Legge Giuseppe Tizza.
«Le galline sono tanto stupide, che covano anche le uova fetale da altre, e quando da queste uova non loro nascono i pulcini, non sanno distinguerli da quelli nati dalle uova loro, e li amano e li allevano con la stessa cura. Non sanno poi, che ai pulcini umani non basta il solo calore materno, ma è necessario anche il latte.»
Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 2 ottobre 1911, poi in Terzetti, Treves, Milano 1912.
Il libretto rosso
Voce di Giuseppe Tizza
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Nisia. Grosso borgo affaccendato, su una striscia di spiaggia del mare africano.
Nascere in mal punto non è prerogativa soltanto degli uomini. Anche un borgo non nasce come o dove vorrebbe, ma là dove per qualche necessità naturale urga la vita. E se troppi uomini, costretti da questa necessità, convengono in quel punto e troppi ve ne nascono e il punto è troppo angusto, per forza il borgo deve crescere male.
Nisia, se ha voluto crescere, s’è dovuto arrampicare, una casa su l’altra, per le marne scoscese dell’altipiano imminente, il quale, poco oltre il borgo, strapiomba minaccioso sul mare. Liberamente avrebbe potuto estendersi su questo altipiano vasto e arioso; ma si sarebbe allora allontanato dalla spiaggia. Forse una casa, posta per forza lassù, un bel giorno, sotto il cappello delle tegole e stretta nello scialle del suo intonaco, si sarebbe veduta scendere come una papera alla spiaggia. Perché lì, su la spiaggia, urge la vita.
Su l’altipiano quelli di Nisia hanno posto il cimitero. Il respiro è lassù, per i morti.
– Lassù respireremo, – dicono quelli di Nisia.
E dicono così, perché giù, sulla spiaggia, non si respira; in mezzo al traffico tumultuoso e polverulento dello zolfo, del carbone, del legname, dei cereali e dei salati non si respira. Se vogliono respirare, debbono andare lassù; ci vanno da morti, e si figurano che, morti, respireranno.
E una bella consolazione.
Molta indulgenza bisogna avere per gli abitanti di Nisia, perché non è molto facile essere onesti quando si sta male.
Cova in quelle case oppresse, tane più che case, un tristo tanfo umido e acre, che corrompe a lungo andare ogni virtù. Concorrono a questa corruzione della virtù, cioè a crescere il tanfo, il majaletto e le galline, e, non di rado, anche qualche scalpicciante somarello. Il fumo non trova sfogo e ristagna in quelle tane e annegra soffitto e pareti. E che smorfie di disgusto fanno dalle stampacce fuligginose i santi protettori appesi a quelle pareti!
Gli uomini lo sentono meno, imbrigati e imbestiati come sono tutto il giorno sulla spiaggia o sulle navi; le donne, lo sentono; e ne sono come arrabbiate, e pare che questa loro rabbia sfoghino facendo figliuoli. Quanti ne fanno! Chi dodici, chi quattordici, chi sedici… Vero è che poi non riescono a tirarne su più di tre o quattro. Ma quelli che muojono in fasce ajutano a crescere e a prendere stato quei tre o quattro, non si sa se più fortunati o sfortunati; che ogni donna, subito dopo la morte d’uno di quei figliuoli, corre all’ospizio dei trovatelli e se ne prende uno, con la scorta d’un libretto rosso, che vale per parecchi anni trenta lire al mese.
Tutti i mercanti di tele e d’altre stoffe sono a Nisia Maltesi. Anche se nati in Sicilia, sono Maltesi. «Andare dal Maltese» vuol dire a Nisia andare a provvedersi di tela. E i Maltesi, armati di mezzacanna, fanno a Nisia affaroni: fanno incetta di quei libretti rossi; danno per ciascun libretto duecento lire di roba: un corredo da sposa. Le ragazze a Nisia si maritano tutte così, coi libretti rossi dei trovatelli, a cui le mamme in compenso dovrebbero dare il latte.
E bello vedere, alla fine d’ogni mese, la processione dei panciuti e taciturni Maltesi, in pantofole ricamate e berretto di seta nera, un fazzolettone turchino in una mano e nell’altra la tabacchiera d’osso o d’argento, al Municipio di Nisia, ciascuno con sette o dieci o quindici di quei libretti rossi di baliatico. Seggono in fila sulla panca del lungo corridojo polveroso ove si apre lo sportello dell’ufficio d’esattoria, e ognuno aspetta il suo turno, pacificamente pisolando o infrociando tabacco o cacciando via le mosche pian piano. Il pagamento del baliatico ai Maltesi è ormai a Nisia tradizionale.
– Marenga Rosa, – grida l’esattore.
– presente, – risponde il Maltese.
Marenga Rosa De Nicolao è famosa al Municipio di Nisia. Da più di vent’anni nutre l’usura dei Maltesi con una serie quasi ininterrotta di quei libretti rossi.
Quanti figliuoli le sono morti in fasce? Non ne ricorda più il numero neppur lei. Ne ha tirati su quattro, femmine. Tre le ha già maritate. Ora ha la quarta sposa.
Ma non si sa più se sia donna o strofinaccio. Tanto che i Maltesi, a cui si è rivolta per le tre prime figliuole, si sono rifiutati per questa quarta di farle credito.
– Gnora Rosilla, non gliela fate.
– Io? Non gliela faccio, io?
Si è sentita offesa nella dignità di bestia per tanti anni buona per razza e per latte e, poiché non si discute coi taciturni Maltesi, ha strillato ferocemente davanti alle botteghe.
Se all’ospizio le hanno affidato un trovatello, non è segno che hanno riconosciuto in lei la possibilità di allevarlo?
Ma a questo argomento i Maltesi, nell’ombra, dietro il banco della bottega, hanno sorriso sotto il naso, tentennando il capo.
Si può supporre che essi non abbiano molta fiducia nel medico e nell’assessore comunale incaricati di sorvegliare alla sorte dei trovatelli dell’ospizio. Ma non è questo. I Maltesi sanno che agli occhi di quel medico e di quell’assessore il compito d’una madre che deve maritar la figliuola e non ha altro mezzo che quello d’un libretto rosso, è assai più grave e merita maggior considerazione che il compito d’allevare un trovatello, il quale, se muore, a chi fa male? e chi se ne lagna, se patisce?
Una figliuola è una figliuola; un trovatello è un trovatello. E se la figliuola non si marita, c’è pericolo che si metta a far crescere anche lei il numero dei trovatelli, a cui il Municipio dovrà poi provvedere.
Se però per il Municipio la morte d’un trovatello è una fortuna, è per il Maltese per lo meno un cattivo affare, anche se riesca a riprendersi la roba anticipata. Non sono rare perciò, in certe ore del giorno, le visite di perlustrazione dei Maltesi, sotto colore di giratina per sollievo, in quei sudici vicoli formicolanti di bimbi ignudi terrigni arsicci, di majaletti cretacei e di galline, ove da un uscio all’altro ciarlano o più spesso leticano tutte quelle mamme dai libretti rossi.
Dei trovatelli i Maltesi si prendono la stessa cura che dei majaletti le donne.
Qualche Maltese, al colmo della costernazione, è arrivato perfino a far dare a un trovatello molto deperito una bevutina di latte dalla propria moglie per una mezz’oretta al giorno.
Basta. Rosa Marenga ha trovato alla fine un Maltese di second’ordine, un maltesino principiante, il quale le ha promesso di darle un po’ per volta non, come di solito, duecento lire di roba, ma centoquaranta. Lo sposo della figliuola e i suoi parenti se ne sono contentati, e si sono stabilite le nozze.
Ora il trovatello affamato, entro una specie di sacco sospeso con l’arcuccio a due funi in un angolo della tana, strilla da mane a sera, e Tuzza, la figliuola fidanzata di Rosa Marenga, fa all’amore, conversa col promesso sposo, ride, cuce il suo corredo e, di tanto in tanto, tira la cordicella legata a quella culla primitiva e la fa dondolare:
– Aòh, bello, aòh! Mamma Santissima, com’è «retico» questo nutrico!
«Retico» viene da eretico e significa inquieto, bizzoso, fastidioso, scontento. Non si può dire che non sia un modo blando, per gente cristiana, di giudicare gli eretici. Un po’ di latte, e quel bambino diventerebbe subito cristiano! Ma ne ha tanto poco mamma Rosa, di latte.
Bisogna bene che Tuzza si rassegni ad andare a nozze con quella musica di strilli disperati. Se ella non avesse dovuto sposare, questa volta mamma Rosa, in coscienza, non avrebbe preso dall’ospizio un trovatello. L’ha preso per lei; il bimbo piange per lei, perché lei possa fare all’amore. E l’amore ha tanta potenza, che non fa sentire gli strilli dell’affamato.
Il promesso sposo, del resto, che è uno scaricatore di bordo, viene di sera, quando è finito il lavoro del porto; e, se la serata è bella, mamma, figliuola e fidanzato se ne vanno su l’altipiano a respirare il chiaro di luna; e il trovatello rimane a strillar solo al bujo, nella tana serrata, sospeso in quella specie di cuna. Lo sentono i vicini, con smanioso fastidio e con angoscia, e per pietà, tutti d’accordo, gli augurano la morte. Levano proprio il respiro, quegli strilli ininterrotti.
Finanche il porcellino n’ha fastidio e sbuffa e grufola; e se ne inquietano, raccolte sotto il forno, le galline.
Che borbottano tra loro le galline?
Qualcuna di esse è stata chioccia e ha provato l’angoscia, una volta, di sentirsi chiamare da lontano da un suo pulcino sperduto. Starnazzando, avventandosi di qua e di là con tutti i merluzzi della cresta erti, non s’era data pace finché non lo aveva ritrovato. Ora, come mai la mamma di quel piccino, che certo dev’essere anche lui sperduto, non accorre a quei disperati richiami?
Le galline sono tanto stupide, che covano anche le uova fetale da altre, e quando da queste uova non loro nascono i pulcini, non sanno distinguerli da quelli nati dalle uova loro, e li amano e li allevano con la stessa cura. Non sanno poi, che ai pulcini umani non basta il solo calore materno, ma è necessario anche il latte. Il porcello lo sa, che ha avuto bisogno di latte anche lui, e n’ha avuto, oh! ne ha avuto tanto, perché la mamma sua, benché porca, notte e giorno gliene diede con tutto il cuore, finché ne volle. Esso perciò non sa concepire che si possa strillar così per mancanza di latte e, aggirandosi per la tana buja, protesta co’ suoi grugniti da ingordo contro il piccino sospeso nella cuna, «retico» anche per lui.
Su, piccino, lascia dormire il porchetto grasso, che ha sonno; lascia dormire le galline e il vicinato. Credi pure che te lo darebbe il latte mamma Rosa, se ne avesse; ma non ne ha. Se di te non ha avuto pietà la tua mamma vera, la tua mamma ignota, come vuoi che ne abbia lei, che deve averla invece per la sua figliuola? Lasciala respirare un po’ lassù, dopo una giornataccia di rudi fatiche, e beare della gioia della sua figliuola innamorata, che passeggia sotto la luna, a braccio del promesso sposo. Se tu sapessi che luminoso velo, trapunto di rugiada e tutto sonoro di trilli argentini, stende la luna lassù! E fiorisce spontaneo in quell’incanto delizioso un desiderio accorato di bontà. Tuzza si promette in cuore d’essere una mamma amorosa per i suoi piccini.
Su, povero piccolo, fatti capezzolo d’un tuo ditino, e succhia, succhia questo, invece, e addormentati! Ditino? Oh Dio! Che hai fatto? Il pollice della tua manina manca è diventato così enorme che quasi non puoi più ficcartelo in bocca! Enorme esso solo, quel dito, nella gracile manina gelida e rattrappita; enorme esso solo in tutto il tuo corpicciuolo. Con codesto pollice in bocca, ti sei tutto succhiato, fino a non lasciare più che sola pelle attorno agli ossicini del tuo scheletro. Come, dove trovi in te la forza di strillare ancora così?
Miracolo. Di ritorno dal chiaro di luna, mamma, figliuola e fidanzato trovano, una sera, nella tana un gran silenzio.
– Zitti, per carità! – raccomanda la mamma ai fidanzati che vorrebbero indugiarsi ancora a conversare davanti alla porta.
Zitti, sì; ma Tuzza non può trattenere lo scatto di certe risatine a qualche parola che il fidanzato le sussurra all’orecchio. Parola o bacio? Al bujo non si vede.
Mamma Rosa è entrata nella tana; s’è appressata alla cuna, e tende l’orecchio. Silenzio. Un raggio di luna s’è allungato dalla porta per terra come un fantasma, nel bujo, fin sotto il forno, ove sono appollajate le galline. Qualcuna ne prova fastidio e crocchia sotto sotto. Maledetta! E maledetto anche il vecchio marito, che ritorna ubriaco al solito dalla bettola e inciampa nella porta per scansare i due fidanzati.
Ma che! Il bimbo non si sveglia per nessun rumore. Eppure, ha il sonno così lieve, che basta a svegliarlo il volo d’una mosca. Mamma Rosa se ne costerna; accende il lume; guarda nella culla; allunga cauta una mano alla fronte dei piccino e subito caccia un grido.
Tuzza accorre; ma il fidanzato rimane perplesso e sgomento davanti la porta. Che gli grida mamma Rosa? di venire a sciogliere in fretta in furia una delle funi che reggono sospesa all’angolo la culla? E perché? Su, presto! presto! Lo sa lei, il perché, mamma Rosa! Ma il giovine, come raggelato d’un tratto dal silenzio mortale del piccino, non sa più muovere un passo, resta a guardare torbido e scuro dalla porta. E allora mamma Rosa, prima che il vicinato accorra, balza lei su una seggiola e strappa la fune, gridando a Tuzza di parare il morticino.
Che disgrazia! che disgrazia! La fune s’è strappata, chi sa come! S’è strappata, e il bimbo è caduto dalla culla, ed è morto! L’hanno trovato morto, per terra, freddo e duro! Che disgrazia! che disgrazia!
Tutta la notte, anche quando le ultime vicine accorse alle grida se ne sono tornate a dormire nelle loro case, ella seguita a piangere e a strillare; e, appena spunta il nuovo giorno, riprende a raccontare quella disgrazia a chiunque s’affacci alla porta.
Ma come, caduto? Non ha nessuna ferita, nessun livido, nessuna ammaccatura quel cadaverino. Ha soltanto una magrezza che incute ribrezzo, e nella manina manca quel dito, quel pollice enorme!
Il medico necroscopo, dopo la visita, se ne va, facendo spallucce e smusate.
C’è tutto il vicinato che attesta a una voce che il bimbo è morto di fame. E il promesso sposo, pur sapendo in quale angoscia dev’essere Tuzza, non si fa vedere. Vengono invece, fredde fredde, piano piano, con le labbra cucite, la mamma di lui e una sorella maritata, per assistere alla scena del Maltese, del maltesino principiante, che piomba furibondo nella tana a riprendersi la roba anticipata. Rosa Marenga strepita, si straccia i capelli, si dà manate su la faccia e pugni sul petto, si scopre il seno per far vedere che ha latte ancora, e invoca pietà e misericordia per la figliuola sposa, che le si conceda almeno un comporto fino alla sera, il tempo di correre dal sindaco, dall’assessore e dal medico dell’ospizio dei trovatelli, per carità! per carità! E scappa via, così gridando, tutta scarduffata, con le braccia per aria, accompagnata dai lazzi e dai fischi dei monelli.
Tutto il vicinato è in fermento là davanti la porta, attorno al maltesino che s’è piantato di guardia alla sua roba, e alla madre e alla sorella del fidanzato, che vogliono vedere come andrà a finire quella storia. Una vicina caritatevole è entrata nella tana e, con l’ajuto di Tuzza che si scioglie in lagrime, lava e veste il cadaverino.
L’attesa è lunga; il vicinato si stanca, si stancano i parenti del fidanzato e tutti se ne vanno alle loro case. Solo il maltesino resta lì di guardia, irremovibile.
Si riaffollano tutti davanti la porta sul far della sera, all’arrivo del carro funebre municipale, che trasporterà il morticino al cimitero.
Lo hanno già inchiodato nella piccola bara d’abete; lo sollevano per introdurlo nel carro, quando, tra gli urli di maraviglia e altri lazzi e altri fischi della folla, Sopravviene raggiante e trionfante Rosa Marenga con in braccio un altro trovatello.
– Eccolo! eccolo! – grida, mostrandolo da lontano alla figlia che sorride tra le lagrime, mentre il carro funebre s’avvia lentamente al cimitero.
Il libretto rosso – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Il libretto rosso – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza
Il libretto rosso – Audio lettura 3 – Legge Lorenzo Pieri
Il libretto rosso – Audio lettura 4 – Legge Valter Zanardi
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