In corpore vili – Audio lettura 5

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Legge Giuseppe Tizza
«La coscienza gli rimordeva. Non c’era dubbio! Dio misericordioso gli concedeva la grazia di metterlo alla prova per mezzo di quel diavolo zoppo travestito da donna, e lui, lui, ingrato non ne sapeva profittare.»

Prime pubblicazioni: Gazzetta letteraria, 15 giugno 1895 col titolo Ravanà (tra una messa e l’altra) e in una redazione che poco o nulla ha a che vedere con le successive; poi, col titolo definitivo, in Quand’ero matto, Streglio, Torino 1902/1903.

In corpore vili
Giuseppe Belletti, Sacrestano faccendiere. Dal web.

In corpore vili

Voce di Giuseppe Tizza

******

             I. Cosimino, il sagrestano di Santa Maria Nuova, teneva di guardia i suoi tre marmocchi ai tre mercati della città, che corressero subito subito a chiamarlo, scorgendo da lontano quella zoppaccia della Sgriscia, la vecchia serva di don Ravanà.

             Dal mercato del pesce accorse quella mattina il terzo figliuolo, tutto trafelato:

             – La Sgriscia, papà! la Sgriscia! la Sgriscia! E Cosimino, via di volo.

             Sorprese la vecchia che stava a contrattare con un pescivendolo per una manciata di gamberi.

             –    Via di qua, subito! Demonio tentatore! E volgendosi al pescivendolo:

             –    Non le date retta! Di codesta roba lei non ne compra! non deve comprarne! La Sgriscia arrovesciò le mani sui fianchi, appuntò le gomita davanti, in atto

             di sfida; ma Cosimino non le diede tempo di rimbeccare; uno spintone, e le fu sopra di nuovo, con le braccia levate, incalzando:

             – Via! all’inferno, vi dico!

             Il pescivendolo allora prese le parti della cliente che sbraitava: accorse gente da tutto il mercato a trattenere i due rissanti che già venivano alle mani. Cosimino urlava furibondo:

             – No, no: gamberi no, non voglio che padre Ravanà ne mangi! non può, né deve mangiarne! E costei vada pure a dirglielo a nome mio; costei che lo tenta come il demonio e fa di tutto per rovinargli lo stomaco.

             Per fortuna, si trovò a passare, in quella, dal mercato, proprio lui: don Ravanà.

             – Eccolo! Venga, venga! – gridò Cosimino, scorgendolo. – Dica se Lei ha ordinato alla serva di comprarle questi gamberi qua!

             Il faccione di don Ravanà tremò, impallidendo, in un sorriso nervoso. Balbettò:

             –    No, io, veramente…

             –    Come no? – esclamò la Sgriscia, dandosi un pugno sul petto ossuto, stupita, trasecolata. – Me lo negherebbe in faccia?

             Don Ravanà le diede su la voce, arrabbiatissimo.

             –    Zitta voi, pettegola! Gamberi v’ho detto? v’ho detto pesce.

             –    Nossignore, gamberi, gamberi: m’ha detto gamberi!

             –    O gamberi o pesce, non è tutt’uno? – gridò allora Cosimino, tra la serva e il padrone, mentre tutta la gente rideva. – Lesso, brodo e latte; latte, brodo e lesso e niente altro! Così Le ha prescritto il medico. Vuol capirlo? Non mi faccia parlare, santo Dio!

             –    Calmati, sì, bravo: hai ragione, figliuolo, – s’affrettò a dirgli don Ravanà, tutto confuso, mortificato; e, volgendosi alla serva: – Andate pure a casa! Lesso, al solito!

             Gli astanti accolsero quest’ordinazione con un nuovo e più alto scoppio di risa, e don Ravanà si fece largo tra la ressa sorridendo male, come una lumaca nel fuoco, e dicendo a questo e a quello:

             – Bravo figliuolo, Cosimino… Eh, bisogna compatire questo caro Cosimino… Lo fa per il mio bene… Sì sì… Largo, figliuoli, largo… Tanta bella grazia di Dio, qua; e io… io, lesso, brodo e latte, purtroppo! E la prescrizione del medico… Sì. Non debbo mangiar altro… Cosimino ha ragione.

*******

             II. – Pss, guarda… – disse piano, davanti all’altare, don Ravanà, con gli occhi bassi, al sagrestano che gli mesceva acqua e vino nel calice. – C’è in chiesa il dottor Nicastro… qua davanti, presso la balaustra… Sta’ fermo! non ti voltare, asino… a destra… Quando puoi, fagli cenno che rimanga dopo messa e che entri in sagrestia. Cosimino s’accigliò, impallidì, strinse i denti per frenare un impeto d’ira.

             –    Ier sera Lei… Dica la verità!

             –    Ti vuoi star zitto, malcreato? Davanti al Santissimo Sacramento! – lo rimproverò don Ravanà non tanto piano, voltandosi a guardarlo severamente.

             Dalla prima pancata s’intese il rimprovero del sacerdote al sagrestano, e un sussurrio si propagò per un momento nella chiesa, di protesta contro il povero Cosimino che diventò di bragia, tremando tutto dalla rabbia e dalla vergogna. Non sapeva più dove posare le ampolline della bile e dell’aceto. Finita la messa, seguì don Ravanà in sacrestia, aggrondato, ingrugnato. Poco dopo entrò il dottor Liborio Nicastro, piccino piccino, vecchissimo, tutto rattrappito dall’età. La falda della tuba gli posava quasi su la gobba. Vestiva all’antica e portava la barba a collana.

             –    Che abbiamo, padre Ravanà? – domandò, parlando col naso e socchiudendo al solito gli occhietti calvi. – Avete una faccia, che Dio vi benedica.

             –    Sì?

             Don Ravanà guardò un tantino, perplesso, il medico, se credergli o no; poi con voce irritata, come se si lagnasse d’un’ingiustizia di lui, rispose:

             –   Ma lo stomaco, dottor Liborio mio, lo stomaco, lo stomaco non mi vuole più star bene, volete intenderlo?

             – Eh sfido! – sbuffò Cosimino, voltandosi a guardare da un’altra parte. Don Ravanà lo fulminò con un’occhiata.

             – Sedete, sedete, padre Ravanà, – riprese il dottor Liborio. – Visitiamo la lingua.

             Cosimino, con gli occhi bassi, porse una seggiola a don Ravanà. Il dottor Nicastro trasse flemmaticamente gli occhiali dall’astuccio, se li aggiustò sul naso e guardò la lingua.

             –    Sporca…

             –    Sporca? – ripetè don Ravanà, cacciandosela subito dentro, come se la voce del dottore glie l’avesse scottata.

             Cosimino soffiò, questa volta col naso, un altro sbuffo. La bile gli ribolliva nello stomaco. E teneva le pugna strette e le labbra serrate. Ma, alla fine, proruppe:

             –    E allora che? quel tartaro… come dicono loro?

             –    Sì, emetico, figliuolo, – confermò placidamente il dottor Nicastro, porgendo la ricetta a don Ravanà e rimettendosi in tasca occhiali e taccuino. – Si applicata juvant, continuata sananti

             Non c’entrava: ma, tanto, era latino, e tappò la bocca al povero sagrestano.

             – Dobbiamo fare al solito? – domandò questi, pallido, accigliato, appena andato via il medico.

             Don Ravanà aprì le braccia, senza guardarlo, e disse:

             –    Non hai sentito?

             –    Allora, – riprese Cosimino, funebre, – vado a dirlo a mia moglie… Mi diai soldi per la medicina e se ne vada a casa. Vengo subito.

*******

             III.Ah…  – a ogni scalino, – ah… ah… La Sgriscia intese quel lamento per le scale, e corse ad aprire a don Ravanà.

             –    Sta male?

             –    Malissimo! Malissimo! Andate via! andate a chiudervi in cucina! A momenti arriverà Cosimino. Non vi fate vedere, se non vi chiamo io. In cucina!

             La Sgriscia andò a rintanarsi mogia mogia. Don Ravanà entrò in camera; si tolse la zimarra, restò con le brache scinte e un panciottone lungo lungo e largo, in maniche di camicia, e si mise a passeggiare e a riflettere amaramente.

             La coscienza gli rimordeva. Non c’era dubbio! Dio misericordioso gli concedeva la grazia di metterlo alla prova per mezzo di quel diavolo zoppo travestito da donna, e lui, lui, ingrato non ne sapeva profittare.

              – Ah! – esclamava, con intensa esasperazione, fermandosi di tanto in tanto, e scotendo in aria le pugna.

             La poca e povera masserizia pareva, in quella camera, quasi smarrita su l’ampio e nudo pavimento di vecchi mattoni di Valenza qua e là rotti e sconnessi. In mezzo alla parete a destra era il letticciuolo pulito, dai trespoli di ferro esposti; a capezzale, un antico crocifisso d’avorio, ingiallito dal tempo. (Gli occhi di don Ravanà non osavano, quel giorno, levarsi a guardarlo.) In un angolo, presso il letto, una vecchia carabina, e, appese alle pareti, alcune grosse chiavi: quelle della casa di campagna.

             Tin tin tin.

             – Ecco Cosimino, poveretto! puntuale… E andò ad aprirgli lui stesso.

             –    Mi raccomando, per carità: – premise Cosimino prima d’entrare, – non mi faccia vedere quella stortaccia infame! Per causa sua… basta! Ecco qua la medicina. Vada a prendermi un cucchiajo.

             –    Sì sì… vado, vado, – disse, umile e premuroso, don Ravanà. – Grazie, figliuolo mio. Tu mi ridai la vita! Entra, entra in camera!

             Ritornò poco dopo, pallido e tremante, col cucchiajo in mano.

             –    L’ho punita, sai? Sta a piangere in cucina. Dici bene, figliuolo mio: tutto per causa sua! Sentisti, jeri, l’ordinazione che le diedi al mercato? Ebbene, mentre sudavo, Dio sa come, Dio sa quanto, a mandar giù quella stoppaccia che il medico mi prescrive, me la vedo entrare, sai? tutta maliziosa, nella saletta da pranzo, nell’atto di riparare con una mano un bel piatto di… Che avresti fatto tu?

             –    Avrei mangiato i gamberi, – rispose asciutto e serio Cosimino. – Ma poi avrei scontato da me il peccato di gola: non lo avrei fatto scontare a un povero innocente!

             Don Ravanà chiuse gli occhi trafitto, e trasse un lungo sospiro.

             Parlava bene, sì, Cosimino; era, senza dubbio, una barbarie dare a prendere a lui ogni volta il tartaro emetico ordinato dal dottor Nicastro. Bastava a don Ravanà assistere agli effetti del medicinale nel corpo della vittima, perché ne avesse lo stesso beneficio, per virtù d’esempio. Barbarie, sì; ma sapeva forse Cosimino quante volte il pensiero di lui tratteneva don Ravanà lì lì per cadere in tentazione? Aveva bisogno di lui, come freno, don Ravanà, aveva bisogno del rimorso che gli cagionava il vederlo soffrire lì, sotto i suoi occhi, ingiustamente, per trionfare in seguito della sua carne vile. Cosimino aveva ricevuto da lui tanti e tanti benefizii; ebbene, in ricambio, che gli chiedeva lui? questo solo sacrifizio per la salute, non tanto del corpo, quanto dell’anima. Ogni volta però la vista di quel supplizio a cui la vittima si sottoponeva senza ribellarsi, lo sconvolgeva talmente; rimorso, stizza, avvilimento gli facevano tale impeto nello spirito, che don Ravanà si sarebbe gettato dalla finestra.

             –    Che fa? piange adesso? – gli disse Cosimino. – Via, via, lagrime di coccodrillo!

             –    No! – gemette, con sincera afflizione, don Ravanà.

             –    Va bene, va bene: si butti sul letto allora e stia a guardare: mi prendo la prima cucchiajata.

             Don Ravanà si buttò sul letto con gli occhi lagninosi e il volto contratto dalla pena. Cosimino pose il bricco su la spiritiera, per aver pronta al bisogno l’acqua tepida; poi, chiudendo gli occhi, ingollò la prima cucchiajata del medicinale.

             –    Ecco fatto… Non mi compianga, per carità! si stia zitto, o faccio cose da pazzi!

             –    Zitto, sì, zitto, povero figliuolo mio, hai ragione… Parliamo d’altro… Sai? domani, se il tempo lo permette e mi sento meglio, debbo andare in campagna… Vieni anche tu e porta con te i tuoi figliuoli, tua moglie, a prendere una boccata d’aria senza darvi pensiero di nulla… Mal’ annata, Cosimino mio, però… Dio ci castiga dei tanti nostri peccati. La pazienza divina è stanca. Il mondo piange, ma piange e uccide… Hai sentito? guerra in Africa, guerra in Cina… Il povero soffre, ma soffre e ruba. E l’ira del Signore ci sta sopra! La grandine, hai visto? ha flagellato orti e vigne… la nebbia minaccia gli olivi… Di’ un po’… ti senti già? No?

             –    Nossignore, ancora nulla. Mi prendo l’acqua tepida.

             –    Bene bene… Discorriamo… Dunque, sì, il raccolto del grano, sì, è stato piuttosto abbondante, e se Dio vuole e Maria Santissima ci fa la grazia mitigheremo con esso in certo qual modo la jattura dell’annata.

             Cosimino ascoltava con molta attenzione, ma forse senza intender sillaba: di tanto in tanto si faceva in volto di mille colori; poi, d’un tratto, impallidiva, impallidiva vie più, sudava freddo, si agitava un po’ su la seggiola, l’occhio gli vagellava.

             –    Ah mamma mia! Padre Ravanà, comincia a muoversi… credo che ci siamo!

             –    Sgriscia! Sgriscia! – gridava allora don Ravanà, impallidendo anche lui e guardando fiso Cosimino per promuovere anche in sé con quella vista gli effetti del medicinale. – Venite subito! Credo che ci siamo!

             La Sgriscia accorreva a sorreggere la fronte al padrone, e Cosimino intanto, tra i conati e i contorcimenti, le appoggiava sotto sotto calci di vero cuore.

*******

             IV. – Adesso un buon tazzone di brodo per Cosimino! – ordinò verso sera don Ravanà alla serva. – Ci vuoi fettine di pane, di’, Cosimino?

             –    Sissignore, come dice Lei… Mi lasci stare… – fece il povero sagrestano rifinito, pallidissimo, con la testa cascante appoggiata al muro senza neppur forza di fiatare.

             –    Con fettine di pane! con fettine di pane! e un torlo d’uovo! – aggiunse forte don Ravanà, tutto premuroso. – Di’, ce lo vuoi, è vero, un bel torlo d’uovo, Cosimino?

             –    Non voglio niente! Mi lasci stare! – gemette questi al colmo dell’esasperazione. – Lei si fa la chiacchieratina, e io ci ho il veleno in corpo per lei! Prima mi rovina lo stomaco, e poi fettine di pane e torlo d’uovo! Sono azioni degne d’un santo sacerdote, codeste? Mi lasci andar via… Mannaggia, perderei la fede… Ahi, ahi… ahi, ahi… ahi, ahi…

             E se n’andò con le mani sul ventre, nicchiando così.

             – Che brutto viziaccio! – esclamò stizzito don Ravanà. – Prima, tutto mansueto; poi ci ripensa, e diventa una vespa. E dire che gli ho fatto tanto bene, a quel brutto ingrato!

             Stette un po’ a tentennare il capo, con gli angoli della bocca contratti in giù; poi chiamò:

             –    Sgriscia! Dammelo a me, il brodo. Ce l’hai messo il torlo d’uovo? Brava. Ora il cappello e il tabarro…

             –    Esce?

             –    Eh sì, non lo sai? Mi sento benone, adesso, grazie a Dio.

«In corpore vili» – Audio lettura 1 – Legge Lorenzo Pieri
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