L’uccello impagliato – Audio lettura 3

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Legge Giuseppe Tizza
«No, egli no, non doveva morire! Egli solo, della sua famiglia, l’avrebbe vinta! Aveva già quarantacinque anni. Gli bastava arrivare fino ai sessanta. Poi la morte – ma un’altra, non quella! non quella di tutti i suoi! – poteva pure prendersi la soddisfazione di portarselo via.»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 16 gennaio 1910, poi in Terzetti, Treves, Milano 1912.

L uccello impagliato audiolibro
Caterina Giganti (Tica), L’abbandono

L’uccello impagliato

Voce di Giuseppe Tizza

             Tranne il padre, morto a cinquant’anni di polmonite, tutti gli altri della famiglia – madre e fratelli e sorelle e zie e zii del lato materno – tutti erano morti di tisi, giovanissimi, uno dopo l’altro.

             Una bella processione di bare.

             Resistevano loro due soli ancora, Marco e Annibale Picotti; e parevano impegnati a non darla vinta a quel male che aveva sterminato due famiglie.

             Si vigilavano l’un l’altro, con gli animi sempre all’erta, irsuti; e punto per punto, con rigore inflessibile seguivano le prescrizioni dei medici, non solo per le dosi e la qualità dei cibi e i varii corroboranti da prendere in pillole o a cucchiai, ma anche per il vestiario da indossare secondo le stagioni e le minime variazioni di temperatura e per l’ora d’andare a letto o di levarsene, e le passeggiatine da fare, e gli altri lievi svaghi compatibili, che avevan sapore anch’essi di cura e di ricetta.

             Così vivendo, speravano di riuscire a superare in perfetta salute, prima Marco, poi Annibale, il limite massimo d’età raggiunto da tutti i parenti, tranne il padre, morto d’altro male.

             Quando ci riuscirono, credettero d’aver conseguito una grande vittoria.

             Se non che, Annibale, il minore, se ne imbaldanzì tanto, che cominciò a rallentare un poco i rigidissimi freni che s’era finora imposti, e a lasciarsi andare a mano a mano a qualche non lieve trasgressione.

             Il fratello Marco cercò, con l’autorità che gli veniva da quei due o tre annidi più, di richiamarlo all’ordine. Ma Annibale, come se veramente della morte avesse ormai da guardarsi meno, non avendolo essa colto nell’età in cui aveva colto tutti gli altri di famiglia, non gli volle dar retta.

             Erano, sì, entrambi della stessa corporatura, bassotti e piuttosto ben piantati, col naso tozzo, ritto, gli occhi obliqui, la fronte angusta e i baffi grossi; ma lui, Annibale, quantunque minore d’età, era più robusto di Marco; aveva quasi una discreta pancettina, lui, della quale si gloriava; e più ampio il torace, più larghe le spalle. Ora dunque, se Marco, pur così più esile com’era, stava benone, non poteva egli impunemente far getto in qualche trascorso di quanto aveva d’avanzo rispetto al fratello?

             Marco, dopo aver fatto il suo dovere, come la coscienza gli aveva dettato, lasciò andare i richiami e le riprensioni, per stare a vedere, senza suo rischio, gli effetti di quelle trasgressioni nella salute del fratello. Che se a lungo andare esse non avessero recato alcun nocumento, anche lui… chi sa! se le sarebbe forse concesse un po’ per volta; avrebbe potuto almeno provare.

             Ma che! no, no! orrore! Annibale venne a dirgli un giorno che s’era innamorato e che voleva prender moglie. Imbecille! Con quella minaccia terribile sul capo, sposare? Sposare… chi? la morte? Ma sarebbe stato anche un delitto, perdio, mettere al mondo altri infelici! E chi era quella sciagurata che si prestava a un simile delitto? a un doppio, a un doppio delitto?

             Annibale s’inquietò. Disse al fratello che non poteva assolutamente permettere ch’egli usasse siffatte espressioni verso colei che tra poco sarebbe stata sua moglie; che, del resto, se doveva conservare la vita così a patto di non viverla, tanto valeva che la perdesse; un po’ prima, un po’ dopo, che gl’importava? era stufo, ecco, e basta così.

             Il fratello rimase a guardarlo col volto atteggiato di commiserazione e di sdegno, tentennando appena appena il capo.

             Oh sciocco! Vivere… non vivere… Quasi che fosse questo! Bisognava non morire! E non già per paura della morte; ma perché questa era una feroce ingiustizia, contro alla quale tutto l’esser suo si ribellava, non solamente per sé, ma anche per tutti i parenti caduti, ch’egli con quella sua dura, ostinata resistenza doveva vendicare.

             Basta, sì, basta. Non voleva inquietarsi, lui; gli dispiaceva anzi d’essersi in prima alterato e riscaldato. Non più! Non più!

             Voleva sposare? Liberissimo! Sarebbe rimasto lui solo a guardare in faccia la morte, senza lasciarsi allettare dalle insidie della vita.

             Patti chiari, però. Stare insieme – niente; noje, impicci – niente. Se voleva sposare – fuori! Fuori, perché il fratello maggiore, il capo di casa era lui; e la casa spettava dunque a lui. Tutto il resto sarebbe stato diviso in parti uguali. Anche i mobili di casa, sì. Poteva portarsi via tutti quelli che desiderava; ma pian piano, con garbo, senza sollevar polvere, perché la salute, lui, se la voleva guardare.

             Quell’armadio? Ma sì, e anche quel cassettone e la specchiera e le seggiole e il lavabo… sì, sì… Quelle tende? Ma sì, anche quelle… e la tavola grande da pranzo per tutti i floridi figliuoli che gli sarebbero nati, sì, e anche la vetrina con tutto il vasellame. Purché gli lasciasse intatta, insomma, la sua camera con quei seggioloni antichi e il divano, imbottiti di finto cuojo, a cui era affezionato, e quei due scaffali di vecchi libri e la scrivania. Quelli no, quelli li voleva per sé.

             – Anche questo? – gli domandò, sorridendo, il fratello.

             E indicò tra i due scaffali, un grosso uccello impagliato, ritto su una gruccia da pappagallo; così antico, che dalle penne scolorite non si arrivava più a riconoscere che razza d’uccello fosse stato.

             – Anche questo. Tutto quello che sta qua dentro, – disse Marco. – Che c’è da ridere? Un uccello impagliato. Ricordi di famiglia. Lascialo stare!

             Non volle dire che, così ben conservato, quell’uccello gli pareva di buon augurio e, per la sua antichità, gli dava un certo conforto, ogni qual volta lo guardava.

             Quand’Annibale sposò, egli non volle prender parte alla festa nuziale. Solo una volta, per convenienza, era andato in casa della sposa, e non le aveva rivolto né una parola di congratulazione né un augurio. Gelida visita di cinque minuti. Non sarebbe andato di sicuro in casa del fratello, né al ritorno dal viaggio di nozze, né mai. Si sentiva venir male, un tremito alle gambe, pensando a quel matrimonio.

             – Che rovina! che pazzia! – non rifiniva d’esclamare, aggirandosi per l’ampia stanza ben turata, intanfata di medicinali, con gli occhi fissi nel vuoto e tastando con le mani irrequiete i mobili rimasti – Che rovina! che pazzia!

             Nella vecchia carta da parato erano rimaste e spiccavano le impronte degli altri mobili portati via dal fratello; e quelle impronte gli accrescevano l’impressione del vuoto, nel quale egli, quasi cancellato, vagava come un’anima in pena.

             Via, via, no! non doveva scoraggiarsi; non doveva pensarci più a quell’ingrato, a quel pazzo! Avrebbe saputo bastare a se stesso.

             E si metteva a fischiare pian piano, o a tamburar con le dita su i vetri della finestra, guardando fuori gli alberi del giardinetto ischeletriti dall’autunno, finché non avvistava lì sullo stesso vetro, su cui tamburellava, oh Dio, una mosca morta, intisichita, appesa ancora per una zampina.

             Passarono parecchi mesi, quasi un anno dalle nozze del fratello.

             La vigilia di Natale, Marco Picotti sentiva venire dalla strada il suono delle zampogne e dell’acciarino e il coro delle donne e dei fanciulli per l’ultimo giorno di novena davanti alla cappelletta parata di fronde; udiva lo schioppettio dei due grossi fasci di paglia che ardevano sotto quella cappelletta; e così angosciato, si disponeva ad andare a letto all’ora solita, allorché una furiosa scampanellata lo fece sobbalzare, quasi con tutta la casa.

             Una visita d’Annibale e della cognata. Annibale e Lillina.

             Irruppero imbacuccati, sbuffanti, e si misero a pestare i piedi per il freddo, e a ridere, a ridere… Come ridevano! Vispi, allegri, festanti.

             Gli parvero ubriachi.

             Oh, una visitina di dieci minuti, soltanto per fargli gli augurii: non volevano che per causa loro ritardasse neppure d’un minuto l’andata a letto. E… non si poteva intanto aprire, neppure uno spiraglietto, per rinnovare l’aria un tantino là dentro? no, è vero? non si poteva, neppure per un minuto? Oh Dio, e che cos’era là quella bestiaccia, quell’uccellaccio impagliato su la gruccia? E questa? oh, una bilancetta! per le medicine, è vero? carina, carina. E donna Fanny? dov’era donna Fanny?

             Per tutti quei dieci minuti, Lillina non si fermò un attimo, saltellando così, di qua e di là, per la camera del cognato.

             Marco Picotti rimase stordito come per una improvvisa furiosa folata di vento, che fosse venuta a scompigliargli non solo la vecchia camera silenziosa ma anche tutta l’anima.

             – E dunque… e dunque… – si mise a dire, seduto sul letto, quand’essi se ne furono andati; e si grattava con ambo le mani la fronte: – E dunque…

             Non sapeva concludere.

             Possibile? Aveva ritenuto per certo che il fratello, subito dopo la prima settimana dalle nozze, dovesse disfarsi, cascare a pezzi. Invece, invece, eccolo là – benone; stava benone; e come lieto! felice addirittura.

             Ma dunque? Che non ci fosse più bisogno davvero, neanche per lui, di tutte quelle cure opprimenti, di tutta quella paurosa vigilanza? Che potesse anche lui sottrarsi all’incubo che lo soffocava; e vivere, vivere, buttarsi a vivere come il fratello?

             Questi, ridendo, gli aveva dichiarato che non seguiva più nessuna cura e nessuna regola. Tutto via! al diavolo, medici e medicamenti!

             – Se provassi anch’io?

             Se lo propose, e per la prima volta andò in casa d’Annibale.

             Fu accolto con tanta festa, che ne rimase per un pezzo balordo. Chiudeva gli occhi e parava le mani in difesa, ogni qual volta Lillina accennava di saltargli al collo. Ah che cara diavoletta, che cara diavoletta, quella Lillina! Friggeva tutta. Era la vita! Volle per forza che rimanesse a desinare con loro. E quanto lo fece mangiare e quanto bere! Si levò ebbro, ma più di gioja che di vino.

             Quando fu la sera però, appena giunto a casa, Marco Picotti si sentì male. Una forte costipazione di petto e di stomaco per cui dovette stare a letto parecchi giorni.

             Invano Annibale cercò di dimostrargli che questo era dipeso perché se n’era dato troppo pensiero e non s’era buttato con coraggio e con allegria allo sproposito. No, no! mai più! mai più! E guardò il fratello con tali occhi, che Annibale a un tratto… – no perché?

             – Che… che mi vedi? – gli domandò, impallidendo, con un sorriso smorto sulle labbra.

             Disgraziato! La morte… la morte… Già ne aveva il segno lì, in faccia, il segno che non falla!

             Glielo aveva scorto in quell’improvviso impallidire.

             I pomelli gli erano rimasti accesi. Spenta l’allegria ecco lì sugli zigomi, i due fuochi della morte, cupi, accesi.

             Annibale Picotti morì difatti circa tre anni dopo le nozze. E fu per Marco il colpo più tremendo.

             Lo aveva previsto, sì, lo sapeva bene che per forza al fratello doveva andargli a finire così. Ma, intanto, che terribile monito per lui, e che schianto!

             Non volle arrischiarsi neanche ad accompagnarlo fino al cimitero. Troppo si sarebbe commosso e troppo dispetto, anzi odio gli avrebbero mosso dentro gli sguardi della gente, che da un canto lo avrebbero compassionato e dall’altro gli si sarebbero fitti acutamente in faccia, per scoprire anche in lui i segni del male di che erano morti tutti i suoi, fino a quell’ultimo.

             No, egli no, non doveva morire! Egli solo, della sua famiglia, l’avrebbe vinta! Aveva già quarantacinque anni. Gli bastava arrivare fino ai sessanta. Poi la morte – ma un’altra, non quella! non quella di tutti i suoi! – poteva pure prendersi la soddisfazione di portarselo via. Non gliene sarebbe importato più nulla.

             E raddoppiò le cure e la vigilanza. Non voleva però in pari tempo che la costernazione assidua, quello starsi a spiare tutti i momenti gli nocesse. E allora arrivò fino a proporsi di fingere davanti a se stesso che non ci pensava più. Sì, ecco, di tratto in tratto, certe parole, come: – Fa caldo – oppure: – Bel tempo

             –   gli venivano alle labbra, sole, non pensate, proprio sole; non che lui le volesse proferire per sentir se la voce non gli si fosse un poco arrochita.

             E andava in giro per le ampie stanze vuote della casa antica, dondolando il fiocco della papalina di velluto e fischiettando.

             La piccola donna Fanny, la cameriera, che non si sentiva ancora tanto vecchia e in parecchi anni che stava lì a servizio non era per anco riuscita a levarsi dal capo che il padrone avesse qualche mira su lei e per timidezza non glielo sapesse dire; vedendolo gironzare così per casa, gli sorrideva e gli domandava:

             – Vuole qualche cosa, signorino?

             Marco Picotti la guardava d’alto in basso e le rispondeva, asciutto:

             –    Non voglio nulla. Soffiatevi il naso! Donna Fanny si storceva tutta e soggiungeva:

             –    Capisco, capisco… Vossignoria mi rimprovera perché mi vuol bene.

             – Non voglio bene a nessuno! – le gridava allora con tanto d’occhi sbarrati. – Vi dico: soffiatevi il naso, perché pigliate tabacco! E quando uno piglia tabacco, non fa veder certe gocce che pendono dal naso.

             Le voltava le spalle, e si rimetteva a fischiettare, dimenando il fiocco e gironzando.

             Un giorno, la vedova del fratello ebbe la cattiva ispirazione di fargli una visita.

             – Per carità, no! – le gridò lui, premendosi forte le mani sul volto per non vederla piangere, così vestita di nero. – Andate, andate via! Non v’arrischiate più a venire, per carità! Volete farmi morire? Ve ne scongiuro, andate via subito! Non posso vedervi, non posso vedervi!

             Un attentato gli parve, quella visita. Ma che credeva colei, ch’egli non pensasse più al fratello? Ci pensava, ci pensava… Soltanto fingeva di non pensarci, perché non doveva, ancora non doveva!

             Per tutto un giorno ci stette male. E anche la notte, nello svegliarsi, ebbe un furioso accesso di pianto, di cui la mattina dopo finse di non ricordarsi più. Ilare, ilare, la mattina dopo; fischiettava come un merlo, e ogni tanto:

             – Fa caldo… Bel tempo…

             Quando i baffi, che gli s’erano conservati ostinatamente neri, cominciarono a brizzolarglisi, come già i capelli su le tempie, anziché affliggersene – ne fu contento, contentissimo. La tisi – poiché tutti i suoi erano morti giovanissimi

             –   gli richiamava l’idea della gioventù. Più se n’allontanava, più si sentiva sicuro. Voleva, doveva invecchiare. Con la gioventù odiava tutte le cose che le si riferivano: l’amore, la primavera. Sopra tutte, la primavera. Sapeva che questa era la stagione più temibile per i malati di petto. E con sorda stizza vedeva rinverdire e ingemmarsi gli alberi del giardinetto.

             Di primavera, non usciva più di casa. Dopo il desinare rimaneva a tavola e si divertiva a far l’armonica coi bicchieri. Se donna Fanny accorreva al suono, come una farfalletta al lume, la cacciava via, aspramente.

             Povera donna Fanny! Era proprio vero che quel brutto padrone non le voleva bene. E se n’accorse meglio, quando ammalò gravemente e fu mandata via, a morire all’ospedale. Marco Picotti se ne dolse soltanto perché dovette prendere un’altra cameriera. E gli toccò di cambiarne tante, in pochi anni! All’ultimo, poiché nessuna più lo contentava e tutte si stufavano di lui, si ridusse a viver solo, a farsi tutto da sé.

             Arrivò così ai sessant’anni.

             Allora la tensione, in cui per tanto tempo aveva tenuto lo spirito, d’un tratto si rilasciò.

             Marco Picotti si sentì placato. Lo scopo della sua vita era raggiunto.

             E ora?

             Ora poteva morire. Ah, sì, morire, morire: era stufo, nauseato, stomacato: non chiedeva altro! Che poteva più essere la vita per lui? Senza più quello scopo, senza più quell’impegno – stanchezza, noja, afa.

             Si mise a vivere fuori d’ogni regola, a levarsi da letto molto prima del solito, a uscire di sera, a frequentare qualche ritrovo, a mangiare tutti i cibi. Si guastò un poco lo stomaco, si seccò.molto, s’indispettì più che mai della vista della gente che seguitava a congratularsi con lui del buono stato della sua salute.

             L’uggia, la nausea gli crebbero tanto, che un giorno alla fine si convinse che gli restava da fare qualche cosa; non sapeva ancor bene quale; ma certamente qualche cosa, per liberarsi dell’incubo che ancora lo soffocava. Non aveva già vinto? No. Sentiva che ancora non aveva vinto.

             Glielo disse, glielo dimostrò a meraviglia quell’uccello impagliato, ritto lì su la gruccia da pappagallo tra le due scansie.

             –   Paglia… paglia… – si mise a dire Marco Picotti quel giorno, guardandolo. Lo strappò dalla gruccia; cavò da una tasca del panciotto il temperino e gli spaccò la pancia:

             –   Ecco qua, paglia… paglia…

             Guardò in giro la camera; vide i seggioloni antichi di finto cuojo e il divano, e con lo stesso temperino si mise a spaccarne l’imbottitura e a trarne fuori a pugni la borra, ripetendo col volto atteggiato di scherno e di nausea:

             –   Ecco, paglia… paglia… paglia…

             Che intendeva dire? Ma questo, semplicemente. Andò a sedere davanti alla scrivania, trasse da un cassetto la rivoltella e se la puntò alla tempia. Questo. Così soltanto avrebbe vinto veramente.

             Quando si sparse in paese la notizia del suicidio di Marco Picotti, nessuno dapprima ci volle credere, tanto apparve a tutti in contradizione col chiuso testardo furore, con cui fino alla vecchiezza s’era tenuto in vita. Moltissimi, che videro nella camera quei seggioloni e quel divano squarciati, non sapendo spiegarsi né il suicidio né quegli squarci, credettero piuttosto a un delitto, sospettarono che quegli squarci là fossero opera d’un ladro o di parecchi ladri. Lo sospettò prima di tutti l’autorità giudiziaria, che si pose subito a fare indagini e ricerche.

             Tra i numerosi reperti trovò un posto d’onore appunto quell’uccello impagliato e, come se potesse giovare a far lume al processo, un bravo ornitologo ebbe l’incarico di definire che razza d’uccello fosse.

L’uccello impagliato – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
L’uccello impagliato – Audio lettura 2 – Legge 
Lorenzo Pieri
L’uccello impagliato – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza
L’uccello impagliato – Audio lettura 4 – Legge Valter Zanardi

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