Legge Valter Zanardi.
«Sotto, c’era la scarpata della ferrovia, e la sera, nel silenzio, si sentiva lo sferragliare dei treni in discesa e l’ansare di quelli in salita. Il fumo nero di quei treni stava un pezzo a vagar lento sospeso e poi a sfilacciarsi sul grigio smortume della vallata.»
Prime pubblicazioni: La lettura, febbraio 1931, poi in Berecche e la guerra, Bemporad, Firenze, 1934.
Uno di più
Legge Valter Zanardi
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A vederlo passare, con quella faccia e quella furia, la gente si volta, si ferma e gli tien dietro a lungo con gli occhi. Il cappello che ha in capo non pare il suo, o che gliel’abbia messo in capo così di traverso un altro. I capelli, come impolverati, gli scappano da tutte le parti. Non è un pazzo, no. Quando vi va tutto a traverso, andate a badare come vi siete messo in capo il cappello! Si chiama Abele Nono; lo conosco bene e so perché va per via così.
Fino a pochi giorni fa, andava così anche con una piccina per mano, sua figlia; e non pensava neppure che non poteva, la piccina, con quelle sue gambette, camminargli a paro e che rischiava perciò da un momento all’altro d’incespicare e cadere o restargli appesa per il braccìno alla mano. Sottile come un virgulto, troppo cresciuta per i suoi cinque anni, con gli occhi troppo grandi e serii nel pallido visino irregolare incorniciato da una semplice cuffietta di lana celeste che, annodata sotto il mento, le disegnava tonda tonda la testina, quella figlietta quasi gli volava accanto, movendo così in fretta le gambette da parer tante e non due; e alzava di tratto in tratto gli occhioni angustiati a sogguardare il padre per scorgergli in viso se gli fosse già passata la rabbia da cui era preso ogni qual volta ritornava con lei, così verso sera, dalla visita alla nonna. Quella rabbia certe volte era tanta ch’egli serrava i denti e li faceva scricchiare; e allora quasi le stritolava la manina serrata nel pugno; ma lei non diceva nulla perché capiva che il suo papà non le aveva voluto far male e che aveva stretto il pugno così per lo spasimo che gli dava ciò che por tava in cuore. Tanto vero che poi, arrivando a casa, prima di mettersi a salirla scala, gli vedeva cavar di tasca il fazzoletto per passarselo sugli occhi e sulle guance.
La ragione di quel soffrire del padre, fino a quegli accessi di rabbia che facevano voltar la gente per via, certo la piccina non riusciva a comprenderla chiaramente; ma intuiva bene che il pianto era per la nonna e che la rabbia era contro la mamma.
La mamma lei la studiava, per cercar di scoprire che avesse in sé da far tanto arrabbiare il babbo. Era tanto bella la sua mamma. Rossa, come la fiamma; mentre papà era verdolino; sì, come un gambo di garofano. Rideva, e mostrava il ditino.
Per non farsi accorgere di studiarla la mamma, doveva sempre aspettare ch’ella non le badasse; perché altrimenti, come se lo sapesse e sospettasse di qualche segreto accordo tra lei e il babbo, subito vedendosi osservata, scoppiava a ridere, oh! d’una risata così crudele, quasi da folle, che più che a lei era certo rivolta al babbo che se ne stava di là. Stordita e mortificata, nello sbigottimento che quella risata improvvisa le cagionava, la piccina appassiva; la camera, la casa, tutto s’allontanava confusamente come tirato con violenza; e anche la luce pareva s’incupisse. Con la boccuccia aperta, che le scopriva i denti davanti un po’ troppo grandi, restava così appassita ad ascoltare i rumori della strada che prima non aveva avvertiti, finché tutt’a un tratto non le riveniva davanti sanguigna la bocca della madre e gli occhi che, in quel momento, li aveva proprio di cattiva, di cattiva.
Tutto il segreto, per cui il padre era pieno di tanta rabbia e la madre di tanto dispetto, doveva essere in quella risata.
La udiva anche di notte, talvolta, svegliandosi di soprassalto, nello sconquasso che pareva n’avesse tutta la casa. La prima volta che l’aveva udita, dormiva ancora nella stessa camera coi genitori; e s’era messa a piangere atterrita, perché nel barlume vacillante del lumino da notte s’era vista prima come assaltata dalla parete da mostruose ombre scomposte, e poi, voltandosi, aveva sorpreso il babbo e la mamma che, levati in ginocchio sul letto e azzuffati, cercavano di abbattersi l’un l’altra; e in quegli sforzi, ecco, la madre rideva, e il padre pareva inferocito. La notte appresso, dopo il gran pianto che aveva fatto, ch’erano stati fin quasi all’alba a cercar di quietarla e a dirle che non era vero niente che s’erano azzuffati, l’avevano messa a dormire nello stanzino accanto. Ma poi la mamma l’aveva voluta di nuovo con sé, nel letto grande, al posto del babbo, passato a dormir lui di là, come in castigo, sul lettino di lei; e che gioja per lei allora nel sentirsi stretta nell’odore caldo del corpo materno! Senonché, tante mattine, svegliandosi, si ritrovava inaspettatamente di là, nel suo lettino, tutta avvolta sotto le coperte in uno scialletto di lana; e la sorpresa che ne provava era piena d’irritazione come per un tradimento che per lei aveva sapor di beffa, perché sotto a ogni cosa che non riusciva a spiegarsi della sua mamma ci sentiva sempre la crudeltà di quella risata.
Ed erano tante veramente le cose, oltre quella risata e quei passaggi a tradimento da un letto all’altro, che la piccina non riusciva a spiegarsi.
Non era bello, per esempio, che venisse ogni mattina col cestino delle uova tra le manine gonfie quel grosso bamboccione di campagna che non sapeva ancora dir nulla, le guance pavonazze dal freddo, gli occhi tra i peli e quei due belli candelotti al naso? E non era da ridere anche la visita giornaliera di quello spilungone in maniche di camicia, con quel grembiulone di traliccio a righe bianche e turchine tenuto da una cordellina alle spalle? Recava al braccio un’altra cesta, più grande quest’altro, con tanti bei tocchi di carne rossa, tagliata di fresco; e aveva una testa, una testa da non credersi, di cipolla secca, di quelle col velo dorato. Era proprio da ridere. Difficile, per una testa di cipolla secca, reggersi ritta; e difatti quell’uomo la teneva un po’ su una spalla e un po’ sull’altra; e parlava sempre con le mani levate davanti la faccia, come a nasconderla, due manone lunghe lunghe e insanguinate; e la voce miagolante pareva gli uscisse da quelle mani, perché in tutto quel tondo dorato della testa chi sa poi se aveva una bocca per parlare quell’uomo. Si ripigliava il tocco di carne, che aveva posato sulla tavola di cucina, e diceva: – Se debbo lasciarla, pagare; se no, me la riporto –. Se la riportava, perché di là, invece di ridere come a lei pareva si dovesse fare, tanto per la venuta di quel ragazzotto di campagna col cestino delle uova quanto di questo spilungone con la testa di cipolla secca, il babbo e la mamma litigavano, gridando da far tremare i muri.
La mamma specialmente, che s’accaniva a ripetere: – Tua madre è di più! Tua madre è di più! Non sono di più le uova! Non è di più la carne! Dreina ha bisogno della carne e delle uova!
Dreina era lei. La mamma dunque gridava così per lei, e contro la nonna «che era di più». Perché di più?
Perché il bilancio d’una famiglia è anch’esso una cosa tra le tante che le piccine non possono comprendere. Se le entrate son queste, e non possono essere di più, giacché tutte provengono da uno stipendio fisso per un impiego che non consente altre occupazioni, bisogna che le uscite siano anche queste, e non un soldo di più; o altrimenti si farà un vuoto che non si saprà poi come colmare. Ma se le piccine magroline hanno bisogno della carne e delle uova prescritte dal medico? Le entrate son queste; le uscite debbono esser queste. Le piccine magroline debbono allora morire? E non deve rubare un papà, nel vedersele deperire sempre più, di giorno in giorno? Far debiti. Eh, i debiti, non basta la volontà di farli; ci vuole anche il credito da parte degli altri; e se il credito manca, i debiti, anche volendo, non si possono fare. Abele Nono non ne vuol fare. Lo dice, perché sa bene di non poterli più fare. Quelli che ha fatti, forzato da qualche impellente necessità, li ha fatti con la coscienza di non poterli mai pagare, e ancora se ne sente scottato come dal ricordo d’uno scrocco.
Ora il guajo, almeno fino a pochi giorni fa, era questo: che su quel bilancio d’Abele Nono, che non si poteva in nessun modo né allargare né stringere, la madre, la moglie, la figlia e lui stesso, uno era di più. E ogni qual volta Abele Nono sentiva gridare alla moglie che quest’uno di più era la madre, aveva la tentazione di scagliarle in faccia ciò che gli veniva sotto mano. Perché non era vero, no, non era vero che sua madre sarebbe stata di più, se avesse potuto vivere insieme con loro.
Ciò che basta per tre, può anche bastar per quattro, se raccolti sotto lo stesso tetto e attorno alla stessa tavola. Ma nossignori! Un giorno, al suo ritorno dall’ufficio, era stato investito dalla moglie, furibonda, mentre la vecchia madre tremava tutta, riparata in un canto: – O fuori lei, o fuori io! –. Una scenata. E senza nemmeno voler dire che cosa fosse accaduto di tanto grave da dover prendere lì per lì una così grave decisione, se n’era andata fuori lei, in casa di una sorella maritata, e v’era rimasta per tutt’un mese. Abele Nono poteva giurare che mai e poi mai si sarebbe arreso ad andare in casa di quella sorella a riprendersela, mai e poi mai gliel’avrebbe data vinta, se la bambina, si sa, senza la mamma… e se anche sua madre stessa, a veder piangere così la nipotina… – Tu sai com’è, per la piccina, la mamma… e poi anche la casa, così senza di lei… per quanto io possa fare… – Che cosa fosse propriamente accaduto quel giorno, non aveva potuto ancora saperlo. La mamma gli assicurava che non era accaduto nulla. – Solo che, dice, io l’ho guardata… non so, guardata, dice, quand’è rientrata con la spesa, pochi momenti prima che tu rincasassi. Ti giuro che non posso nemmeno dire d’averla veramente guardata; o se l’ho fatto, sarà stato così senza nessuna intenzione. No, no, che sospetti, figlio? Sta’ sicuro che non hai nulla, nulla da sospettare, come non ho potuto nemmeno io sospettar nulla, mai, sul suo conto, perché non c’è nulla, proprio nulla da sospettare. E così, d’indole… Ha avuto sempre l’idea ch’io la tenessi d’occhio. E non può più sopportare, dice, di vedersi addosso sempre i miei occhi; ne ha l’incubo, dice… Tu capisci, sono tua madre… è naturale… nuora…
Per farla rientrare in casa, aveva dovuto metter la madre a pensione presso una famiglia di povera gente che abitava in una di quelle ultime casette trascurate là su lo stradone dove la città smette e comincia la campagna, senza più beneficio né d’acqua corrente né di luce. Un lumetto a petrolio, la sera, in quella stanzuccia nuda, umida, col soffitto a travicelli, intonacato di calce. Con l’umido, la crosta dell’intonaco su quel soffitto e a una parete s’era tutta raggrinzita e cascava a pezzettini, come se nevicasse.
– Anche di notte, sulla faccia, mentre dormo.
Glielo diceva come una cosa da ridere, povera mamma, per dargli a divedere che quella sua relegazione là lei l’aveva pigliata così. E tirava su le spallucce aggobbite. Ma chi sa come dovevano passarle le giornate, là sola, in quella stanzuccia, con quel lettino di ferro, il comodino, un vecchio canterano, il tavolino sotto la finestra e due sedie!
La finestra dava sull’aperto della vallata, ma così triste che, a guardarci, prendeva la malinconia. Sotto, c’era la scarpata della ferrovia, e la sera, nel silenzio, si sentiva lo sferragliare dei treni in discesa e l’ansare di quelli in salita. Il fumo nero di quei treni stava un pezzo a vagar lento sospeso e poi a sfilacciarsi sul grigio smortume della vallata.
E il silenzio, dentro, era tanto che s’avvertiva perfino il ronzare del lumetto acceso sul tavolino.
Star lì, così, su quella sedia a pie del lettino, o sull’altra davanti al tavolino sotto la finestra, con quei poveri occhi incavati, immobili nella faccia di cera, il fazzoletto nero in capo, e il pollice e l’indice della mano ischeletrita che si movevano di continuo sulla cocca di quel fazzoletto che le pendeva dal mento, come se n’assaggiassero la qualità; lì, che pareva una mendica all’anticamera della morte, in attesa che un uscio nell’ombra si aprisse e un dito di là si sporgesse a farle cenno di passare. Ma quel cenno non veniva mai; e a star lì aspettando, senza più nulla da fare, le pareva che il tempo, impedito da tutto quel silenzio d’attesa, si fosse fermato e non potesse più trascorrere; e quelle povere cose, nella stanzuccia, perduto ormai ogni senso, le stessero intorno a guardare in uno stupore attonito. Lei che aveva dato sempre tutto, senza mai pensare a sé, lei che era stata nella vita solo a servizio e per utilità degli altri, essere ora così di peso al figlio, peso inutile; sapersi di più.
– Se potessi portarmi almeno un po’ di lana, da lavorare… qualche giubbetto per la piccina… un pajo di gambalini…
Non gliel’aveva mai potuta portare.
– Qualche cosa almeno da rammendare…
Nulla. Era da impazzire. E anche la festa che sarebbe stata per lei, ogni volta, la visita della nipotina diventava invece un’afflizione, perché la piccina restava come trattenuta e sgomenta alla vista di quella stanzuccia così squallida, quasi che il padre volesse forzarla a entrare in una tana di scarafaggi. Sulla soglia, si ritirava indietro.
– Non vuoi più bene alla tua nonnina?
Diceva di sì; ma era come se, in quella stanzuccia, la sua nonnina non le sembrasse più lei. Ed il bacio che s’induceva a darle era quasi senza convinzione che fosse dato propriamente alla stessa nonnina di prima. Dandolo, guardava quel canterano con tutta la impiallacciatura scoppiata e strappata, o quel tavolino nero sotto la finestra, o quel misero lettino di ferro, e le sembrava che tutte quelle deturpazioni e quello squallore e quell’angustia fossero state fatte e si fossero attaccate alla persona della nonna. Vedeva poi il padre che se ne stava a sedere curvo, con le mani abbandonate, come morte, tra le gambe discoste, e con la fronte appoggiata allo spigolo del tavolino, a piangere con lo stomaco, sussultando. Voleva capire; e stringendo con le due manine alla nonna le cocche del fazzoletto sotto il mento, le domandava:
– Perché la mamma dice che tu sei di più?
Il padre levava irosamente la fronte dallo spigolo del tavolino.
– Perché? Perché tu non vuoi stare con la tua nonnina; ecco perché! E, a uno sguardo smarrito della piccina:
No, non dico qua! Non dico qua! A casa, con la tua nonnina e il tuo papà. Ti metti a piangere, che vuoi anche la mamma…
La mamma, sì!
E dunque, vedi? Ma la mamma senza te c’è stata per tutt’un mese; e dice che potrebbe anche sempre; perché non ha bisogno di nulla, lei; né di nessuno; basta a sé, provvede a sé: ha le mani d’oro, lei! A casa sta perché la vuoi tu; lei per sé non ci starebbe!
La vecchia madre, benché avesse pietà di quello sfogo che il figlio aveva bisogno d’offrirsi, pregava:
– Non dire così alla piccina!
Ma egli, nell’impeto, gliela levava dalle ginocchia, se l’alzava al petto:
Guarda, facciamo allora così, vuoi? Tu con la mamma, sola; e io qua con la nonna.
No! Tu con me, papà – gridava subito Dreina, buttandogli le braccia al collo, per tenerselo stretto.
Egli si chinava per farle posare a terra i piedini e levarsela dal collo; e, mentre la madre di nuovo gli faceva cenno di non dir altro, soggiungeva:
– Dunque vedi, dunque vedi ch’è proprio per te che la nonnina è di più. E quella carogna se n’approfitta, perché lo sa bene che se non fosse per te…
Dreina non ascoltava più il padre. Ora stava a riflettere, sorpresa, che la colpa dunque non era della mamma, ma sua; e sua – possibile? – perché voleva che stessero con lei la mamma e il papà, tutt’e due.
Ah, quando le bambine si vogliono sforzare di capir certe cose che non possono né debbono capire! Ecco che cosa orrenda n’è venuta. Se n’è andata via lei, la piccina. Lei che non poteva in nessun modo essere di più. Lei che non pesava ancor nulla, o certo meno di tutti. Via, in pochi giorni, senza mettere a posto nulla con la sua morte; perché non se n’è mica andata per conto suo la mamma; né lui, il suo papà, con la nonnina. La nonnina è là sola, dove lei l’ha lasciata, in quella stanzuccia, ancora «di più». E il suo papà è rimasto qua con la mamma, disperato, e si morde le mani, dandosi del vigliacco, del vigliacco per aver dato a credere alla sua piccina quella cosa mostruosa, che fosse per colpa di lei; mentre era lui, era lui che la metteva avanti così, la sua piccina, per riparare dietro a lei la sua vergogna, la vergogna della sua inconfessabile soggezione alla moglie. Voleva nasconderla a se stesso e alla madre, quella sua vergogna, e metteva avanti la piccina, dicendo che non lasciava la moglie per lei. Ed eccolo ora scoperto. E la moglie, che lo sa, gli grida, selvaggia, dall’altra stanza:
– Perché non te ne vai ora da tua madre? Vattene! Io non ho bisogno di te! E lui non se ne va, non se ne può andare. Pensa che, se trovasse un momento la forza d’andarsene, per aver faccia da ricomparire davanti alla madre, poi certo ritornerebbe qua, e sarebbe peggio. Pensa come un pazzo che, quando si potrà riaccostare a questa selvaggia, senza più negli occhi il pensiero della bambina morta, ella certo lo riaccoglierà con una di quelle sue orribili risate. E torna a mordersi le mani, vigliacco, mettendo ancora avanti la piccina, come se ora stesse a mordersele per lo strazio della morte di lei, mentre non è vero, non è vero: è ancora e sempre quella sua stessa rabbia, per cui lo vedete andare per via come un pazzo.
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