Legge Giuseppe Tizza.
«Com’era fredda! Ma bisognava farla tacere… Quel pianto era insopportabile… Non voleva latte? Era fasciata forse troppo stretta? Volle sfasciarla lei, con le sue mani. Oh che gambette misere, paonazze… e come tremavano, contratte dallo spasimo.»
Prima pubblicazione: Il Marzocco, 12 luglio 1903.
Pianto segreto
Voce di Giuseppe Tizza
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Seduto innanzi all’ampia scrivania, su cui stavano aperti e schierati tutt’intorno relazioni e prospetti irti di cifre, il cavalier Cao, magro, ispido, pallido, aspettava che S. E. il Ministro riprendesse a dettare.
Mezzanotte, tra breve. Ed era la terza notte, quella, che il cav. Cao, dopo aver passato l’intera giornata in continua briga al Ministero, veniva lí, al palazzo dove abitava S. E., per stendere finalmente l’Esposizione finanziaria, che il Ministro fra qualche: giorno doveva leggere alla Camera dei Deputati.
Non ne poteva piú. Ma non tanto la stanchezza gli rendeva oppressivo quel lavoro, quanto la sofferenza che gli cagionava la vista di quell’uomo venerando, per cui egli sentiva ancora profondo e sincero affetto, se non più l’ammirazione di prima.
Eh, no! ammirazione, no. Non si vive, non si può vivere sessanta e più anni, commettendo sempre eroiche azioni. Qualche sciocchezza si deve pur commettere.
E una oggi, una domani, tirando infine la somma, si viene a stabilire come una bilancia, la quale, purtroppo …
Si stirava, cosí pensando, il cav. Cao un ispido pelo dei baffi, inverosimilmente lungo. Perbacco! Gli arrivava fitt sul capo, gli arrivava… Un pelo solo. Nero.
S. E. passeggiava per lo scrittoio, aggrondato, a capo chino con le mani dietro la schiena. – L’ha pelosa, la schiena, – pensava il cav. Cao, guardandolo. – Pelosa, come il petto. L’ho visto nel bagno. Pareva un orso.
Ah, quante cose, quante particolarità ridicole non aveva egli scoperto nella persona di S. E., dacché non lo ammirava piú come prima! Quella nuca, per esempio, così grossa e liscia e lucente, e tutti quei nerellini che gli punteggiavano il naso, e quelle sopracciglia… là zi! zi!– come due virgolette. Finanche negli occhi, negli occhi che gl’incutevano un tempo tanta soggezione, aveva scoperto certe macchioline curiose che pareva gli forassero la cornea verdastra.
Si meravigliava egli stesso, talvolta, e si rattristava insieme, di poter vedere, ora, così, quell’uomo che, in altri tempi, lo aveva addirittura abbagliato, acceso d’entusiasmo per le gesta eroiche che si raccontavano di lui garibaldino e poi per le memorande lotte parlamentari strenuamente combattute.
Mah! Ora Francesco D’Adria non pensava che a sporcarsi timidamente, d’una tinta giallognola, i pochi capelli che gli erano rimasti attorno al capo e l’ampia barba che sarebbe stata cosi bella, se bianca.
Anche lui, è vero, il cav. Cao, da circa un anno, poco poco… i baffi soltanto; ma per non averli, ecco, un po’ bianchi, un po’ neri. Gli seccava. E poi, del resto, per lui quella tintura non avrebbe mai avuto le conseguenze disastrose che aveva avuto per S. E. Quantunque infine non avesse ancora quaran… ah, sì, quarant’anni, da tre giorni: ebbene, quaranta: non avrebbe mai preso moglie, lui. E Francesco d’Adria, invece, sì, I’aveva presa, a ses-san-ta-sei anni sonati, e giovane per giunta la aveva presa.
Segno evidentissimo di rammollimento cerebrale.
E dunque basta, eh? – bisognava metterlo da parte (la vita ha le sue leggi!) – da parte, senza considerazione e senza pietà Pietà, tutt’al piú, poteva averne lui, perché gli voleva bene, perché vedeva ch’egli soffriva atrocemente; in silenzio, dell’enorme sciocchezza commessa, ma provava anche sdegno, ecco, sdegno amarissimo per la remissione di cui gli vedeva dar prova di fronte a quella moglie giovane che, quasi subito dopo le nozze, s’era messa a far pubblicamente strazio dell’onore di lui.
Lo spesso tappeto attutiva il rumor dei passi di S. E. che seguitava ad andare in su e in giù per la stanza, cogitabondo. Evidentemente’ non si ricordava piú né del cav. Cao che stava lì ad aspettare innanzi alla scrivania, né dell’esposizione finanziaria; preoccupato certo d’un pianto infantile angoscioso che, nel silenzio della casa, veniva fin lì, da una camera remota, non ostanti gli usci chiusi. Già una volta egli si era recato di là, a vedere che cosa avesse la figliuola.
Il cav. Cao non seppe frenar più oltre la stizza – (perché, santo Dio, tutta Roma sapeva che quella bambina… quella bambina…) – si alzò, come sospinto da una susta, soffiando per le nari uno sbuffo.
S. E. si arrestò e si volse a guardare.
– Oh, scusi tanto, cavaliere: mi sono distratto. Basta per questa sera, eh? Lei sarà stanco; io non mi sento disposto… Saranno le undici è vero?
– Mezzanotte, Eccellenza! Ecco qua: le dodici e un quarto.
– Ah si? E… e questo teatro, dunque quando finisce?
– Che teatro, Eccellenza?
– Ma non so; il Costanzi, credo. Dico per… per quella bambina. Sente come strilla di là? Non si vuol quietare. Forse, se ci fosse la mamma…
– Vuole che passi dal Costanzi, ad avvertire?
– No no, grazie… Tanto, adesso, poco potrà tardare. Buona notte, cavaliere. A domani.
Il cav. Cao s’inchinò profondamente, tirando per il naso aria aria aria che, appena varcata la soglia, buttò fuori con un versaccio rabbioso.
Francesco D’Adria, rimasto solo, si premé forte ambo le mani sul volto. Il lucido cranio calvo gli s’infiammò, sotto le lampadine elettriche della lumiera che pendeva dal soffitto. Si trattenne ancora un pezzo li, nello scrittoio, a passeggiare, fosco; poi si recò di nuovo nella camera dove piangeva la piccina.
Era la camera della bàlia. Un lumino da notte, riparato da una ventola litofana, sul cassettone, la rischiarava a mala pena. La vecchia governante, magra e linda, passeggiava con la creaturina in braccio, adagiata sul seno, con la testina appoggiata su l’omero.
– Nono… nooo… – le ripeteva, come in risposta ai vagiti.
La bàlia, intanto, con una mammella scoperta, piangeva anche lei: piangeva e giurava alla cameriera della signora di non aver mangiato alcun cibo dannoso.
– (Sta’ zitta! Le prugne secche… Sta’ zitta!)
Il D’Adria prese dal tavolino da notte un campanello e si mise a farlo tintinnire innanzi agli occhi della bambina, per distrarla andando dietro alla governante.
Così lo trovò, poco dopo, donna Giannetta, di ritorno dal teatro, tutta frusciante di seta. Credette dapprima che il vecchio si compiacesse, sotto gli occhi delle serve, di mostrar la sua ridicola tenerezza paterna, dopo le gravi cure dello Stato; e aprí le labbra a un impercettibile sorriso canzonatorio. Ma la cameriera, accorsa a liberarla dallo scialletto ch’ella teneva ancora in capo e a slacciarle la mantiglia, le spiegò, piano, che cosa era accaduto.
– Ah si? Poverina… – fece ella, con ostentata indifferenza, e si accostò alla governante. Ma il D’Adria le fe’ cenno di tacere. La bambina s’era finalmente quietata.
Donna Giannetta si recò nella sua camera seguita dalla cameriera. Ivi a poco, mentre si disponeva ad andare a letto, vide entrare il marito, cupo, grave.
– Ho da parlarti, – disse egli, senza guardarla, andando a sedere su la greppina.
– Discorso lungo? Non potresti domani? Temo d’essere troppo stanca e d’aver sonno. Mi sono orribilmente annojata. Se perdo il filo?
– Non lo perderai, – diss’egli, accigliato, lisciandosi la barba con la mano tremolante. – Del resto, se vuoi, il mio discorso potrà anche esser breve: tu però non ti offenderai, perché, se dev’esser breve, sarà pure molto chiaro. Mi lascerai dire; poi farai quel che ti dirò io, e basterà cosi. Dunque senti.
– Sento… – sospirò donna Giannetta, abbandonandosi su una poltrona.
Francesco D’Adria si levò da sedere, venne a piantarsi di fronte alla moglie e agitò più volte due dita.
– Due sciagure ti son capitate, – cominciò.
Donna Giannetta si scosse.
– Due? A me?
– Una, l’hai proprio voluta, seguitò egli. – E sono io.
– Ah! E perché sciagura? – esclamò ella, ridendo e intrecciando le mani sul capo.
Le larghe maniche dell’accappatoio scivolarono e scoprirono le braccia bellissime.
– Finora, no, – riprese egli. – Non te ne sei accorta bene, perché al fastidio che ho potuto recarti di quando in quando, hai trovato un compenso larghissimo nella mia… dirò così: filosofia.
– L’altra sciagura? – domandò ella, con aria distratta.
Francesco D’Adria tornò a sedere. Veniva adesso il difficile del discorso, ed egli voleva esprimersi quanto meno crudamente gli fosse possibile. Poggiò i gomiti su i ginocchi, si prese la testa tra le mani, per concentrarsi meglio, e parlò, guardando verso terra:
– Lasciami dire. Ho dovuto… ho dovuto scontare Onora la… la imperdonabile illusione che mi ero fatta, sposandoti. Tu, in ciò, non hai colpa alcuna. Era naturale che, tra i diritti della tua gioventù e i tuoi doveri di moglie, tu seguissi piuttosto quelli che questi. Avrei potuto farti osservare che tu stessa, accettando spontaneamente, anzi con… con entusiasmo, un giorno, questi doveri verso un vecchio, avevi implicitamente, è vero? rinunziato a quei diritti; ma neanche di ciò ti fo colpa, perché forse anche tu, allora, ti facesti l’illusione che…
A questo punto Francesco D’Adria sollevò il capo e s’interruppe, stupito. Donna Giannetta dormiva, con una mano ancora sul capo e un braccio scoperto, proteso verso di lui, come per implorar misericordia.
– Gianna! – chiamò egli, ma non tanto forte, frenando la stizza e lo sdegno, come se al suo amor proprio dolesse che ella, destandosi a quel richiamo, dovesse riconoscere d’aver ceduto al sonno, mentr’egli le parlava di cosa tanto grave. Riabbassò il capo, e terminò a voce alta il discorso rimasto in sospeso:
– Ti facesti l’illusione che… sì, che avresti potuto facilmente adempiere ai tuoi doveri.
Donna Giannetta non si destò. E allora Francesco D’Adria sorse in piedi, fremente, fu lì lì per afferrarle quel braccio nudo proteso e scuoterglielo con estrema violenza, gridandole in faccia le ingiurie piú crude. Ma la calma incosciente del sonno di lei, per quanto gli paresse quasi spudorata, e come una sfida, lo trattenne.
Sembrava che ella, così giacente, nel sonno, gli dicesse: « Guardami come son giovane e come son bella! Che pretendi da me? »
Egli strinse le pugna, esasperato, scosse il capo e uscì pian piano dalla camera.
Subito donna Giannetta balzò in piedi sbuffando.
Auff! sul serio, a quell’ora, una spiegazione? E perché? Quando avrebbe dovuto parlare, egli se n’era stato zitto; e ora, ora che ella si annoiava soltanto, mortalmente pretendeva da lei una spiegazione? Eh via! Troppo tardi; troppo tardi… Se egli stesso del resto, col suo contegno, fra le inevitabili relazioni della nuova vita in cui la aveva messa, di fronte alle tentazioni, a cui questa vita la esponeva, a gli esempii che di continuo essa le metteva sotto gli occhi, aveva contribuito a farle stimar troppo ingenuo, puerile e tale da attirar l’altrui derisione il bel sogno da lei accarezzato tre anni addietro, sposando? Oh, sì, con la massima sincerità, ella aveva allora sognato di rallegrar col riso della sua giovinezza gli ultimi anni della vita eroica di Francesco d’Adria, vecchio amico e fratello d’armi di suo padre. Ebbene, egli non la aveva ritenuto [sic] capace di serbarsi fedele a questo sogno. Invano aveva atteso da lui un richiamo. E allora, quasi per dispetto, era trascesa, era caduta, oh giù, giù, orribilmente. Ma, alla fin fine, tante sue amiche e compagne riverite, riveritissime, rispettabili, rispettabilissime. E se egli stesso, anche or ora, non ci trovava nulla da ridire, perché avrebbe dovuto ella farsene un rimorso? Non si era davvero divertita, né si divertiva: tutt’altro! Che voleva dunque da lei?
– Ma… – pensò, a questo punto, donna Giannetta, – e l’altra sciagura?
S’infoscò in volto. Innanzi a gli occhi le sorse l’immagine di colui che, o per timore di perderla o con la speranza di legarla a sè maggiormente (imbecille!), o fors’anche per vendetta, non aveva saputo impedire ch’ella divenisse madre. Si, non c’era dubbio: l’altra sciagura, a cui il vecchio alludeva, era la figlia, quella bambina…
– « Due sciagure ti son capitate… Una, l’hai proprio voluta… »
L’altra, dunque, no. E aveva ragione: quest’altra sciagura, ella non la aveva proprio voluta. Ma se egli sapeva tutto, e sapeva che ella non poteva sentire alcun affetto per quella creatura che le ricordava l’amante odiato, l’uomo che a tradimento aveva voluto renderla madre, perché, poc’anzi, s’era fatto trovar da lei presso quella bambina piangente, con un campanello in mano? Perché tanta ostentazione di tenerezza per quella creatura? Perché aveva voluto accomunarla a lui, come per mettersi insieme con essa di fronte a lei, dicendo che entrambi – lui e la bambina – rappresentavano per lei due sciagure? Che voleva concludere?
Donna Giannetta si pentì d’aver finto di dormire. Rimase ancora un pezzo a pensare, a riflettere, poi uscì dalla camera in punta di piedi e, al buio, rattenendo il fiato, cauta, tentoni, si recò fino all’uscio della camera del marito. Origliò, poi si chinò a guardare attraverso il buco della serratura.
Francesco D’Adria, seduto lì nella sua camera, come dianzi nella camera di lei coi gomiti su le ginocchia e la testa tra le mani, – piangeva!
Donna Giannetta si sentì quasi fender la schiena da un brivido lungo, e si ritrasse sconvolta, in preda a uno stupore ch’era anche sgomento. ! Egli piangeva!
Restò lì, tremante, con l’anima in tumulto, senza riuscire a formare un pensiero. Poi, improvvisamente, temendo ch’egli aprisse l’uscio e la scoprisse lì in agguato, si mosse per rientrare nella sua camera. Ma, passando, come una ladra, innanzi all’uscio della camera ove dormiva la bambina, s’arrestò.
Anche la bambina, qua, piangeva! Tutt’e due…
Inconsciamente, quasi per trovare un rifugio che la nascondesse a se stessa in quel momento, schiuse quell’uscio, ed entrò.
La bàlia, seduta in mezzo al letto, smaniava, disperata. La bambina, dopo un breve sonno inquieto, aveva ripreso a contorcersi per le doglie e a vagire così.
Donna Giannetta non intese bene, dapprima, ciò che la bàlia diceva; allungò una mano a carezzar la bambina trangosciata, e subito la ritrasse, quasi per ribrezzo.
Com’era fredda! Ma bisognava farla tacere… Quel pianto era insopportabile… Non voleva latte? Era fasciata forse troppo stretta? Volle sfasciarla lei, con le sue mani. Oh che gambette misere, paonazze… e come tremavano, contratte dallo spasimo. Si provò a tenergliele; ma erano gelate! Era tutta gelata, quella piccina… Come, con che ravvolgerla? Ecco là, la copertina de la culla… Su, su.
Donna Giannetta se la prese in braccio, se la strinse contro il seno, forte e delicatamente, e si mise a passeggiare per la camera, cullando la figlioletta col dondolio della persona, come non aveva mai fatto. Sentiva sul seno le contrazioni del piccolo ventre addogliato e quasi il gorgoglio del pianto dentro quel corpicciolo tenero e freddo. Quasi senza volerlo, allora, si mise a piangere anche lei, non per pietà della piccina, no… o fors’anche, sì, perché la vedeva soffrire… ma piangeva anche perché… perché non lo sapeva neppur lei.
A poco a poco, la piccina, come se sentisse il calore dell’amor materno, che per la prima volta la confortava, si quietò di nuovo. Donna Giannetta era già stanca, tanto stanca, e pur non di meno seguitò ancora un pezzo a passeggiare e a batter lievemente, a ogni passo, una mano su le terga della piccina Poi si fermò; con la massima precauzione, per non farla svegliare, se la tolse dal seno; si mise a sedere e se la adagiò su le ginocchia; fé’ cenno alla bàlia di rimanersene a letto e, al fioco lume del lampadine da notte, si diede a contemplar la figliuola. Una gioia nuova, inattesa, la invase tutta, le sollevò il cuore. Vide quella creaturina, tranquilla ora per opera sua, lì in grembo a lei, come non la aveva mai veduta. Forse perché non aveva mai fatto nulla per lei. Povera piccina, cresciuta finora senz’affetto, senza cure… E che colpa aveva?
Strizzò gli occhi, come per ricacciare indietro un sentimento che le faceva impeto nello spirito. Ma no! Che colpa aveva la piccina d’esser nata?
E a un tratto guardando così la figlia, con altri occhi, comprese quel che il marito voleva dirle. Egli era e si sentiva vecchio, e sapeva di non poter riempire la vita di lei; ma ella aveva una figlia, ora; e una figlia può e deve riempir la vita d’una madre. Egli poteva fare uno scandalo, e non l’aveva fatto; non solo, ma aveva dato anzi a quella bambina, che non era sua figlia, il prestigio del nome, del grado, e anche… sì, anche la sua tenerezza Orbene, ella, madre, poteva dar bene alla propria figlia l’affetto, le cure, l’esempio d’una condotta illibata.
Ecco, sì, questo questo senza dubbio, egli voleva dirle. Ed ella aveva finto di dormire…
A lungo donna Giannetta rimase lì, quella notte, a pensare, con la bambina in grembo. Pensò con amarissimo rimpianto al suo bel sogno giovanile; e, con nausea, quel che gli uomini le avevano offerto in cambio di questo sogno… Stupide finzioni, volgarità schifose… Poi, a poco a poco cedette al sonno.
Prima dell’alba, Francesco D’Adria attraversando il corridojo per recarsi nello studio vide aperto l’uscio della camera della bàlia, e sporse il capo a guardare.
Rimase stupito nel trovar la moglie lì, addormentata su una poltrona con la bambina in braccio. Le si accostò pian piano per contemplarla e sentì lo stupore sciogliersi con un tremor per le vene in una tenerezza infinita. Si chinò e la baciò in fronte.
Donna Giannetta si destò; provò anch’ella stupore, dapprima, nel ritrovarsi lì, con la piccina su le ginocchia; poi sorrise e, tendendo una mano al marito e guardandolo con gli occhi pieni della sua gioia nuova, gli domandò:
– Va bene così?
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