe potuto renderli ridicoli.

             E forse l’avvertimento di questa vergogna cagionava loro un segreto rimorso. E il rimorso, a loro insaputa, si manifestava in una certa acredine di parole, di sorrisi, di modi, che essi credevano invece effetto di quella vita arida, priva di cure intime, in cui più nessun affetto vero avrebbe potuto metter radici, che eran costretti a vivere e a cui dovevano ormai abituarsi, come tanti altri. E negli occhi chiari, quasi infantili, di Tito Morena lo sguardo avrebbe voluto avere una durezza di gelo. Spesso lo aveva; ma pure talvolta quello sguardo gli si velava per la commozione improvvisa di qualche lontano ricordo; e allora quella velatura di gelo era come l’appannarsi dei vetri d’una finestra, per il caldo di dentro e il freddo di fuori. Carlino Sanni, dal canto suo, si raschiava con le unghie le gote rase e rompeva con lo stridore dei peli rinascenti certi angosciosi silenzii interiori e si richiamava all’ispida realtà del suo vigor maschile che, via, gl’imponeva ormai d’esser uomo, vale a dire, un po’ crudele.

             S’accorsero, all’annunzio inatteso della donna, che, senza saperlo e senza volerlo, ciascuno, dimenticandosi dell’altro e anche della voluta durezza e della voluta crudeltà, aveva messo in quella relazione con Melina tutto il proprio cuore, per quel segreto, cocente bisogno d’intimità familiare. E avvertirono un sordo astio, un’agra amarezza di rancore, non propriamente contro la donna, ma contro il corpo di lei che, nell’incoscienza dell’abbandono, aveva evidentemente dovuto prendersi più dell’uno che dell’altro. Non gelosia, perché il tradimento non era voluto. Il tradimento era della natura; ed era un tradimento quasi beffardo. Cecamente, di soppiatto, la natura s’era divertita a guastar quel nido, che essi volevano credere costruito più dalla loro saggezza, che dal loro cuore.

             Che fare, intanto?

             La maternità in quella ragazza assumeva per la loro coscienza un senso e un valore, che li turbava tanto più profondamente in quanto sapevano che ella non si sarebbe affatto ribellata, se essi non avessero voluto rispettargliela; ma li avrebbe in cuor suo giudicati ingiusti e cattivi.

             Era in lei tanta dolcezza dolente e rassegnata! Con gli occhi, il cui sguardo talvolta esprimeva il sorriso mesto delle labbra non mosse, diceva chiaramente che lei, non ostante quell’ambiguo suo stato, da due anni, mercé loro, si sentiva rinata. E appunto da questo suo rinascere alla modestia degli antichi sentimenti, dovuto a loro, al modo con cui essi, quasi a loro insaputa, l’avevano trattata, proveniva la sua maternità, il rifiorire di essa che, nella trista arsura del vizio non amato, s’era per tanti anni isterilita.

             Ora, non sarebbero venuti meno, d’improvviso, crudelmente, alla loro opera stessa, ricacciando Melina nell’avvilimento di prima, impedendole di raccogliere il frutto di tutto il bene che le avevano fatto?

             Questo i due amici avvertivano in confuso nel turbamento della coscienza. E forse, se ciascuno dei due avesse potuto esser sicuro che il figlio era suo, non avrebbe esitato ad assumersene il peso e la responsabilità, persuadendo l’altro a ritrarsi. Ma chi poteva dare all’uno o all’altro questa certezza?

             Nel dubbio inovviabile i due amici decisero che, senza dirne nulla per adesso a Melina, quando sarebbe stata l’ora l’avrebbero mandata a liberarsi in qualche ospizio di maternità, da cui quindi sarebbe ritornata a loro, sola.

             II. Melina non chiese nulla: intuì la loro decisione; ma intuì pure con quale animo entrambi la avevano presa. Lasciò passare qualche tempo; quando le parve il momento opportuno, a Carlino Sanni che quella sera si trovava con lei, mostrò con gli occhi bassi e un timido sorriso su le labbra una pezza di tela comperata il giorno avanti co’ suoi risparmi.

             – Ti piace?

             Il giovine finse, dapprima, di non comprendere. Esaminò, appressandosi al lume, la tela, con gli occhi, col tatto:

             – Buona, – disse. – E… quanto l’hai pagata?

             Melina alzò gli occhi, ove la malizietta sorrideva implorante:

             –    Oh, poco, – rispose. – Indovina?

             –    Quanto?

             –    No… dico, perché l’ho comperata…

             Carlino si strinse nelle spalle, fingendo ancora di non comprendere.

             – Oh bella! perché ti bisognava. Ma l’hai comperata da te, e non dovevi. Potevi dirci che ti bisognava.

             Melina allora alzò la tela e vi nascose la faccia. Stette un pezzo così; poi, con gli occhi pieni di lagrime, scotendo amaramente il capo, disse:

             – Dunque, no? proprio no, è vero? non debbo… non debbo preparar nulla? E vedendo, a questa domanda supplichevole, restare il giovine tra confuso e

             seccato e commosso, subito gli prese una mano, lo attirò a sé e s’affrettò a soggiungere con foga:

             – Senti, Carlino, senti, per carità! io non voglio nulla, non chiedo nulla di più. Come ho comperato questa tela, così con altri piccoli risparmi potrei provvedere io a tutto. No, senti, stammi prima a sentire, senz’alzar le spalle, senza farmi cotesti occhiacci. Guarda, ti giuro, ti giuro che non n’avrete mai nessun fastidio, nessun peso, mai! Lasciami dire. M’avanza tanto tempo, qua. Ho imparato a lavorare per voi; seguiterò sempre a lavorare: oh, potete star sicuri che non vi mancheranno mai le mie cure! Ma ecco, vedi, badando a voi, come faccio, alla vostra biancheria, ai vostri abiti, m’avanza ancora tanto tempo, tanto che – lo sai – ho imparato a leggere e a scrivere, da me! Ebbene, ora lascerò questo, e cercherò altro lavoro, da fare qui in casa; e sarò felice, credimi! credimi! Non vi chiederò mai nulla, Carlino, mai nulla! Concedetemi questa grazia, per carità! Sì? sì?

             Carlino schivava di guardarla, voltando la testa di qua e di là, e alzava una spalla e apriva e chiudeva le mani e sbuffava.

             Prima di tutto, via, ci voleva poco a intendere che lui, così su due piedi, e senza consultare l’altro, non poteva darle nessuna risposta. E poi, sì, era presto detto nessun peso, nessun fastidio. Il peso, il fastidio sarebbero stati il meno! La responsabilità, la responsabilità d’una vita, perdio, che a uno dei due apparteneva di certo, ma a quale dei due non si poteva sapere. Ecco, era questo! era questo!

             –    Ma a me, Carlino? – rispose pronta, con ardore, Melina. – A me appartiene di certo! E la responsabilità… perché dovete assumervela voi? Me l’assumo io, ti dico, intera.

             –    E come? – gridò il giovine.

             –    Come? Ma così, me l’assumo! Stammi a sentire, per carità! Guarda, tra dieci anni, Carlino, chi sa quante cose potranno accadere a voi due! Tra dieci anni… E quand’anche voleste seguitare a vivere così, tutti e due insieme, tra dieci anni, che sarò più io? non sarò più certo buona per voi; vi sarete certo stancati di me. Ebbene: fino a dieci anni sarà ancora ragazzo il mio figliuolo, e non vi darà né spesa né fastidio, perché provvedere io a tutto col mio lavoro. Ma capisci che ora che ho imparato a lavorare, non posso più buttarlo via? Lo terrò con me; mi darà qui conforto e compagnia; e poi, quando voi non mi vorrete più, avrò lui almeno, avrò lui, capisci? Lo so, non devi né puoi dirmi di sì, per ora, da solo. Perché l’ho detto prima a te, e non a Tito? Non lo so! Il cuore mi ha suggerito così. È anche lui tanto buono, Tito! Parlagliene tu, come credi, quando credi. Io sono qua, in mano vostra. Non dirò più nulla. Farò come voi vorrete.

             Carlino Sanni parlò a Tito Morena il giorno dopo. Si mostrò seccatissimo di Melina, e veramente credeva di avercela con lei; ma appena vide Tito accordarsi con lui nel disapprovare la proposta di Melina, si accorse che aveva la stizza in corpo non per lei, ma perché prevedeva l’opposizione di Tito. Prevedeva l’opposizione; eppure forse, in fondo, sperava che Tito invece si assumesse contro a lui la parte di contentare Melina; cioè quella stessa parte che molto volentieri si sarebbe assunta lui, ove non avesse temuto di far peggio. Si stizzì del subitaneo accordo, e Tito rimase stordito di quella stizza inattesa; lo guardò un poco; gli domandò:

             –    Ma scusa, non dici quello che dico io? E Carlino:

             –    Ma sì! ma sì! ma sì!

             A ragionare, infatti, non potevano non esser d’accordo. E anche il sentimento avevano entrambi comune. Se non che, questo sentimento comune, anziché accordarli, non solo li divideva, ma li rendeva l’uno all’altro nemici.

             Tito, ch’era il più calmo in quel momento, comprese bene che, a lasciar prorompere il sentimento, sarebbe di certo e subito avvenuta tra loro una rottura insanabile; avrebbe voluto perciò lasciar lì il discorso, ove la sua ragione e quella dell’amico, freddamente e così fuor fuori, potevano restar d’accordo.

             Ma Carlino, turbato dalla stizza, non seppe trattenersi. Tanto disse, che alla fine fece perdere la calma anche a Tito. E, tutt’a un tratto, i due, finora l’uno accanto all’altro amici cordialissimi, si scoprirono negli occhi, l’uno di fronte all’altro, cordialissimi nemici.

             –    Vorrei sapere, intanto, perché prima l’ha detto a te e non a me!

             –    Perché jersera c’ero io; e l’ha detto a me.

             –    Poteva bene aspettar domani, e dirlo a me! Se l’ha detto jersera, che c’eri tu, è segno che t’ha creduto più tenero di cuore e più disposto a venir meno a ciò che tutti e due insieme, di pieno accordo, avevamo stabilito.

             –    Ma nient’affatto! Perché io le ho detto di no, di no, di no, precisamente come dici tu! Ma capirai che ella ha insistito, ha pianto, ha scongiurato, ha fatto tante promesse e tanti giuramenti; e, di fronte a queste lacrime e a queste promesse, io non so, non potevo sapere, come saresti rimasto tu, e se anche tu per tuo conto avresti voluto risponderle di no!

             –    Ma non s’era stabilito no? Dunque, no! Carlino Sanni si scrollò rabbiosamente.

             –    Va bene! E ora andrai a dirglielo tu.

             –    Bello! Mi piace! – squittì Tito. – Così la parte del cuor duro, del tiranno, la faccio io, e tu rimani per lei quello che si era piegato, commosso e intenerito.

             –    E se fosse così? – saltò su Carlino, guardandolo da presso negli occhi. – Sei sicuro tu, che non ti saresti «piegato, commosso e intenerito» al posto mio? E avresti avuto il coraggio, così commosso e intenerito, di dirle di no, anche per conto di un altro, che forse al tuo posto si sarebbe, come te, commosso e intenerito? Rispondi a questo! Rispondi!

             Così sfidato, con gli occhi negli occhi, Tito non volle darsi per vinto, e mentì, imperterrito.

             –    Io, commosso? Chi te lo dice?

             –    E dunque è vero, – esclamò allora Carlino trionfante, – che il cuor duro sei tu, e puoi bene andarglielo a dire!

             –    Oh sai che ti dico io, invece? – fremè Tito al colmo del dispetto. – Che n’ho abbastanza io, di codesta storia, e voglio farla finita!

             Carlino gli s’appressò di nuovo, minaccioso:

             – Cioè… cioè… cioè… piano piano, caro mio, aspetta: farla finita, adesso, in che modo?

             –    Oh, – fece Tito con un sorriso stirato, guardandolo dall’alto in basso, – non ti credere che voglia venir meno a quanto debbo? Seguiterò a dare la parte mia, finché lei sarà in quello stato; poi faccia quello che vuole: se vuol tenersi il figlio, se lo tenga: se vuol buttarlo via, Io butti. Per me, non vorrò più saperne.

             –    E io? – domandò Carlino.

             –    Ma farai anche tu ciò che ti pare!

             –    Non è mica vero !

             –    Perché no?

             –    Lo capisci bene perché no! Se non ci vai più tu, non potrò più andarci neanche io!

             –    E perché?

             –    Perché da solo, sai bene che non posso accollarmi tutto il peso del mantenimento; non posso e non debbo, del resto, perché non so di certo se il figlio sia mio, e tu non puoi lasciarmi su le spalle il peso d’un figlio che può esser tuo.

             –    Ma se ti dico che seguiterò a dar la parte mia!

             –    Grazie tante! Non posso accettare! Già, in mezzo resterei sempre io, di più.

             –    Perché vuoi restarci !

             –    Ma scusa, ma scusa, ma scusa, e perché non vuoi tu restare ai patti? Che cosa chiede lei alla fine, che tu non possa accordarle? Se non ci fa nessun carico del figliuolo! Se lo terrà per sé. Ma senti… ma ascolta…

             E Carlino prese a inseguir per la stanza Tito che si allontanava scrollandosi, per trattenerlo a ragionare. E non intendeva che, assumendo ora quel tono persuasivo, quella pacata difesa della donna, faceva peggio.

             Tito stesso, alla fine, glielo gridò:

             –    Sarà un sospetto ingiusto, ma che vuoi farci? m’è entrato; non posso più scacciarlo! Non posso seguitare, così insieme, una relazione, che era solo possibile a patto che nessun contrasto sorgesse tra noi.

             –    Ma andiamo tutti e due insieme, allora, – propose Carlino, – tutti e due insieme a dirle di no. Io già gliel’ho detto per conto mio; ora andiamo a ripeterglielo insieme; e se vuoi, parlerò io più forte; le dimostrerò io che non è possibile accordarle quello che chiede!

             –    E poi? – fece Tito. – Credi che ella sarebbe più, quale è stata finora? Se desidera tanto di tenersi il figlio! La faremmo infelice, credi, Carlino, inutilmente. Perché… lo sento, lo sento bene, per me è finita! Sarà un dispetto sciocco: non mi passa; sento che non mi passa. E allora? Io non posso, non voglio più tornarci, ecco!

             –    E dovremmo abbandonarla così? – domandò Carlino accigliato.

             –    Ma nient’affatto, abbandonarla! – esclamò Tito. – T’ho detto e ripetuto che seguiterò a dar la parte mia, finché ella si troverà in questo stato e non troverà modo di provvedere a sé altrimenti! Tu poi, per conto tuo, fa’ quello che credi. Te lo dico proprio senz’astio, bada! e con la massima franchezza.

             Carlino rimase muto, ingrugnato, a raschiarsi con le unghie le gote rase. E, per quel giorno, il discorso finì lì.

             III. Non fu più ripreso. Ma seguitò nell’animo d’entrambi, e a mano a mano tanto più violento, quanto più cresceva la violenza che l’uno e l’altro si facevano, per tacere.

             Nessuno de’ due andò più a trovar Melina. E Carlino, non andando, voleva dimostrare a Tito che la violenza la commetteva lui; che gl’impediva lui d’andare; e Tito, dal canto suo, che Carlino voleva lui, invece, usargli violenza con quel suo astenersi d’andare. Ma sì! per forzarlo, così, a recedere dal suo proposito, e averla vinta, pur essendo venuto meno, di sorpresa, a quanto già tra loro d’accordo si era stabilito.

             Doveva passar sopra a tutto? Far quello che volevano loro, tutt’e due insieme, contro di lui? Non bastava che seguitasse a pagare, lasciando all’altro la libertà d’andare a trovar la donna?

             Nossignori. Di questa libertà Carlino non voleva profittare, non solo, ma neppur dargli merito. La negava! Senza comprendere che, se egli avesse ceduto, se fosse tornato da Melina per farci andare anche lui, tutta la vittoria sarebbe stata di loro due, poich’egli alla fine avrebbe fatto quello che essi volevano. E non era una violenza, questa? No, perdio! Seguitava a pagare, e basta!

             Per quanto, però, con questi argomenti cercasse di raffermarsi nella risoluzione di non cedere e volesse concludere che la ragione stava dalla sua, Tito si sentiva di giorno in giorno crescer l’orgasmo per la passiva ostinazione di Carlino; sentiva che il fosco silenzio del compagno assumeva per la sua coscienza un peso, che egli da solo non voleva sopportare.

             Se quella ragazza, da loro invitata a venir da Padova a Roma, resa madre da uno di loro due, ora, in quello stato, si dibatteva in una incertezza angosciosa, di chi la colpa? Che pretendeva ella in fine, senza fastidio, senza peso, né responsabilità da parte loro? Che non si commettesse la violenza di buttar via il figlio, che o dell’uno o dell’altro era di certo.

             Ebbene, lo volevano lasciar solo a sentire il rimorso di questa violenza.

             Se Carlino avesse seguitato ad andare da Melina, egli avrebbe potuto, almeno in parte, togliersi questo rimorso col pensiero che, pur seguitando a pagare, non si prendeva più nessun piacere dalla donna.

             Ma nossignori! Carlino non andava più neppur lui, Carlino non si prendeva più neppur lui nessun piacere dalla donna, e così non solo gl’impediva di togliersi il rimorso con quel pensiero, ma anzi glielo aggravava.

             Privandosi egli solo del piacere e pur non di meno seguitando a dar la parte sua, avrebbe potuto anche pensare, che faceva un sacrifizio sciocco e fors’anche superfluo, giacché non era mica provato, che egli dovesse avere il rimorso di voler buttare il proprio figliuolo, potendo questo benissimo essere, invece, dell’altro. Eh già; ma a ragionare così, ad ammettere cioè che il figlio fosse dell’altro, poteva egli allora pretendere che quest’altro si assumesse intero il rimorso di buttar via il proprio figliuolo, per far piacere a lui? Se egli, Tito, avesse avuto la certezza d’essere il padre e Carlino avesse preteso che il figliuolo fosse buttato via, non si sarebbe egli ribellato?

             Questa certezza non c’era!

             Ma ecco, nel dubbio stesso, Carlino voleva che quella violenza non si commettesse.

             Dovevano essere insieme, d’accordo, tutti e tre, a volere e a commettere la violenza. Il rimorso, condiviso, sarebbe stato minore. Ebbene, gli avevano fatto questo tradimento. E tanto più ne era arrabbiato, quanto più vedeva che la vendetta, che istintivamente si sentiva spinto a trarne, lo rendeva, contro il suo stesso sentimento, crudele; quanto più vedeva che anche a non trarne alcuna vendetta, esso, il tradimento, restava, restava pur sempre l’accordo di quei due nel venir meno per i primi a quanto si era stabilito; cosicché sempre sarebbe rimasta, attaccata a lui soltanto, la parte odiosa. E dunque, no, perdio, no! Perché cedere adesso? Sarebbe stato anche inutile!

             Venne, intanto, il momento, che entrambi si videro costretti a riparlar di Melina: cadeva il mese, e bisognava farle avere il denaro per provvedere a sé e pagar la pigione delle due stanzette.

             Tito avrebbe voluto schivare il discorso. Tratta dal portafogli la sua quota, l’aveva posata sul tavolino, senza dir nulla.

             Carlino, guardati un pezzo quei denari, alla fine uscì a dire:

             – Io non glieli porto.

             Tito si voltò a guardarlo e disse seccamente:

             – E io neppure.

             Il silenzio, in cui l’uno e l’altro, dopo questo scambio di parole; con estremo sforzo si tennero per un lungo tratto, vibrò di tutto il loro interno ribollimento e rese a ciascuno spasimosa l’attesa che l’altro parlasse. La voce uscì prima, sorda, opaca, dalle labbra di Carlino:

             –    Allora le si scrive. Le si mandano per posta.

             –    Scrivi, – disse Tito.

             –    Scriveremo insieme.

             –    Insieme, va bene; poiché ti piace di far la parte della vittima, e ch’io faccia quella del tiranno.

             –    Io fo, – rispose Carlino, alzandosi, – precisamente quello che fai tu, né più né meno.

             –    E va bene, – ripeté Tito. – E dunque puoi scriverle, che da parte mia sono disposto a rispettare il suo sentimento e a fare tutto ciò che vuole; disposto a pagare, finché lei stessa non dirà basta.

             –    Ma allora? – scappò su dal cuore a Carlino.

             Tito, a questa esclamazione, non seppe più frenarsi e uscì dalla stanza, scrollandosi furiosamente con le braccia per aria e gridando:

             – Ma che allora! che allora! che allora!

             Rimasto solo, Carlino pensò un pezzo al senso da cavare da quella prima condiscendenza di Tito, a cui poi, così bruscamente, era seguito lo scatto, che nel modo più aperto raffermava la sua irremovibile decisione. Pareva che con Melina, ora, non ce l’avesse più, se era disposto a rispettare il sentimento di lei e a fare ciò che ella voleva. Dunque ce l’aveva con lui? Era chiaro! E perché, se adesso erano d’accordo? Per non aver riconosciuto prima di non aver ragione d’opporsi? Eh già! Ora gli pareva troppo tardi, è non si voleva più dare per vinto. Ah, che sbaglio aveva commesso Melina, non rivolgendosi prima a Tito! E un altro sbaglio, più grosso, aveva poi commesso lui, riferendo a Tito la proposta di lei. No, no; egli non doveva riferirgliela; doveva dire a Melina che ne parlasse a Tito direttamente, e che anzi non gli facesse intravvedere di averne prima parlato a lui. Ecco come avrebbe dovuto fare! Ma poteva mai immaginarsi che Tito se la pigliasse così a male?

             Carlino era sicuro, adesso, che se Melina si fosse prima rivolta all’altro, lui non ci avrebbe trovato nulla da ridire.

             Basta. Bisognava scrivere la lettera, adesso. Che dire a quella povera figliuola, in quello stato? Meglio non dirle nulla di quanto era avvenuto tra loro due; trovare una scusa plausibile di quel non andare nessuno de’ due a trovarla. Ma che scusa? L’unica, poteva esser questa: che volevano lasciarla tranquilla nello stato in cui era. Tranquilla? Eh, troppa grazia, per una povera donna come lei, avvezza a così poca considerazione da parte degli uomini. E poi, tranquilla, va bene; ma perché non andavano nemmeno a vederla? a domandarle come stesse? se avesse bisogno di qualche cosa? Tanta considerazione per un verso e tanta noncuranza per un altro, bella tranquillità le avrebbero data!

             Ma, via, infine, nella lettera poteva darle la più ferma assicurazione che non le sarebbe venuto meno l’assegno e tutto quell’ajuto che avrebbe potuto aver da loro. Bisognava che si contentasse di questo, per ora.

             E Carlino scrisse la lettera in questo senso, con molta circospezione, perché Tito, leggendola (e voleva che la leggesse), non pigliasse altra ombra.

             Pochi giorni dopo, com’era da aspettarsi, arrivò a entrambi la risposta di Melina. Poche righe, quasi indecifrabili che, impedendo la commozione per il modo ridicolo con cui l’ambascia e la disperazione erano espresse, produssero uno strano effetto di rabbia negli animi dei due giovani.

             La poverina scongiurava che tutti e due insieme andassero a trovarla, ripetendo ch’era pronta a fare quel che essi volevano.

             – Vedi? Per causa tua!

             Tutti e due si trovarono sulle labbra le stesse parole; Carlino per l’ostinazione di Tito a non cedere; Tito per quella di Carlino a non andare. Ma né l’uno né l’altro poterono proferirle. Si guardarono. Ciascuno lesse negli occhi dell’altro la sfida a parlare. Ma lessero anche chiaramente l’odio, che adesso li univa, in luogo dell’antica amicizia; e subito compresero che non potevano e non dovevano più parlare su quell’argomento.

             Quell’odio comandava loro non solo di non far prorompere la rabbia, ond’erano divorati, ma anzi d’indurir ciascuno il proprio proposito in una livida freddezza.

             Dovevano rimanere insieme, per forza.

             –    Le si scrive di nuovo, che stia tranquilla, – fischiò tra i denti Carlino. Tito si voltò appena a guardarlo, con le ciglia alzate:

             –    Ma sì, puoi dirglielo: tranquillissima!

             IV. Ora, ogni sera, uscendo dal Ministero, non andavano più insieme, come prima, a passeggio o in qualche caffè. Si salutavano freddamente, e uno prendeva di qua, l’altro di là. Si riunivano a cena; ma spesso, non arrivando alla trattoria alla stess’ora e non trovando posto da sedere accanto, l’uno cenava a un tavolino e l’altro a un altro. Ma meglio così. Tito s’accorse, che aveva provato sempre vergogna, senza dirselo, del troppo appetito che Carlino dimostrava, mangiando. Anche dopo cena, ciascuno s’avviava per suo conto a passar fuori le due o tre ore prima d’andare a letto.

             S’incupivano sempre più, covando in quella solitudine il rancore.

             Ma l’uno non voleva dare a vedere all’altro la macerazione che aveva da quella catena non trascinata più di conserva per una stessa via, ma tirata, strappata di qua e di là dispettosamente, in quella finzione di libertà, che volevano darsi.

             Sapevano che la catena, pur tirata e strappata così, non poteva e non doveva spezzarsi; ma lo facevano apposta, per farsi più male, quanto più male potevano. Forse, in questa macerazione, cercavano di stordir la pena cocente e il rimorso per la donna, che seguitava invano a chieder conforto e pietà.

             Già da un pezzo ella si era arresa a ciò che credeva la loro volontà. Ma no: erano essi, ora, a volere assolutamente che ella si tenesse il figliuolo. E perché allora avrebbero sofferto tanto, e tanto la avrebbero fatta soffrire? Tornare indietro come prima, non era più possibile, ormai. E dunque, no, no: ella doveva tenersi il figliuolo. Nessuna discussione più su questo punto.

             Uniti com’erano dallo stesso sentimento, che non poteva più in alcun modo svolgersi in un’azione comune d’amore, non potevano ammettere che esso, ora, venisse a mancare; volevano che durasse per svolgersi invece, così, necessariamente, in un’azione di reciproco odio.

             E tanto quest’odio li accecava, che nessuno dei due per il momento pensava, che cosa avrebbero fatto domani di fronte a quel figliuolo, che non avrebbero potuto entrambi amare insieme.

             Esso doveva vivere: non potendo né per l’uno né per l’altro esclusivamente, sarebbe vissuto per la madre, ai loro costi, così, senza che nessuno de’ due neppur lo vedesse.

             E difatti, nessuno de’ due, quantunque entrambi se ne sentissero struggere dalla voglia, cedette all’invito di Melina, di correre a vedere il bambino appena nato.

             Inesperti della vita, non si figuravano neppur lontanamente tra quali atroci difficoltà si fosse dibattuta quella poveretta, così sola, abbandonata, nel mettere al mondo quel bambino. Ne ebbero la rivelazione terribile, alcuni giorni dopo, quando una vecchia, vicina di casa della poveretta, venne a chiamarli, perché accorressero subito al letto di lei, che moriva.

             Accorsero e restarono allibiti davanti a quel letto, da cui uno scheletro vestito di pelle, con la bocca enorme, arida, che scopriva già orribilmente tutti i denti, con enormi occhi, i cui globi parevan già appesiti e induriti dalla morte, voleva loro far festa.

             Quella, Melina?

             – No, no… là, – diceva la poveretta, indicando la culla: che la avrebbero ritrovata là, la Melina che conoscevano, cercando là, in quella culla, e tutt’intorno, nelle cose preparate per il suo bimbo, e nelle quali si era distrutta, o piuttosto, trasfusa.

             Qua sul letto, ormai, ella non c’era più: non c’eran più che i resti di lei, miseri, irriconoscibili; appena un filo d’anima trattenuto a forza, per riveder loro un’ultima volta. Tutta l’anima sua, tutta la sua vita, tutto il suo amore, erano in quella culla, e là, là, nei cassetti del canterano, ov’era il corredino del bimbo, pieno di merletti, di nastri e di ricami, tutto preparato da lei, con le sue mani.

             – Anche… anche cifrato, sì, di rosso… Tutto… capo per capo…

             Capo per capo volle che la vecchia vicina lo mostrasse loro: le cuffiette, ecco… ecco le cuffiette, sì… quella coi fiocchi rossi… no, quell’altra, quell’altra… e i bavaglini, e le carnicine, e la vestina lunga, ricamata, del battesimo, col trasparente di seta rossa… rossa, sì, perché era maschio, maschio il suo Nillì… e…

             S’abbandonò a un tratto; crollò sul letto, riversa. Nell’accensione di quella festa, forse insperata, si consumò subito quell’ultimo filo d’anima trattenuto a forza per loro.

             Atterriti da quel traboccare improvviso sul letto, i due accorsero, per sollevarla.

             Morta.

             Si guardarono. L’uno cacciò nell’anima dell’altro, fino in fondo, con quello sguardo, la lama d’un odio inestinguibile.

             Fu un attimo.

             Il rimorso, per ora, li sbigottiva. Avrebbero avuto tempo di dilaniarsi, tutta la vita. Per ora, qua, bisognava provvedere ancora d’accordo: provvedere alla vittima, provvedere al bambino.

             Non potevano piangere, l’uno di fronte all’altro. Sentivano che, se per poco, nell’orgasmo, avessero ceduto al sentimento, l’uno al suono del pianto dell’altro sarebbe diventato feroce, l’uno si sarebbe avventato alla gola dell’altro per soffocarlo, quel pianto. Non dovevano piangere! Tremavano tutti e due; non potevano più guardarsi. Sentivano che rimaner così, a guardare con gli occhi bassi la morta, non potevano; ma come muoversi? Come parlar tra loro? Come assegnarsi le parti? Chi de’ due doveva pensare alla morta, pei funerali? Chi de’ due, al bambino, per una balia?

             Il bambino!

             Era là, nella culla. Di chi era? Morta la madre, esso restava a tutti e due. Ma come? Sentivano che nessuno dei due poteva più accostarsi a quella culla. Se l’uno avesse fatto un passo verso di essa, l’altro sarebbe corso a strapparlo indietro.

             Come fare? Che fare?

             Lo avevano intravisto appena, là, tra i veli, roseo, placido nel sonno.

             La vecchia vicina disse:

             – Quanto penò! E mai un lamento dalle sue labbra! Ah, povera creatura! Non gliela doveva negare Dio questa consolazione del figlio, dopo tutto quello che penò per lui. Povera, povera creatura! E ora? Per me, se vogliono… eccomi qua…

             Si tolse lei l’incarico d’attendere al cadavere, insieme con altre vicine. Quanto al bimbo… – all’ospizio, no, è vero? – ebbene, conosceva lei una balia, una contadina d’Alatri, venuta a sgravarsi all’ospedale di San Giovanni: era uscita da parecchi giorni; il figlietto le era morto, e quella sera stessa sarebbe ripartita per Alatri: buona, ottima giovine; maritata, sì; il marito le era partito da pochi mesi per l’America; sana, forte; il figlietto le era morto per disgrazia, nel parto, non già per malattia. Del resto, potevano farla visitare da un medico; ma non ce n’era bisogno. Già il bimbo, per altro, da due giorni s’era attaccato a lei, poiché la povera mamma non avrebbe potuto allevarlo, ridotta in quello stato.

             I due lasciarono parlar sempre la vecchia, approvando col capo ogni proposta, dopo essersi guardati un attimo con la coda dell’occhio, aggrondati. Migliore occasione di quella non poteva darsi. E meglio, sì, meglio che il bimbo andasse lontano, affidato alla balia. Sarebbero andati a vederlo, ad Alatri, un mese l’uno e un mese l’altro, giacché insieme non potevano.

             – No! no! – gridarono a un tempo alla vecchia, impedendo che lo mostrasse loro.

             S’accordarono con lei circa alle disposizioni da prendere per il trasporto del cadavere e il seppellimento. La vecchia fece un conto approssimativo; essi lasciarono il denaro, e uscirono insieme, senza parlare.

             Tre giorni dopo, allorché il bimbo fu partito con la balia per Alatri con tutto il corredo preparato dalla povera Melina, si divisero per sempre.

             V. Fu, nei primi tempi, una distrazione quella gita d’un giorno, un mese sì e un mese no, ad Alatri. Partivano la sera del sabato; ritornavano la mattina del lunedì.

             Andavano come per obbligo a visitare il bambino. Questo, quasi non esistendo ancora per sé, non esisteva neppure propriamente per loro, se non così, come un obbligo; ma non gravoso: prendevano, in fine, una boccata d’aria; facevano, benché soli, una scampagnata: dall’alto dell’acropoli, su le maestose mura ciclopiche, si scopriva una vista meravigliosa. E quella visita mensile, in fondo, non aveva altro scopo che d’accertarsi se la balia curasse bene il bambino.

             Provavano istintivamente una certa diffidenza ombrosa, se non proprio una decisa ripugnanza per lui. Ciascuno dei due pensava, che quel batuffolo di carne lì poteva anche non esser suo, ma di quell’altro; e, a tal pensiero, per l’odio acerrimo che l’uno portava all’altro, avvertivano subito un ribrezzo invincibile non solo a toccarlo, ma anche a guardarlo.

             A poco a poco, però, cioè non appena Nillì cominciò a formare i primi sorrisi, a muoversi, a balbettare, l’uno e l’altro, istintivamente, furono tratti a riconoscer ciascuno se stesso in quei primi segni, e a escludere ogni dubbio, che il figlio non fosse suo.

             Allora, subito, quel primo sentimento di repugnanza si cangiò in ciascuno in un sentimento di feroce gelosia per l’altro. Al pensiero che l’altro andava lì, con lo stesso suo diritto, a togliersi in braccio il bambino e a baciarlo, a carezzarlo per una intera giornata, e a crederlo suo, ciascuno de’ due sentiva artigliarsi le dita, si dibatteva sotto la morsa d’un’indicibile tortura. Se per un caso si fossero incontrati insieme là, nella casa della balia, l’uno avrebbe ucciso l’altro, sicuramente, o avrebbe ucciso il bimbo, per la soddisfazione atroce di sottrarlo alla carezza dell’altro, intollerabile.

             Come durare a lungo in questa condizione? Per ora, Nillì era piccino piccino, e poteva star lì con la balia, che assicurava di volerlo tenere con sé, come un figliuolo, almeno fino al ritorno del marito dall’America. Ma non ci poteva star sempre! Crescendo, bisognava pur dargli una certa educazione.

             Sì, era inutile, per adesso, amareggiarsi di più il sangue, pensando all’avvenire. Bastava la tortura presente.

             L’uno e l’altro s’erano confidati con la balia, la quale, impressionata dal fatto che quei due zìi non venivano mai insieme a visitare il nipotino, ne aveva chiesto ingenuamente la ragione. Ciascuno dei due aveva assicurato la balia, che il figlio era suo, traendone la certezza da questo e da quel tratto del bimbo, il quale, certo, non somigliava spiccatamente né all’uno né all’altro, perché aveva preso molto dalla madre; ma, ecco, per esempio, la testa… non era forse un po’ come quella di Carlino? poco, sì…, appena appena… un’idea…, ma era pure un segno, questo! Gli occhi azzurri del bimbo, invece, erano un segno rivelatore per Tito Morena che li aveva azzurri anche lui; sì, ma anche la madre, per dire la verità, li aveva azzurri, ma non così chiari e tendenti al verde, ecco.

             – Già, pare… – rispondeva all’uno e all’altro la balia, dapprima costernata e afflitta da quell’accanita contesa, sul bimbo, ma poi raffidata appieno, per il consiglio che le avevano dato i parenti e i vicini, che fosse meglio, cioè, per lei e anche per il bimbo, tenerli così a bada tutti e due, senz’affermare mai e senza negare recisamente. Era difatti una gara, tra i due, d’amorevolezze, di pensieri squisiti, di regali, per guadagnarsi quanto più potevano il cuore del bimbo, a cui ella intanto dava istruzione non di malizia, ma d’accortezza: se veniva zio Carlo, non parlare di zio Tito, e viceversa; se uno gli domandava qualcosa dell’altro, risponder poco, un sì, un no, e basta; se poi volevano sapere a chi egli volesse più bene, rispondere a ciascuno: – Più a te! – solo per contentarli, ecco, perché poi egli doveva voler bene a tutti e due allo stesso modo.

             E veramente a Nillì non costava alcuno sforzo rispondere, secondo i consigli della balia, all’uno e all’altro dei due zii: – Più a te!  – perché, stando con l’uno o con l’altro, gli sembrava ogni volta che non si potesse star meglio, tanto amore e tante cure gli prodigavano entrambi, pronti a soddisfare ogni suo capriccio, pendendo ciascuno da ogni suo minimo cenno.

             D’improvviso, ma quando già Carlino Sanni e Tito Morena erano più che mai sprofondati nella costernazione circa ai provvedimenti da prendere per l’educazione di Nillì che aveva ormai compiuti i cinque anni, arrivò alla balia una lettera del marito, che la chiamava in America.

             Carlino Sanni e Tito Morena, senza che l’uno sapesse dell’altro, nel ricevere quest’annunzio, andarono da un giovane avvocato, loro comune amico, conosciuto tempo addietro nella trattoria, dove prima si recavano a desinare insieme.

             L’avvocato ascoltò prima l’uno e poi l’altro, senza dire all’uno che l’altro era venuto poc’anzi a dirgli le stessissime cose e a fargli la stessissima proposta, che cioè il ragazzo, suo o non suo, fosse lasciato interamente a suo carico (nessuno dei due diceva al suo affetto), pur d’uscire da quella insopportabile situazione.

             Ma non c’era, né ci poteva esser modo a uscirne, finché nessuno dei due voleva abbandonar del tutto all’altro il ragazzo. Né il giudizio di Salomone era applicabile. Salomone si era trovato in condizioni molto più facili, perché si trattava allora di due madri, e una delle due poteva esser certa che il figlio era suo. Qua l’uno e l’altro, non potendo aver questa certezza ed essendo animati da un odio reciproco così feroce, avrebbero lasciato spaccare a metà il ragazzo per prendersene mezzo per uno. Non si poteva, eh? Dunque, un rimedio. L’unico, per il momento, era di mettere in collegio il ragazzo, e accordarsi d’andarlo a visitare una domenica l’uno e una domenica l’altro, e che le feste le passasse un po’ con l’uno e un po’ con l’altro. Questo, per il momento. Se poi volevano veramente risolvere la situazione, il giovane avvocato non ci vedeva altro mezzo, che questo: che il figlio, non potendo essere di uno soltanto, non fosse più di nessuno dei due. Come? Cercando qualcuno che volesse adottarlo. Se i due volevano, egli poteva assumersi quest’incarico.

             Nessuno dei due volle. Recalcitrarono, si scrollarono furiosamente alla proposta; l’uno tornò a gridar contro l’altro le ingiurie più crude, per la sopraffazione che intendeva usare: il figlio era suo! era suo! non poteva esser che suo! per questo segno e per quest’altro! E Carlino Sanni credeva anche d’aver maggior diritto, perché lui, lui, Tito, aveva fatto morire quella povera donna, di cui egli aveva avuto sempre pietà! Ma allo stesso modo Tito Morena credeva anche d’avere maggior diritto, perché non aveva sofferto meno, lui, della durezza che era stato costretto a usare verso Melina, per colpa di Carlino!

             Inutile, dunque, tentare di metterli d’accordo. Nillì fu chiuso in collegio. Ricominciò, con la vicinanza, più aspra e più fiera la tortura di prima. E durò circa un anno. S’offerse da sé, infine, un caso, che rese possibile e accettabile ai due la proposta del giovane avvocato.

             Nillì, nel collegio, durante quell’anno, aveva stretto amicizia con un piccolo compagno, unico figliuolo d’un colonnello, a cui tanto Carlino Sanni, quanto Tito Morena, avevano dovuto per forza accostarsi, giacché i due piccini (i più piccoli del collegio) entravano nel salone delle visite domenicali tenendosi per mano senza volersi staccare l’uno dall’altro. Il colonnello e la moglie eran molto grati a Nillì dell’affetto e della protezione che esso aveva per il piccolo amico, il quale, pur essendo della sua età, appariva minore, per la bionda gracilità feminea e la timidezza. Nillì, cresciuto in campagna, era bruno, robusto, sanguigno e vivacissimo. L’amore di quel piccolino per Nillì aveva qualcosa di morboso; e inteneriva assai la moglie del colonnello. Sulla fine dell’anno scolastico, esso morì all’improvviso, una notte, lì nel collegio, come un uccellino, dopo aver chiesto e bevuto un sorso d’acqua.

             ir colonnello, per contentar la moglie inconsolabile, saputo dal direttore del collegio che Nillì era orfano, e che quei due signori che venivano la domenica a visitarlo, erano zìi, fece per mezzo del direttore stesso la proposta d’adottare il ragazzo, a cui il piccino defunto era legato di tanto amore.

             Carlino Sanni e Tito Morena chiesero tempo per riflettere; considerarono che la loro condizione e quella di Nillì sarebbe divenuta con gli anni sempre più difficile e triste; considerarono che quel colonnello e sua moglie erano due ottime persone; che la moglie era molto ricca e che perciò per Nillì quell’adozione sarebbe stata una fortuna; domandarono a Nillì, se aveva piacere di prendere il posto del suo amicuccio nel cuore e nella casa di quei due poveri genitori; e Nillì, che per i discorsi e i consigli della balia doveva aver capito, così in aria, qualcosa, disse di sì, ma a patto che i due zii venissero a visitarlo spesso, ma insieme, sempre insieme, in casa dei genitori adottivi.

             E così Carlino Sanni e Tito Morena, ora che il figlio non poteva più essere né dell’uno né dell’altro, ritornarono a poco a poco di nuovo amici come prima.

Raccolta La rallegrata
01 – La rallegrata – 1911
02 – Canta l’Epistola – 1906
03 – Sole e ombra – 1896
04 – L’Avemaria di Bobbio – 1912
05 – L’imbecille – 1912
06 – Sua Maestà – 1904
07 – I tre pensieri della sbiobbina – 1905
08 – Sopra e sotto – 1914
09 – Un «goj» – 1922
10 – La patente – 1911
11 – Notte – 1911
12 – O di uno o di nessuno – 1912
13 – Nenia – 1901
14 – Nenè e Ninì – 1912
15 – «Requiem aeternam dona eis, Domine!» – 1913
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